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La presenza di Dio

Ultimo Aggiornamento: 12/06/2020 09:44
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14/01/2011 19:18
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Il freddo Natale
Gianfranco Ravasi

-Ne l'orto il melo ha l'aria di un disegno./ Il vento macina la neve./ Le campane imbastiscono il corredo/ per il freddo di Natale./ L'anguilla tradizionale sfrigola nello spiedo./ Il micio dorme sul leggiadro/ tappeto del colore delle mandorle acerbe;/ la luce d'un tizzo si riverbera/ nella cornice dorata d'un quadro. In questo delizioso quadretto del poeta ferrarese Corrado Govoni (1884-1965), tratto dalla raccolta Armonia in grigio et in silenzio (Scheiwiller 1989), c'è un po' tutto il "colore" del Natale. Ci sono le sensazioni che si provavano fin da piccoli, i sentimenti che ritornano ad affiorare nella nostalgia anche oggi, quando non è più la campagna ad accoglierci ma la città senza focolare, campane, meli e orti. Tutte cose belle e suggestive, certamente.

Ma è attorno ad esse che si consuma da tempo un equivoco, che rende il Natale una festa appunto di "colore". La fede autentica è, sì, sostenuta dai simboli ma non si esaurisce in essi. Si nutre anche di emozioni, ma è ben altro e va oltre.

È per questo che, senza rinunciare all'infanzia e al «paese abbandonato/ tra le dense nebbie,/ dolcemente scampanante,/ al presepe tappezzato/ di borraccina e di ghiaia rilucente» - come dicono altri versi di Govoni -, è necessario procedere verso il cuore del Natale, verso l'evento che sta alla sua radice, verso l'incontro d'amore e di vita con Dio e col fratello. Ci guidano, allora, i versi di un altro poeta, David M. Turoldo: «Vieni, Signore,/ spada di fuoco/ fra tenebre e luce:/ linea fulminante/ ove si consuma la notte».



Fonte - - Rubrica "Avvenire"


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14/01/2011 20:20
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!

Innocenza
Gianfranco Ravasi

L'innocenza non è una perfezione della quale si debba desiderare il ritorno. Desiderarla, infatti, significa che si è già perduta. E allora è un nuovo peccato perdere il tempo in desideri.
Festa dei Santi Innocenti: sappiamo tutti che oggi la liturgia commemora quel sangue versato attorno alla culla di Gesù bambino, emblema di una scia infame di violenze che colpiscono gli innocenti di tutti i tempi, striando di lacrime e sangue la storia dell'umanità.
Di altro genere è la riflessione che oggi proponiamo, basandoci su un passo del Concetto d'angoscia del filosofo danese ottocentesco Soeren Kierkegaard, da noi spesso convocato in questo spazio mattutino.

Si leggano attentamente quelle tre frasi. La prima ci ricorda che l'innocenza non è mera assenza di colpa, ma pienezza e perfezione di vita, di fede e di amore. Per questo è innanzitutto un dono, una grazia. Secondo: se noi ne sentiamo il desiderio e la nostalgia, è segno che l'abbiamo perduta e quindi non c'è in noi quiete e serenità, pace e fiducia. Terza osservazione: a questo punto è inutile perdersi in malinconie e in sospiri; è necessario, invece, ritornare a chiederne la grazia a Dio e a preparare lo spirito perché accolga l'innocenza ridonata. Come confessava in una sua lettera lo scrittore cattolico francese Georges Bernanos, «ho perso l'innocenza e non la potrò riconquistare se non attraverso la santità».

È aprendoci a Dio, alla sua luce e alla sua azione che il nostro cuore tornerà ad essere innocente, puro e trasparente come una sorgente.



Fonte - - Rubrica "Avvenire"


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14/01/2011 22:46
 
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Distruggere la Chiesa
Gianfranco Ravasi

«Io distruggerò la vostra Chiesa», disse Napoleone al cardinale Consalvi. «Maestà, sono venti secoli che noi stessi cerchiamo di fare questo e non ci siamo riusciti», rispose il Segretario di Stato di Pio VII.
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Parleremo della Chiesa nella solennità dei Ss. Pietro e Paolo e lo facciamo con questo gustoso apologo che trovo in apertura alla voce "Chiesa" del volume Spunti & Appunti di Leonardo Sapienza (ed. Rogate). Lo spunto auto-ironico di quel cardinale è di facile assimilazione e applicazione un po- a tutti noi cristiani, perché, come membra vive della Chiesa, abbiamo spesso fatto di tutto per paralizzarla, ferirla, umiliarla.
Tuttavia la presenza divina, assicurata dalle parole di Cristo rivolte a Pietro («le porte degli inferi non prevarranno contro di essa») fa sì che la Chiesa continui nei secoli come segno di amore, di verità, di speranza.Vorrei a questo punto lasciare la riflessione a un sacerdote che soffrì per la Chiesa e anche attraverso la Chiesa, conservandone intatta la fedeltà e l-amore, don Primo Mazzolari:

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«Custode di un-eredità che non muore: anello di comunicazione misteriosa e magnifica tra la patria delle cose puerili e quella delle cose eterne: stranamente vituperata nei giorni dell-ira e vivamente necessaria agli stessi vituperatori nei giorni dell-infortunio.
Tu, o Chiesa, possiedi un libro, una croce, un pane con cui puoi alzare gli schiavi, insegnare, benedire, compiangere». Il libro, la croce e il pane sono i suoi veri tesori e sono il segno della sua sfida alla morte, perché essi sono la presenza viva, eterna ed efficace del Padre, di Cristo e dello Spirito.



Fonte - - Rubrica "Avvenire"


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15/01/2011 00:18
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!
Invidia
Gianfranco Ravasi

Ecco un invidioso: non augurategli di avere dei figli; sarebbe geloso di loro perché non può avere la loro età.
Così scriveva nella Gaia scienza il filosofo Nietzsche (1844-1900), definendo in modo paradossale (ma non troppo) quel vizio vorace che è l-invidia. Essa è una vera e propria malattia che si riverbera sul paziente travolgendolo, impedendogli la pace, rendendolo acre e cattivo ma soprattutto infelice.

Egli è pronto a tutto, ricorre solitamente alla calunnia ma il suo cervello in fiamme sogna anche delitti più terribili per l-oscuro oggetto della sua gelosia: lo sogna morto, colpito da un ictus, ridotto alla più nera umiliazione. Si compie nell-invidioso la famosa legge detta della "nemesi immanente": il suo stesso peccato contiene in sé la condanna. Cervantes, proprio nel suo capolavoro, il Don Chisciotte, esclamava: «O invidia, radice di mali infiniti, verme roditore di tutte le virtù!».
Purtroppo uno schizzo di invidia colpisce l-anima di tutti. Così, è facile stare vicino, consolare, piangere con un amico in disgrazia: lo si fa con sincerità e passione.

Ma non so se è altrettanto facile condividere nella gioia e nella festa assoluta il successo e il trionfo dello stesso amico. Pur combattendola, l-invidia ritorna sempre ad agitarsi nel cuore. Nei Nuovi racconti romani Moravia osservava: «L-invidia è come una palla di gomma che più la spingi sotto e più ti torna a galla». Perciò, non bisogna mai abbassare la guardia e ricordare le parole della Bibbia: «Un cuore sereno è vita per tutto il corpo, l-invidia è come un cancro per le ossa» (Proverbi 14, 30). Dobbiamo chiedere a Dio che ci liberi da questo vizio che disgrega l-anima e il corpo.



Fonte - - Rubrica "Avvenire"


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[Modificato da Bestion. 15/01/2011 00:22]
15/01/2011 14:26
 
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No al qualunquismo
Gianfranco Ravasi

Democrazia significa governo fondato sulla discussione, ma funziona soltanto se riesce a far smettere la gente di discutere.
È famosa la frase pronunziata da Winston Churchill: «È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono finora sperimentate».
È, invece, del suo avversario politico e successore Clement Attlee (1883-1967) la definizione di democrazia sopra citata.

Come tutte le realtà umane, anche la democrazia rivela due volti antitetici: può essere espressione di libertà del popolo ma anche può dilagare in confusione anarchica ed essere un alibi per nascondere il potere di chi sa condizionare il consenso.Lo scrittore George B. Shaw metteva in bocca a uno dei suoi personaggi questa battuta: «La democrazia sostituisce l-elezione da parte dei molti incompetenti alla nomina da parte di pochi corrotti».

E in tal modo liquidava sia la democrazia sia la dittatura, rischiando il qualunquismo. Domani è la festa della Repubblica Italiana: dovremmo riflettere maggiormente sui valori e sui limiti della politica, sui rischi e sulle ambiguità che si annidano nell-esperienza della gestione della cosa pubblica e soprattutto ritrovare un maggiore senso civico e critico.

La legalità rigorosa, la moralità sociale, la tutela dei diritti e dei doveri, l-attenzione ai condizionamenti subdoli, il rispetto nel dibattito politico, il pluralismo e così via elencando sono realtà nei cui confronti non si può essere indifferenti né come cittadini né come cristiani.



Fonte - - Rubrica "Avvenire"


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15/01/2011 15:39
 
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Il gatto e il topo
Gianfranco Ravasi

Le scimmie predicarono l-ordine nuovo, il regno della pace.
E tra i primi entusiasti furono la tigre, il gatto e il nibbio. Poco a poco, tutti gli altri animali si convinsero. E fu un tripudio dolcissimo, una fraterna agape vegetariana.
Ma un giorno il topo, urbanamente scherzando col gatto, si trovò rovesciato sotto le unghie del recente amico. Capì che la cosa si metteva come per l-antico. Con tremula speranza ricordò al gatto i princìpi del nuovo regno. «Sì - rispose il gatto - ma io sono un fondatore del nuovo regno». E gli affondò i denti nel dorso.

Che alcuni siano più uguali degli altri e quindi superiori era già l-amara lezione della Fattoria degli animali di George Orwell. Che la prevaricazione del più forte ignori ogni vincolo di legge o di alleanza ce lo ricordavano già Esopo e Fedro. Il tema ce lo ripropone anche il nostro Leonardo Sciascia nelle sue Favole della dittatura (1950).

La storia si premura di mostrarci come la visione isaiana (11, 6-8) del lupo che dimora con l-agnello, della pantera sdraiata accanto al capretto, del vitello e del leone che pascolano insieme e del bambino che gioca con la vipera, sia soltanto una speranza. Ancor oggi la lezione triste di Sciascia si ripete sia nei grandi eventi politici sia nella modesta, quotidiana vicenda della nostra vita. Il gusto di prevalere sugli altri, il considerarli come mezzi per raggiungere i nostri scopi, la sottile violenza perpetrata in tanti rapporti sociali sono un morbo che intacca un po- tutti.

L-appello evangelico risuona, perciò, inascoltato anche dagli stessi cristiani. Diceva con amarezza Qohelet: «Ecco il pianto degli oppressi che non hanno chi li consoli; da parte dei loro oppressori sta la violenza, ma per essi non c-è chi li consoli» (4, 1).



Fonte - - Rubrica "Avvenire"


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15/01/2011 18:14
 
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Il coraggio
Gianfranco Ravasi

Molte volte più nelle piccole cose che nelle grandi si conoscono i coraggiosi.
Fino al giorno della morte, nessuno può essere sicuro del proprio coraggio.Ecco due frasi accomunate dallo stesso tema, il coraggio, una realtà non sempre da lodare perché non di rado può essere solo incoscienza.

Alberto Moravia in uno dei suoi Racconti romani, intitolato appunto "L-incosciente", scriveva: «Non c-è coraggio e non c-è paura. Ci sono soltanto coscienza e incoscienza. La coscienza è paura, l-incoscienza è coraggio». Ma senza giungere a questo ribaltamento paradossale, le due considerazioni sopra citate aiutano a ridimensionare un-esaltazione acritica del coraggio.
La prima frase è tratta dal Cortegiano di Baldassarre Castiglione (1478-1529). La lezione è chiara: essere fedeli, coerenti, pazienti, costanti nelle piccole cose è molto più arduo e degno di ammirazione di quanto sia essere coraggiosi in un atto estremo, clamoroso, compiuto in stato di ebbrezza e di esaltazione.

In questo senso sono più "coraggiosi" tanti padri e madri che passano la vita nell-impegno severo e continuo per la loro famiglia che non l-eroe patriottico che compie il gesto audace in un impeto veemente. E qui vien giusta l-altra frase che traggo dal famoso dramma Becket e il suo re del francese Jean Anouilh (1910-1987). È la storia del primate d-Inghilterra, che diverrà santo proprio per il suo coraggio di opporsi a un ordine immorale del re. È di fronte alla morte che egli sperimenta cosa significhi veramente essere coraggiosi e quindi sereni. Le piccole prove della vita, i contrasti e le fatiche impallidiscono di fronte a quell-istante da vivere con fede e dignità.



Fonte - - Rubrica "Avvenire"


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16/01/2011 23:25
 
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Fiele e miele
Gianfranco Ravasi

Civile, esser civile, vuol dire proprio questo: dentro, neri come corvi; fuori, bianchi come colombi; in corpo fiele; in bocca miele. Così definisce la cosiddetta "civiltà" Paolino, uno dei personaggi del dramma L-uomo, la bestia e la virtù di Luigi Pirandello (1867-1936), facendosi interprete del pessimismo del suo creatore.

L-ipocrisia sembra troppo spesso il sale delle relazioni umane. All-esterno si è candidi come colombi, in realtà si è come i ben noti "sepolcri imbiancati" dell-accusa di Gesù. Le parole sono educate, fin adulatorie e dentro si cova odio e disprezzo. La sincerità è sempre costosa, talora ardua; praticare l-altro motto di Cristo, «Sì, sì, no, no, perché tutto il resto viene dal Maligno», è un-impresa non conveniente nella maggioranza dei casi.
George Bernard Shaw nel suo Uomo e superuomo ironizzava dicendo che «è pericoloso essere sinceri, a meno di essere anche stupidi» e Oscar Wilde continuava: «Un po- di sincerità è una cosa pericolosa; molta sincerità è poi assolutamente fatale». Bisogna, quindi, essere molto coraggiosi per adottare a emblema la sincerità. La quale, però, non è necessariamente sinonimo di ingenuità e di faciloneria.

E a questo proposito diventa prezioso un altro celebre monito di Gesù ad essere «semplici come colombe e astuti come serpenti». In tutte le cose è necessaria la sapienza che sa discernere, la pazienza che sa attendere, la dolcezza che non recrimina, il controllo che non fa procedere istintivamente. Alla sincerità, che rimane comunque lo stile di fondo, deve dunque sempre coniugarsi la prudenza, la discrezione, la delicatezza.



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17/01/2011 17:31
 
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Il Bambino
Gianfranco Ravasi

Il bambino risuscita sempre e torna, franco e sorridente, a vivere in mezzo agli uomini. Come è stato detto, il bambino è l'eterno Messia che sempre ritorna tra gli uomini decaduti, per condurli nel regno dei cieli. I Magi, «entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono». È questo il vertice ideale del viaggio e del racconto dei Magi che oggi verrà letto in tutte le chiese del mondo (Matteo 2,11).
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Al centro, dunque, c'è quel Bambino che, una volta cresciuto e diventato un maestro, non esiterà a porre davanti a tutti come modello proprio un bambino, in una società che non gli assegnava nessun diritto fino alla maggiore età, dichiarando: «Se non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli; chiunque si fa piccolo come un bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli» (Matteo 18,3-4). Su questa scia si muove la citazione che proponiamo oggi, traendola dal Segreto dell'infanzia della famosa educatrice Maria Montessori (1870-1952).

Noi vorremmo sottolineare soprattutto un aspetto legato a un'esperienza comune: il bambino piomba in un pianto così disperato che ha quasi il sapore di un dolore cosmico; ma pochi minuti dopo, eccolo sorridente, tutto occupato in un gioco. La sua è veramente una risurrezione, come scrive la Montessori, e denota quella freschezza e fiducia permanente che lo anima. È questa anche la lezione che egli offre agli occhi di Cristo quando lo propone come modello: la fiducia del bimbo è una fede assoluta nell'altro e nel futuro.
Ed è per questo che è infame ogni violazione che viene compiuta nei confronti della sua purezza, apertura, libertà di spirito.

Noi dobbiamo imparare da lui a congiungere nella nostra vita semplicità e grandezza, fiducia e realtà, serenità e prova.



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17/01/2011 19:07
 
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Condannati alla mediocrità
Gianfranco Ravasi

Oggi abbiamo perso l'abitudine al silenzio, perché abbiamo paura di confrontarci con la verità. Così non possiamo crescere: siamo condannati alla mediocrità.

La cuffia infilata a chiudere gli orecchi, la testa dondolante al ritmo di una musica assordante ma per gli altri silenziosa, un ragazzo viaggia seduto davanti a me su un autobus serale poco frequentato. A prima vista questa sembra l'immagine della solitudine necessaria per ritrovare se stessi, evitando la dispersione nella massa. In realtà, questo è solo un isolamento che si colma di suoni martellanti e che lentamente ottunde il cervello e smorza sul nascere ogni pensiero vero. A questa scena ormai comune vorrei accostare l'altro sfondo che lo scrittore Mario Pomilio (1921-1990) ci propone nel testo che ho sopra citato. È simile al quadretto offerto da Gesù nel suo Discorso della Montagna: «Quando preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo nel segreto-» (Matteo 6,6).

Senza questo bagno di silenzio, la verità si appanna e si dissolve, la coscienza resta sorda e inerte, il cuore perde il suo battito d'amore. «Solo il silenzio è grande - scriveva il poeta ottocentesco Alfred de Vigny - tutto il resto è debolezza». Se rifiuti di sostare almeno qualche minuto al giorno in quell'oasi e ti precipiti subito nel frastuono della città, in agguato sulla strada della tua vita c'è il mostro della mediocrità che è tutt'altro che "aurea", come credeva il poeta latino Orazio. Essa, infatti, è vestita di grigiore, si nutre di chiacchiere, si affida allo sfarfallio delle mode, teme la limpidità della verità e dell'impegno serio ed esigente. Sulla mediocrità incombono le parole del Cristo dell'Apocalisse, simili a una spada di ghiaccio: «Tu non sei né freddo né caldo, ma sei tiepido, ed è per questo che sto per vomitarti dalla mia bocca» (3,15-16).




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17/01/2011 22:06
 
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Re: perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti e di sole????
Bestion., 14/01/2011 22.46:



Distruggere la Chiesa




ma dai lasciamo perdere la grande prostituta [SM=x44601] [SM=x44602] [SM=x44602] devi ammettere bestion che come "demo" niente male [SM=x44604] [SM=x44644] [SM=x44644] sembra un gioco "uno contro il resto del mondo" [SM=x44606] [SM=x44606] [SM=x44602] [SM=x44602] proprio come lo immagino inizia piano piano il canto [SM=x44600] [SM=x44600] [SM=x44599] e poiiiiiiiiii vai con la musica [SM=x44644] [SM=x44644] [SM=x44644] [SM=x44644] [SM=x44644] "la cavalcata delle valchirie"
si si questo lo metto nel mio libro [SM=x44599] [SM=x44598] [SM=x44600] [SM=x44600] [SM=x44601]


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non bisogna avere paura di un Popolo che non ha Potere ma di chi detiene il Potere di Quel Popolo
anche perché la MORTE non accetta una lira
18/01/2011 23:02
 
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Il tetto di Dio
Gianfranco Ravasi

La misericordia di Dio è come il cielo che rimane sempre fermo sopra di noi. Sotto questo tetto siamo al sicuro, dovunque ci troviamo.
È, questa, la voce di Martin Lutero. La facciamo risuonare nella giornata di apertura della Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani.
Nella Bibbia il cielo è considerato come una calotta metallica (il "firmamento") che incombe stabile sulla terra. È la stessa immagine che il celebre riformatore usa per descrivere la bontà misericordiosa di Dio: essa è il tetto della casa del mondo ove gli uomini e le donne vivono, agiscono, peccano, pregano, amano.
Su questa folla, quindi, non è fisso un occhio che atterrisce. Certo "il Signore dal cielo si china sui figli dell'uomo per vedere se c'è un uomo saggio, uno che cerchi Dio".

E la scoperta che spesso fa è «che essi sono tutti traviati, tutti corrotti» (Salmo 14, 2-3). C'è, dunque, uno sguardo di giustizia; ma a prevalere è l'occhio sorridente dell'amore paterno. E a questo punto vorremmo accostare a quello di Lutero un passo del Diario di Etty Hillesum, donna ebrea olandese di grande intelligenza e spiritualità, assassinata dai nazisti.

Come lei scrive, è «una buffa immagine», eppur profonda: anche noi nelle nostre case, nei nostri cuori possiamo offrire un tetto a Dio perché dimori con noi e in noi.
Ecco le sue parole: «Ti prometto, o Dio, che cercherò sempre di trovarti una casa, un ricovero.

Io mi metto in cammino e cerco un tetto per te. Ci sono tante case vuote, te le offro come all'ospite più importante». È, questa, una continuazione ideale della mini-parabola del Cristo dell'Apocalisse: «Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3, 20).



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19/01/2011 17:20
 
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Il ritratto di un vecchio
Gianfranco Ravasi

Quello che oggi è un giovane pieno di fuoco farebbe un balzo indietro, inorridito, se potesse vedere il ritratto di se stesso quando sarà vecchio.
Portate, allora, con voi lungo la via tutti i moti generosi dell'animo, non li abbandonate lungo il cammino.

Nei giorni scorsi ho incontrato una nota attrice che nella mia memoria conservava ancora il volto perfetto che da giovane avevo visto brillare nei suoi film o in televisione. Ora quei lineamenti erano appena riconoscibili sotto il velo del tempo: lei stessa mi confessava con semplicità di non aver mai pensato allora che lo specchio avrebbe, a distanza di anni, riflesso un viso così diverso. C'è, però, chi vive questa evoluzione naturale con orrore e si aggrappa disperatamente al bisturi del chirurgo plastico, ripetendo l'illusione del celebre Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde: come è noto, quel bellissimo giovane, ossessionato dall'idea di invecchiare perdendo la sua avvenenza, compie un sortilegio che gli permette di trasferire ogni degenerazione del suo viso sul suo ritratto e non sulla sua fisionomia.

Non raccontiamo il tragico sbocco di quella folle magia. Ci affidiamo, invece, all'invito di un'altra grande opera letteraria, proponendo oggi un paragrafo del romanzo Le anime morte (1942) del russo Nikolaj Gogol. L'appello è chiaro: non contano la rete di rughe e la patina del tempo trascorso quando si porta dentro di sé la freschezza degli ideali coltivati in gioventù. L'energia dello spirito può pulsare anche in membra infiacchite; anzi, ci sono molti fiori che emanano un profumo più intenso verso sera, quando il giorno cala verso il tramonto.

Il poeta americano Walt Whitman, nel suo capolavoro Foglie d'erba, scriveva: «Gioventù grande, gagliarda, innamorata, / piena di grazia, forza e fascino, / non sai che la vecchiaia può venire dopo di te / con eguale grazia, forza e fascino?». La vecchiaia è triste non perché cessano le gioie, ma perché finiscono le speranze.



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[Modificato da Bestion. 19/01/2011 17:22]
19/01/2011 19:37
 
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L'homo zappiens
Gianfranco Ravasi

Una conferenza internazionale: una riunione per decidere quando si terrà la prossima riunione.
Un comitato: dodici persone che fanno il lavoro di una. Sono due rasoiate queste definizioni sarcastiche, desunte rispettivamente dall'ironico Left Handed Dictionary curato dall'americano L.L. Levinson e dal divertente Terzo libro di Murphy sugli assurdi della società "evoluta", collezionati da un altro americano, Arthur Bloch (spesso gli USA sono la patria di tante stravaganze, poi diligentemente imitate da altre nazioni).
Il tema è evidentemente comune alle due citazioni: si moltiplicano senza fine comitati, consigli, riunioni, assemblee, incontri (anzi meeting), conferenze e così via per produrre una valanga di carta e chiacchiere e solo qualche raro e scarno risultato.

Il Belli, nei suoi Sonetti romaneschi, era altrettanto lapidario: «Li discorsi sò come le cerase, / che ne piji una e te viè appresso er piatto». Vaniloquio televisivo, imbonimento politico, chiacchiera popolare rivelano la verità di quanto ammoniva uno scrittore messicano, Octavio Paz, Nobel 1990: «Una nazione si corrompe, quando si corrompe il suo linguaggio».

Dall'ironia scherzosa sulla burocrazia si passa, così, a una cosa più seria: la degenerazione del linguaggio conduce alla volgarità nei comportamenti, alla brutalità nei rapporti, alla stessa incomunicabilità. Come è stato detto, dall'homo sapiens siamo passati all'homo zappiens che, saltabeccando sui canali televisivi, diventa sempre più superficiale nel dire e nel fare, temendo e rifuggendo da ogni approfondimento e dalla riflessione.

Pratichiamo, allora, un po' tutti l'ascesi nel dire e nel fare, prosciugando le labbra dalle parole stupide e inutili e le mani dalle opere vane.



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19/01/2011 23:03
 
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Dimenticarsi di vivere
Gianfranco Ravasi

Se debbo chiudere gli occhi senza sapere da dove vengo e dove vado, valeva la pena che li aprissi?
È stato solo negli ultimi anni della sua vita (morirà nel 2001) che io ho potuto frequentare Indro Montanelli.
Anch'io allora abitavo a Milano e ci incontravamo nella sua casa, parlando a lungo, lasciando spazio soprattutto all'immenso bagaglio dei suoi ricordi. Spesso, però, il discorso scivolava verso il terreno più spinoso delle domande ultime, come quella che oggi propongo, traendola da un testo del famoso giornalista, ma anche dalla mia memoria di quei dialoghi.
Con la lucidità tagliente che tutti gli riconoscevano, egli poneva in questo interrogativo il dramma dei suoi momenti di solitudine, di desolazione e persino di depressione.

Allora, e a maggior ragione in queste poche righe, non mi è certo possibile abbozzare una risposta, tenendo conto poi del fatto che l'umanità da sempre si è lasciata afferrare e scuotere da questa impietosa verità riguardante il senso della vita, elaborando infinite teorie.
Vorrei solo affermare che forse la cosa più importante non è tanto trovare la risposta definitiva alla domanda (questa risposta dev'essere conquistata durante tutta la vita), quanto piuttosto lasciarla risuonare dentro noi stessi, non sotterrarla sotto cumuli di chiacchiere o annebbiarla nel godimento cieco o nella distrazione alienante.

Ecco, allora, la necessità di un sobbalzo, di un fremito, di un sussulto interiore: che senso ha questo anno che sta svolgendosi davanti a me? «Tre sono gli eventi fondamentali dell'esistenza - scriveva Jean de la Bruyère, filosofo francese del Seicento -, cioè nascita, vita e morte. L'uomo non sa di nascere, muore soffrendo e purtroppo si dimentica di vivere».



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20/01/2011 14:43
 
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Professione teologo


“Il Credo" - Daniel Hopfer (acquaforte, 1° metà XV secolo) - Pinacoteca Nazionale, Bologna

«La teologia non è né clericale né laicale, né maschile né femminile:
quel che importa è che sia "teologia" e non altro, cioè che sia
un "discorso che dica Dio", e che esponga la verità della fede
cattolica eliminando gli errori contrari»




Quelli che riflettono
sull'invisibile

di Inos Biffi

Elaborare una teologia per il nostro tempo, che risponda alle attese del mondo, che ne assuma il linguaggio e le aspirazioni: è l'incombenza abitualmente assegnata a quanti fanno di professione il teologo.

Intanto giustifichiamo questo modo di esprimersi: fare di professione il teologo. Qualcuno parla di carisma o di ministero del teologo, il che può anche aver senso, se si intende mettere in luce che la teologia è un servizio nella Chiesa. Solo che si deve subito aggiungere che non si diventa teologi per grazia o per una speciale missione ricevuta, ma perché si ha una particolare capacità e attitudine a riflettere sulla fede o a esplorare il mistero cristiano; se a questo ci si dedichi assiduamente come a un lavoro arduo ed esigente, facendone una laboriosa scelta di vita.
Oggi si è molto larghi e facili nel concedere o nel concedersi il titolo di teologo: nella storia della teologia troviamo un criterio ben differente.

Tommaso d'Aquino era di parere diverso. Egli riteneva che la professione del teologo - o, come egli la definisce, l'officium sapientis - sia impresa che oltrepassa le possibilità umane (proprias vires excedit) e può esercitarsi solo affidandosi alla bontà divina (assumpta ex divina pietate fiducia).
D'altra parte, lo stesso Dottore è persuaso che fare teologia sia la sua vocazione e che Ego hoc vel praecipuum vitae meae officium debere me Deo conscius sum, ut eum omnis sermo meus et sensus loquatur ("l'impegno principale a cui è chiamato da Dio consista nel dedicarsi, con tutte le sue energie, spirituali e materiali, a parlare di Lui", Summa contra Gentiles, i, 2).
Ma, proprio per questo, nulla lo distrarrà da questo suo proposito (propositum nostrae intentionis); non lo alletterà neppure l'offerta di prestigiose prelature; di fatto giungerà al termine della sua vita esausto, proprio per aver consumato tutte le sue risorse in questo studium, che, tra tutti, considerava perfectius, sublimius, utilius et iucundius ("il più perfetto, il più sublime, il più utile e il più gioioso", ibidem).

Oggi, ancora, si sente anche rivendicare un diritto quasi sindacale di fare teologia: diritto anche dei laici e anche delle donne, ma tutto questo non ha molto senso. È ovvio che anche i laici e le donne possano esercitare la professione del teologo. La teologia non è né clericale né laicale, né maschile né femminile: quel che importa è che sia "teologia" e non altro, cioè che sia - come diceva Tommaso - un "discorso (sermo) che dica Dio", e che esponga la verità della fede cattolica (veritas quam fides catholica prophitetur) eliminando gli errori contrari (errores eliminando contrarios). Tutto il resto è chiacchiera. E lo stesso vale per la filosofia: pensiamo a due donne, Edith Stein e, da noi in Italia, a Sofia Vanni Rovighi.
Ma qui, sempre prendendo spunto dall'Angelico, vorremmo riprendere il rilievo iniziale sulla teologia a cui spetterebbe il compito di ammodernarsi, per rispondere alle attese del nostro tempo.
In realtà, crederei che si debbano variare leggermente i termini della questione e cioè affermare esattamente il contrario: non è la teologia che deve aggiornarsi all'evolversi del tempo, ma è il tempo che deve stare al passo della teologia, o meglio della Rivelazione, ricevuta nella fede. Non è Dio che si deve porre in ascolto dei bisogni e dei desideri dell'uomo, ma è l'uomo che deve accogliere l'eterno progetto divino, che sarà sempre "inattuale" per ogni uomo in ogni epoca.

La teologia si occuperà, quindi, delle Tre Persone della Trinità, di Gesù Cristo, il Figlio di Dio, morto e risuscitato, dell'elezione in lui di tutta la realtà terrena e celeste, e specialmente dell'uomo, predestinato a condividere la gloria del Signore; tratterà quindi della Chiesa, che è il Corpo mistico di Cristo e il segno della sua riuscita; del peccato e della grazia; del Paradiso e dell'Inferno e di tutto quanto appartiene alla Parola rivelata.
Proprio facendo questo la teologia risulterà aggiornata, dal momento che tutte queste cose riguardano il perenne disegno di Dio sull'uomo storico e sul mondo in cui viviamo. Non è Dio che deve apprendere le attese umane per corrispondervi, ma è l'uomo che deve imparare le attese divine per conformarvisi.

La teologia fissa lo sguardo sulle cose invisibili, e perciò la sua materia, a cominciare dalla Trinità, rappresenta la realtà più concreta che si possa immaginare. Secondo quanto dichiara Paolo: "Noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne" (2 Corinzi, 4, 18) per cui non hanno bisogno di aggiornarsi.
Nella misura in cui la sacra dottrina scruta e propone il piano di Dio mostra ciò che assolutamente conta per l'uomo - l'uomo non solo di oggi o di domani, ma di sempre -, ossia la sua salvezza così come Dio l'ha concepita e l'ha attuata in Cristo. Invece, nella misura in cui la medesima sacra dottrina si mette alla scuola dell'uomo, fraintende l'uomo stesso e lo inganna o lo illude, e solo in apparenza lo ha a cuore. In fondo siamo in una visione di alternativa o di dialettica tra Dio e l'uomo, come preoccupati di non cedere troppo al primo a scapito del secondo, mentre nel mistero dell'Incarnazione è proprio Dio a mostrare quando l'uomo sia in cima alla sua predilezione e al suo amore.

Detto questo, aggiungiamo che è senza dubbio un dovere del teologo usare un linguaggio trasparente, incisivo, sgombro di questioni inutili appartenenti a discussioni del passato, capace di illuminare le scelte che i diversi tempi con le loro urgenze impongono. Ma questo dovere verrà assolto appunto se lo sguardo della teologia sarà rivolto verso il mistero di Dio che è Gesù Cristo, cioè verso il mondo autentico e stabile della Grazia.

Abbiamo parlato della teologia: ovviamente tutto questo vale non meno per la predicazione e la catechesi, che ugualmente, stemperandosi in un'apparente "attualità", alla fine suscitano disinteresse, se non disgusto, e rendono omelie ed esortazioni di una noia mortale; invece che sorprendenti e attraenti per la novità, insopportabili per la monotonia.




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20/01/2011 16:15
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Da Leone XIII a Benedetto XVI
passando per Paolo VI e Giovanni Paolo II





«Bisogna sapere essere antichi e moderni,
parlare secondo la tradizione ma anche
conformemente alla nostra sensibilità.
Cosa serve dire quello che è vero, se
gli uomini del nostro tempo
non ci capiscono?»

(Paolo VI)



Se l'intervistato è il Papa

Giovanni Maria Vian

Il nuovo libro di Benedetto XVI, intervistato dal giornalista tedesco Peter Seewald, ha suscitato, com'era del resto facilmente prevedibile, molto interesse nei media internazionali e, soprattutto, è un successo editoriale nella decina di edizioni in diverse lingue in cui è stato pubblicato, mentre altrettante sono in preparazione. Non è infatti frequente che un Papa conceda interviste e, soprattutto, anche in questa occasione Joseph Ratzinger si conferma un comunicatore di primissimo ordine. Per di più, senza utilizzare improbabili strategie che, non di rado in questi ultimi tempi, commentatori in genere poco benevoli si premurano di consigliare agli organismi della Santa Sede, se non addirittura allo stesso successore di Pietro. Che riesce invece efficacissimo solo con l'essere se stesso, semplice e trasparente, in questa lunga intervista, sorprendente solo per chi non lo conosce, così come nei discorsi e in molti altri testi, in particolare nelle omelie.
Non è certo la prima volta che un Papa utilizza il genere letterario dell'intervista. All'inizio sta il lontano precedente di quella a Leone XIII sull'antisemitismo, su cui ha scritto Giovanni Miccoli nei saggi in onore di Giuseppe Alberigo raccolti con il titolo Cristianesimo nella storia (1996). Pubblicato in prima pagina su "Le Figaro" del 4 agosto 1892, il clamoroso articolo era di Séverine, pseudonimo di Caroline Rémy.

Firma tra le più conosciute del giornalismo francese, si era presentata al cardinale segretario di Stato, Mariano Rampolla del Tindaro, in una lettera del 9 luglio, come "una donna che era stata cristiana e se ne ricorda, per amare i piccoli e difendere i deboli" e come "una socialista che, se non è in stato di grazia, ha serbato intatto, nel suo cuore ferito, il rispetto profondo della fede, la venerazione delle vecchiaie auguste e delle sovranità prigioniere". La richiesta fu subito accolta e l'intervista, che durò settanta minuti, ebbe luogo domenica 31 luglio. Pur rivista dal segretario di Stato, non soddisfece la Santa Sede e sollevò una tempesta mediatica, ma più sul piano politico e diplomatico che sull'oggetto della singolare conversazione tra il Pontefice ottantaduenne e l'ardente giornalista francese.

Totalmente diverso fu l'incontro di Paolo VI, il 24 settembre 1965, con Alberto Cavallari, che pubblicò il colloquio sul "Corriere della Sera" del 3 ottobre, aprendo una serie di articoli poi raccolti nel libro Il Vaticano che cambia (1966). Con un atteggiamento che al giornalista apparve "un preciso rifiuto al classico monologo dei Papi", subito emergono l'ironia e l'acutezza tipiche di Montini: "Vedevo un uomo disteso, spontaneo, poco somigliante al Papa scarno, teso, oppure introverso, oppure nervoso, oppure diplomatico, che solitamente si descrive. "Ci fa piacere, sa, parlare del Vaticano" ha detto subito il Papa affabilmente, con espressione arguta. "Oggi molti cercano di capirci e di studiarci. Ci sono tanti libri sulla Santa Sede e il Concilio. E alcuni sono anche ben fatti, vede. Ma molti assicurano che la Chiesa pensa certe cose senza aver mai chiesto alla Chiesa cosa pensa. Mentre, dopotutto, anche il nostro parere dovrebbe contare qualcosa in tema di religione". Qui il Papa ha fatto una pausa, una parentesi divertita. Poi ha continuato spegnendo il sorriso: "Ma ci rendiamo conto che non è facile intendere ciò che viene fatto e viene discusso nel mondo della Chiesa. Anche il Papa, sa, certe volte fatica per capire il mondo d'oggi". Dopo questo preambolo senza formalità, così francamente umano, Paolo VI ha toccato gli argomenti più importanti del suo pontificato".

Ma la vera novità furono i Dialogues avec Paul vi (1967) di Jean Guitton, che si aprivano con l'evocazione di quelli platonici e il ricordo - "nella mia memoria tutto è contemporaneo" scrive il pensatore francese - del primo incontro, l'8 settembre 1950, tra l'intellettuale e l'allora sostituto della Segreteria di Stato. Proprio quell'anno il filosofo cattolico aveva pubblicato un libro sulla Madonna, "indirizzato soprattutto ai negatori, ai razionalisti" e "dedicato ai nostri fratelli protestanti", ma non accolto favorevolmente da "certi ambienti romani" e biasimato dal quotidiano vaticano. E il commento di Montini esprime bene anche lo scopo dei Dialogues (e in definitiva quello di questo modo di comunicare, nuovo ed efficace, dei successori di Pietro): "Il suo libro sulla Vergine mi è piaciuto molto. Oggi è la Vergine che ci riavvicina. Dopo le pagine di Newman, nella famosa lettera al dottor Pusey, credo di non aver letto sulla Vergine pagine tanto soddisfacenti. Bisogna sapere essere antichi e moderni, parlare secondo la tradizione ma anche conformemente alla nostra sensibilità. Cosa serve dire quello che è vero, se gli uomini del nostro tempo non ci capiscono?". Sulle orme di Paolo VI si mosse il suo secondo successore, grazie a due giornalisti e scrittori convertiti (un francese e un italiano) e a due filosofi polacchi. Furono così pubblicati "N'ayez pas peur!"1 (1982) di André Frossard - che aveva intervistato Giovanni Paolo II poche settimane dopo l'attentato del 13 maggio 1981 - e Varcare la soglia della speranza (1994), dove Vittorio Messori raccolse i testi che il Papa aveva personalmente scritto in polacco per rispondere a una lunga serie di domande.

Queste erano state concepite per un'intervista televisiva di un'ora in occasione del quindicesimo anniversario del pontificato (16 ottobre 1993), affidata alla regia di Pupi Avati, ma che non si poté realizzare. A quello stesso anno risalgono infine gli incontri con Józef Tischner e Krzysztof Michalski, poi confluiti nel volume Memoria e identità. Conversazioni a cavallo dei millenni (2005) pubblicato in traduzione italiana poche settimane prima della morte del Papa e che si conclude con un incontro, a cui aveva partecipato anche il suo segretario particolare, Stanislaw Dziwisz, sull'attentato: "Penso - disse il Pontefice - che esso sia stata una delle ultime convulsioni delle ideologie della prepotenza, scatenatesi nel xx secolo. La sopraffazione fu dal fascismo e dal nazismo, così come dal comunismo. La sopraffazione motivata con argomenti simili si è sviluppata anche qui in Italia; le Brigate Rosse uccidevano uomini innocenti e onesti".
La scelta del secondo intervistatore di Giovanni Paolo II fu probabilmente dovuta al clamoroso successo di un altro suo libro, Rapporto sulla fede (1985), tradotto in tredici lingue e dove Messori aveva raccolto quanto gli aveva detto nell'agosto 1984 a Bressanone il cardinale Joseph Ratzinger, che il 25 novembre 1981 il Papa aveva chiamato a Roma come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, l'antico Sant'Uffizio. Nemmeno il raffinato teologo - nominato arcivescovo di Monaco e Frisinga e creato cardinale da Paolo VI a cinquant'anni, nel 1977 - era però nuovo ai bestseller: la sua Einführung in das Christentum ("Introduzione al cristianesimo", 1968), tratta da una serie di lezioni sul Simbolo apostolico tenute nel 1967 all'Università di Tubinga, in pochi mesi aveva infatti venduto oltre cinquantamila copie, con traduzioni in ben ventitré lingue.

E proprio il genere letterario dell'intervista si addice a Ratzinger, intellettuale da sempre abituato a confrontarsi nell'ambiente universitario e teologo che nelle sue opere parla a tutti, grazie a "un linguaggio limpido e chiaro, e quindi comprensibile anche ai non addetti ai lavori, i quali vengono trascinati nella lettura perché scoprono risposte a domande inevase da sempre, o che avvertivano confusamente, senza trovare la lucidità per porsele", ha spiegato Lucetta Scaraffia nell'Invito alla lettura (2010) scritto con Gerhard Müller e Rudolf Voderholzer per illustrare l'edizione italiana dell'opera omnia.

A maggior ragione nelle interviste. Così, dopo quella a Messori uscita vent'anni dopo la conclusione del concilio Vaticano ii, è stata la volta delle due concesse dal cardinale a Seewald: la prima, in inverno a Roma, su cristianesimo e Chiesa cattolica nel xxi secolo, pubblicata nel volume Salz der Erde ("Sale della terra", 1996), tradotto in diciannove lingue, e la seconda in Gott und die Welt ("Dio e il mondo", 2000), su fede e vita nel mondo di oggi, realizzata tra il 7 e l'11 febbraio a Montecassino e tradotta in tredici lingue.

Eletto il 19 aprile 2005 in meno di un giorno nel conclave più numeroso mai tenutosi, da quasi due anni Ratzinger aveva iniziato nel 2003 a scrivere un'opera alla quale tiene moltissimo e alla quale ha continuato a lavorare in ogni momento libero: il Gesù di Nazaret, il cui primo volume - significativamente firmato con il suo nome e con quello assunto al momento dell'elezione - è stato pubblicato nel 2007 e ora seguito da un secondo, già ultimato e ormai imminente. Testo che non ha precedenti nella storia del papato, il libro è ovviamente più vicino ai titoli tipici della bibliografia del teologo, ma nello stesso tempo, con coerenza, assume in pieno la sfida posta dalla scelta innovativa di parlare a tutti.

L'ultimo libro di Benedetto XVI, Licht der Welt ("Luce del mondo"), è dunque la terza intervista concessa da Joseph Ratzinger a Seewald, tra il 26 e il 31 luglio a Castel Gandolfo, dove il Papa ha ogni giorno incontrato il giornalista suo conterraneo per rispondere con franchezza e semplicità a tutte le domande postegli, nessuna esclusa. E pochissime sono state poi le correzioni che l'intervistato ha apposto al testo tedesco, per precisare qua e là il suo pensiero sui temi trattati, suddivisi in tre parti (i segni dei tempi, il pontificato, le prospettive che si aprono): la svolta radicale e non ricercata nell'ultimo tratto della sua vita, il terribile scandalo degli abusi sessuali su minori commessi da ecclesiastici, la crisi globale economica e ambientale, la dittatura pervasiva del relativismo, le spaventose realtà causate nel mondo dal diffondersi della droga e del turismo sessuale, l'irreversibilità dell'impegno ecumenico assunto dalla Chiesa cattolica, il suo rapporto unico con l'ebraismo, la ricerca del confronto e dell'amicizia con l'islam e le altre religioni, i viaggi, la sessualità, i problemi del governo, le realtà ultime, dimenticate ma che restano il destino finale di ogni essere umano e del mondo.

Innovativa come quelle di Leo- ne XIII, e soprattutto di Paolo VI, l'intervista di Benedetto XVI, allo stesso modo delle due precedenti di Seewald al cardinale Ratzinger, colpisce soprattutto per il tono di fiducia e di apertura del Papa, per il suo linguaggio chiaro che vuole farsi capire da tutti, non solo dai cattolici, e a tutti tende la mano: "Io penso che Dio, scegliendo come Papa un professore, abbia voluto mettere in risalto proprio questo momento dell'approfondimento e dello sforzo per l'unione tra fede e ragione". E porre, con mitezza, ciò che davvero gli sta più a cuore: la questione di Dio. Affrontando - come scrisse Cavallari di Paolo VI - anche i temi più difficili e più critici, "da uomo del nostro tempo, che non intende eludere nulla, scopertamente deciso a una sincerità che rifiuta i rapporti facili". Per servire la verità.



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20/01/2011 22:34
 
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La porta della felicità
Gianfranco Ravasi

La porta della felicità si apre verso l'esterno cosicché può essere rinchiusa solo andando fuori da se stessi.
Una porta che si spalanca verso l'esterno è piuttosto rara: con le sue due ante protese in avanti sembra più invitare a entrare che a tener protetti gli abitanti della casa dalle incursioni esterne.

La porta della felicità è così concepita, ci ricorda il filosofo danese ottocentesco Soeren Kierkegaard, proponendo questo simbolo molto diverso dall'attuale porta blindata, che è assurta un po' a vessillo del nostro che è un tempo di paure e di sospetti. Dalle finestre della mia residenza romana vedo le due braccia del colonnato del Bernini, esse si aprono per accogliere i pellegrini che sono ammessi alla Basilica di S. Pietro.
È il segno visivo di un'accoglienza, di un incontro, di una spontanea consonanza di sentimenti.
Ora, però, si levano i filtri dei controlli di polizia: certo, sono necessari e lo sappiamo bene, ma sono anche il segnale di una diversa atmosfera fatta di timori di attentati, di ostilità, di inimicizie. Ed è così che anche la serenità gioiosa scompare. Tutto questo non vale solo per la società, vale anche per noi stessi. I condomìni, con le loro porte blindate, incarnano una sconfitta dell'umanità che non si stringe più la mano sospettando che in quella dell'altro si celi un'arma. Sono piccoli mondi fatti di solitudini che convivono solo spazialmente.

Ecco, allora, la necessità di una paziente opera di ricostruzione dell'incontro, del dialogo, dell'uscire in cortile e sulla piazza per ritrovare la capacità di stare insieme, di parlare e di ascoltare, di guardarsi in viso e negli occhi e forse di amarsi.



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20/01/2011 23:28
 
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All'ultima lira
Gianfranco Ravasi

Ci sono degli amici che sono disposti a stare al vostro fianco fino all'ultima lira. La vostra, non la loro.

In una società dalle relazioni facili, sbrigative e superficiali, è sempre necessario ritornare sul tema dei rapporti interpersonali, da quelli familiari ai legami più ampi, come accade nell'amicizia.
Su questo tema si potrebbero costruire intere antologie (e lo si è fatto) e si possono dire cose belle, a partire dalla stessa Bibbia che riferisce, tra l'altro, anche un detto proverbiale ancor oggi in vigore: «Chi trova un amico, trova un tesoro» (Siracide 6, 14).

E a proposito di tesoro, ecco un ben diverso significato da assegnare al termine ed è ciò che viene sarcasticamente evocato nella battuta sopra citata del giornalista e scrittore Carlo Veneziani (1882-1950). Già Petronio, il noto scrittore latino del I secolo, nel suo celebre Satyricon scherzava sull'amicus ollaris, cioè «l'amico della pentola» e non è certo necessario aggiungere altro.

La vera amicizia è gratuita; se s'infiltra l'interesse, essa ben presto inaridisce. Un personaggio dell'Amleto di Shakespeare, Polonio, ad esempio ammonisce: «Non prendere a prestito da un amico e non prestare, perché spesso il prestito perde se stesso e l'amico!». La vera cartina di tornasole nell'amicizia è appunto l'assenza di calcoli, di vantaggi, di invidie. Purtroppo, però, non di rado si ha la possibilità di verificare il vero amico proprio quando vai male: chi, prima, ti era così vicino e affettuoso si rivela, allora, distante e lentamente sparisce dal tuo orizzonte.

Il modo più genuino per avere un amico è essere amico dell'altro nella generosità, nella gioia dello stare insieme, nella libertà delle proprie scelte e idee che s'incrociano in dialogo sereno con quelle dell'amico.



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21/01/2011 14:43
 
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Parlare di niente
Gianfranco Ravasi

C'è gente che ama parlare di niente. È l'unico argomento di cui sa tutto.
«Non dice nulla, ma lo afferma con grande autorevolezza».

Così, un giorno mi sussurrò con ironia un amico, mentre ascoltavamo a una cerimonia ufficiale una personalità che stava infliggendoci con solennità un discorso di circostanza.
Bisogna, però, subito dire che basta salire su un mezzo pubblico e lasciarsi avvolgere dal cicaleccio degli utenti dei cellulari, per rimanere basiti di fronte a quel flusso di chiacchiere, vane e vacue, che vengono riversate in questo oggetto di culto del nostro tempo.

Forse aveva ragione quella mala lingua dello scrittore inglese ottocentesco Oscar Wilde, straordinario "battutista", con la sferzante considerazione sul vaniloquio che abbiamo sopra proposto. Non c'è bisogno di ripetere il famoso detto della tradizione ebraica: «Il sapiente sa quel che dice, lo stupido dice quel che sa». La dotazione di molti, purtroppo, è fatta solo di niente, di banalità, di ovvietà, di superficialità e, non di rado, di volgarità. Interi programmi televisivi si reggono su questa inconsistenza e il fatto che siano così seguiti fa solo sospettare che si diffonda sempre più quel modello di gente che Wilde bollava tanto impietosamente.

Non ho mai dimenticato ciò che mi disse, l'unica volta in cui lo incontrai, lo scrittore Riccardo Bacchelli: «Reverendo, si ricordi: gli stupidi impressionano non foss'altro che per il numero!». Detto questo, però, non dimentichiamo che qualche schizzo di stoltezza e di vacuità può raggiungere anche le nostre menti e le nostre anime.

Bisogna, allora, essere molto sorvegliati e autocritici e ripetere col Salmista: «Vigilerò sulla mia condotta per non peccare con la mia lingua, metterò un morso alla mia bocca» (39,2).



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21/01/2011 15:22
 
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Uno spicchio di Cielo
Gianfranco Ravasi

Ma cosa credete, che non veda il filo spinato, non veda i forni crematori, non veda il dominio della morte?
Sì, ma vedo anche uno spicchio di cielo, e in questo spicchio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza.
Non ci credete? Invece è così!

Il filo spinato, il fumo denso che esce dai comignoli dei forni, le urla degli aguzzini, uomini e donne stremati per i lavori forzati, un odore di morte e un respiro di disperazione. Tutto questo è il lager nazista di Auschwitz. In quella folla di vittime c'è una giovane donna ebrea olandese dotata di una straordinaria intelligenza e di un cuore mistico. Nei fogli sgualciti di un taccuino annota il suo "diario" e il suo sguardo non si perde nel grumo oscuro del male che la avvolge, ma si leva lassù, in quello spicchio di cielo che riesce a intravedere nella baracca in cui è relegata.

Ed è in quella contemplazione che «il dominio della morte» circostante scompare e appaiono i campi infiniti del firmamento e la danza delle stelle, e in quei segni brillano la libertà e la bellezza che invano gli oppressori cercano di cancellare sulla terra. Nel cuore fiorisce, allora, la speranza, la pace, la serenità. Noi che, invece, abbiamo tutto spesso non crediamo che questo sia possibile e siamo incupiti, insoddisfatti, agitati. Scriveva ancora questa donna: «La mia vita è un ininterrotto ascoltare - dentro me stessa e gli altri - Dio.

In realtà è Dio che ascolta dentro di me- Di sera, quando, coricata sul letto, mi raccolgo in te, mio Dio, lacrime di gratitudine mi inondano il volto ed è questa la mia preghiera». Tra le vittime delle camere a gas di Auschwitz del 30 settembre 1943 - secondo un rapporto della Croce Rossa - c'era anche lei, Etty (Ester) Hillesum di 29 anni.




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[Modificato da Bestion. 21/01/2011 15:25]
21/01/2011 16:57
 
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Sessanta minuti
Gianfranco Ravasi

Il futuro è qualcosa che ciascuno raggiunge alla velocità di sessanta minuti all'ora, qualunque cosa faccia, chiunque sia.

Un giorno sua moglie, Ombretta Colli, mi aveva invitato a incontrare Giorgio Gaber, ma il tempo passò e la morte, avvenuta nel 2003, mi impedì di parlare con questo cantautore milanese così originale. Ora un lettore mi invia una frase che non so se faccia parte di un recital di Gaber o di un'intervista.
Mi sembra, comunque, adatta a questi ultimi giorni dell'anno, mentre stiamo già tendendo verso il nuovo, verso il futuro. In quelle parole c'è una verità indiscussa ma anche un dato imperfetto. La verità è che il fluire del tempo, edax rerum, «divoratore di ogni cosa», come diceva il poeta latino Ovidio, avanza inesorabile su tutto e su tutti. La sua scansione di secondi, minuti, ore, giorni, mesi, anni macina le realtà belle e quelle brutte, spande lacrime e le asciuga, ospita crimini e illumina gesti nobili e gloriosi.

C'è, però, una riserva da fare. Se è vero che il tempo oggettivo non guarda in faccia a nessuno e tutto consuma come «un vorace cormorano», per usare una definizione di Shakespeare, è altrettanto vero che il tempo soggettivo è diverso per ciascuno di noi, anzi per ogni stato della nostra esistenza. Sessanta minuti di noia non sono uguali a un'ora trascorsa tra due innamorati. Il tempo può essere «ammazzato» perché non si ha voglia di fare nulla o perché si è disperati e in questi casi pare infinito; ma può essere anche colmato di opere, di creazioni, di pensieri, di ricerca.

Il filosofo americano ottocentesco William James osservava giustamente che «l'uso migliore della vita è di spenderla per qualcosa di più duraturo della vita stessa». Solo così il tempo acquista una durata, un sapore e un colore diverso per ciascuno.



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21/01/2011 19:06
 
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Tacitamente nevica
Gianfranco Ravasi

Tacitamente nevica sui rami, / sui campi muti; e tutto imbianca un gelo, / tutto agghiaccia un oblio. Par che dal cielo / piova silenzio, e pare un sogno il mondo.

«Egli sparge la neve come uccelli che discendono, come locusta che si posa è la sua caduta. L'occhio ammira la bellezza del suo candore e il cuore stupisce al vederla fioccare».
Quasi con gli occhi stupiti di un bimbo, il Siracide (43, 17-18), sapiente biblico del II secolo a.C., con queste parole contemplava una nevicata su Gerusalemme e sul deserto di Giuda. Con gli stessi occhi noi tutti da bambini stavamo col naso incollato alla finestra assistendo al distendersi di questo manto candido sul creato. E con la stessa intensità anche i versi di Giovanni Marradi (1860-1922), poeta livornese, riproducono davanti ai nostri occhi un'esperienza che in varie aree del nostro paese si sta ora ripetendo.

È soprattutto un'esperienza di silenzio: la neve non ha il fragore del temporale o il picchiettare della pioggia battente, è tacita e genera attorno a sé un alone di quiete, anche perché le auto non possono più sfrecciare e i rumori si attutiscono. «Non uscire di casa. Resta al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare nemmeno, aspetta soltanto. Non aspettare nemmeno, sii assoluto silenzio e solitudine». Era il grande Kafka a lanciare questo appello che facciamo nostro. La neve è un segno di candore; il bianco è come il silenzio perché nulla vi è scritto; eppure sappiamo che è la sintesi di tutti i colori.

Riflettere, meditare, contemplare sono atti silenziosi che si aprono però sulle parole più importanti, sulle azioni decisive, sul mistero che è in noi e che è oltre noi.




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23/01/2011 15:40
 
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Professione teologo
Joseph Ratzinger e la teologia politica nel volume
"L'unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa"


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«il cristianesimo rimane, in un senso ultimo, "rivoluzionario",
poiché non può considerarsi identico ad alcuno Stato, ma
è invece una forza che relativizza tutte le realtà
immanenti al mondo, indicando e rinviando
all'unico Dio assoluto e all'unico
mediatore tra Dio e l'uomo:
Gesù Cristo»




Senza verità la politica
è culto dei demoni

Joseph Ratzinger

Nell'autunno del 1962 Joseph Ratzinger tenne una conferenza alla settimana della Salzburger Hochschule. Un breve estratto ne venne pubblicato nella rivista dei laureati cattolici "Der katholische Gedanke" (19, 1963, pp. 1-9) e una parte più vasta era stata già stampata in precedenza in "Studium Generale" (14, 1961, pp. 664-682). I due articoli vennero poi rielaborati nel volume Die Einheit der Nationen (1971), tradotto in Italia nel 1973 e ora riedito a cura del nostro direttore: L'unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa (Brescia, Morcelliana, 2009, pagine 120). Qui sotto pubblichiamo uno stralcio dell'ultimo capitolo del volume, l'introduzione del curatore e la recensione del libro scritta da uno dei maggiori studiosi di patristica e di storia del cristianesimo.

Come presso Origene, anche presso Agostino il punto di aggancio per la teologia della realtà politica risulta da una necessità della polemica. La caduta di Roma nell'anno 410 per opera di Alarico aveva chiamato in campo di nuovo la reazione pagana: dove sono mai le tombe degli Apostoli? si gridava. Essi manifestamente non erano stati in grado di difendere Roma, la città che era rimasta invitta finché si era affidata alla tutela dei suoi dèi patri. La sconfitta di Roma dimostrò con evidenza palmare che il Dio creatore, che la fede cristiana adorava, non si prendeva cura delle vicende politiche; questo Dio poteva essere competente per la beatitudine dell'uomo nell'aldilà; che non fosse competente per l'ambito della realtà politica, l'avevano appena mostrato efficacemente gli eventi.
La politica aveva manifestamente la propria struttura di leggi, che non concerneva il Dio sommo, doveva quindi avere anche la propria religione politica. Ciò cui la massa aspirava, piuttosto per una sensibilità generale, voglio dire che, accanto alla religione elevata si dovesse dare anche una religione delle cose terrene, e specialmente di quelle politiche, era cosa che si poteva motivare pure più profondamente ancora partendo dalle convinzioni filosofiche dell'antichità.

Bastava solo ricordarsi dello assioma del pensiero platonico formulato da Apuleio: "Tra Dio e l'uomo non v'è nessuna possibilità di contatto". Il platonismo era convinto nel senso più profondo della distanza infinita tra Dio e mondo, tra spirito e materia; che Dio si occupasse direttamente delle cose del mondo, doveva apparirgli del tutto impossibile. Il servizio divino per il mondo era curato da esseri intermedi, da forze di natura diversa, a cui ci si doveva attenere, quando si trattava delle cose di questo mondo.
In questa accentuazione eccessiva della trascendenza di Dio, che significava segregarlo dal mondo, escluderlo dai concreti processi di vita d'esso, Agostino scorgeva a ragione il nucleo vero e proprio della resistenza contro la rivendicazione di totalità da parte della fede cristiana, che non poteva mai tollerare un'emarginazione della realtà politica dall'ordine dell'unico Dio. Alla reazione pagana che tendeva a una restaurazione del rango religioso della pòlis e in tal modo a relegare la religione cristiana dell'aldilà nell'ambito puramente privato, egli contrappose anzitutto due precisazioni fondamentali.

La religione politica non ha alcuna verità. Essa poggia su una canonizzazione della consuetudine contro la verità. Questa rinuncia alla verità, anzi lo stare contro la verità per amore della consuetudine, è stata persino ammessa apertamente dai rappresentanti della religione romana - Scevola, Varrone, Seneca. Ci si assoggetta a pagare la tradizione con quanto si oppone alla verità. Il riguardo alla pòlis e al suo bene giustifica l'attentato contro la verità. Ciò vuol dire: il bene dello Stato, che si crede legato al persistere e sopravvivere delle sue antiche forme, viene posto al di sopra del valore della verità.
Qui Agostino vede scoppiare in tutta la sua asprezza il contrasto vero e proprio: secondo la concezione romana la religione è una istituzione dello Stato, quindi una sua funzione, e come tale subordinata a esso.

Non è un assoluto il quale sia indipendente dagli interessi dei gruppi che la rappresentano, ma è un valore strumentale rispetto allo "Stato" assoluto. Secondo la concezione cristiana, per contro, nella religione non si tratta di consuetudine ma di verità, che è assoluta, che quindi non viene istituita dallo Stato, ma ha istituito per se stessa una nuova comunità, la qua- le abbraccia tutti quanti vivono della verità di Dio. Partendo di qui, Agostino ha concepito la fede cristiana come liberazione: liberazione per la verità dalla costrizione della consuetudine.
La religione politica dei Romani non ha alcuna verità, ma al di sopra di essa esiste una verità, e tale verità è che l'asservimento dell'uomo a consuetudini ostili alla verità lo pone in balìa delle potenze antidivine, che la fede cristiana nomina demoni. Perciò il servizio agli idoli ora non è, invero, solo uno stolto affaccendarsi senza oggetto, ma, consegnando l'uomo in balìa della negazione della verità, diviene servigio ai demoni: dietro gli dèi irreali sta il potere sommamente reale del demone e dietro la schiavitù alla consuetudine v'è il servaggio agli ordini degli spiriti malvagi. In ciò sta la vera profondità a cui scende la liberazione cristiana e la libertà conquistata in essa: liberando dalla consuetudine affranca da un potere, che l'uomo ha egli stesso dapprima creato, ma che di gran lunga si è levato al di sopra del suo capo e ora è signore su di lui; è divenuto un potere oggettivo, indipendente da lui, breccia d'invasione da parte della potenza del male come tale, che lo sopraffà, cioè dei "demoni".

La liberazione dalla consuetudine per attingere la verità è emancipazione dalla potestà dei demoni che stanno dietro la consuetudine. In ciò il sacrificio di Cristo e dei cristiani ora diviene veramente comprensibile come "redenzione", cioè liberazione: elimina il culto politico opposto alla verità e al posto di esso, che è culto dei demoni, mette l'unico universale servizio alla verità, che è libertà. In ciò, il processo di pensiero di Agostino s'incontra con quello di Origene.
Come questi aveva inteso l'assolutezza religiosa dell'elemento nazionale quale opera degli angeli demoniaci delle genti e l'unità sovranazionale dei cristiani come liberazione dalla prigionia contro il fattore etnico, così anche Agostino riporta la realtà politica nel senso antico, cioè la divinizzazione della pòlis, alla categoria del demoniaco e nel cristianesimo vede il superamento del potere demoniaco della politica, che aveva oppresso la verità.
Anche per lui gli dèi dei pagani non sono vuote illusioni, ma la maschera fantastica, dietro la quale si celano potestà e dominazioni, che precludono all'uomo l'accesso ai valori assoluti, rinserrandolo nel relativo. E anch'egli nell'elemento politico scorge il dominio vero e proprio di queste potenze. È vero che Agostino ha riconosciuto il suo valore di verità all'idea di Evemero che tutti gli dèi siano stati in origine una volta uomini, cioè che ogni religione (dei pagani) poggi su una iperbolizzazione di sé da parte dell'uomo, ma ha visto al tempo stesso che l'enigma delle religioni pagane, con questa ammissione, non è affatto risolto. Le potenze, che apparentemente l'uomo fa scaturire e proietta da se stesso, presto si dimostrano oggettive ipostasi di potere, "demoni", che esercitano su di lui una signoria sommamente reale. Da esse può liberare solo Colui che ha potere su tutte le potestà: Dio medesimo.

Se qui, a conclusione, ci chiediamo quale sia la risultanza complessiva dell'indagine, dobbiamo constatare che anche Agostino non ha tentato di elaborare qualcosa da intendere come la costituzione di un mondo fattosi cristiano. La sua civitas Dei non è una comunità puramente ideale di tutti gli uomini che credono in Dio, ma non ha neppure la minima comunanza con una teocrazia terrena, con un mondo costituito cristianamente, bensì è un'entità sacramentale-escatologica, che vive in questo mondo quale segno del mondo futuro. Quanto sia precaria la causa di un cristiano, glielo aveva mostrato l'anno 410, in cui veramente non erano stati solo i pagani a invocare gli antichi dèi di Roma. Così per lui lo Stato, pure in tutta la reale o apparente cristianizzazione, rimase "Stato terreno" e la Chiesa comunità di stranieri, che accetta e usa le realtà terrene, ma non è a casa propria in esse. Certo, la convivenza delle due comunità era divenuta più pacifica di quanto fosse ai tempi di Origene; Agostino non parlò più della cospirazione contro lo Stato "scitico"; ma ritenne giusto che i cristiani, membri della patria eterna, prestassero servizio in Babilonia come funzionari, anzi come imperatori. Mentre dunque in Origene non si vede bene come questo mondo possa proseguire, ma si percepisce soltanto il mandato di tendere allo sbocco escatologico, Agostino mette in conto una permanenza della situazione attuale, che ritiene tanto giusta per quest'età del mondo, da desiderare un rinnovamento dell'Impero romano. Ma rimane fedele al pensiero escatologico in quanto reputa tutto questo mondo un'entità provvisoria e non cerca perciò di conferirgli una costituzione cristiana, ma lascia che esso sia mondo, che deve tendere lottando a conseguire il proprio relativo ordinamento.

In tal misura anche il suo cristianesimo, fattosi in modo consapevole legale, rimane, in un senso ultimo, "rivoluzionario", poiché non può considerarsi identico ad alcuno Stato, ma è invece una forza che relativizza tutte le realtà immanenti al mondo, indicando e rinviando all'unico Dio assoluto e all'unico mediatore tra Dio e l'uomo: Gesù Cristo.



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23/01/2011 17:51
 
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Professione teologo
Joseph Ratzinger e la teologia politica nel volume
"L'unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa"





«la Chiesa, che abbraccia nella sua estensione tutti i popoli e
unifica nell'amore tutte le lingue che il peccato aveva diversificato,
non deve avere la minima comunanza con una teocrazia terrena,
con un mondo costituito cristianamente, bensì è un'entità
sacramentale - escatologica, che vive in questo
mondo quale segno del mondo futuro»




La rivoluzione che ribaltò
il concetto di potere

di Manlio Simonetti

Nell'introduzione a questo petit livre, il curatore Giovanni Maria Vian ne rileva il carattere pionieristico all'epoca della sua composizione, anni Sessanta del secolo scorso, quando le fortune della cosiddetta teologia politica erano ancora agli albori. In effetti, anche se la prima edizione del libro si ebbe nel 1973, esso rielaborava due precedenti studi, rimontanti agli anni 1961 e 1963.
L'argomento, l'unità delle nazioni, anche se spazia sulla riflessione pagana e cristiana in senso generale, è centrato su due autori, Origene e Agostino: e se la presenza di Agostino è più che scontata, dato che la sua fortuna non ha mai subìto eclissi dal suo al nostro tempo, va invece debitamente rilevata la centralità riservata, dal Ratzinger professore di fresca nomina all'università di Bonn, filosofo ma anche all'occorrenza filologo, a Origene, che con Agostino condivide il vanto di massimo rappresentante della riflessione cristiana in età antica, ma di cui fortuna e memoria erano state di fatto affossate a causa sia delle ripetute condanne, di cui quello fu fatto oggetto tra il III e il VI secolo, sia di certi aspetti del suo pensiero che si collocavano agli antipodi di quello di Lutero e di Calvino, per non dire di Agostino stesso.
Solo dopo la seconda guerra mondiale il significato centrale della riflessione di Origene in ambito patristico è stato rivalutato da studiosi francesi e poi anche italiani, mentre in Germania, nonostante l'avveniristica monografia di Völker, pubblicata nel 1931, persistevano antiche e forti remore, solo con lenta gradualità venute meno.

In questo contesto la presa di posizione di Ratzinger andava per certo contro corrente, come anche per l'importanza accordata alla riflessione gnostica, senza dubbio sopravvalutata sulla traccia dell'allora imperante pangnosticismo di Hans Jonas, ma che anticipava gli esiti della ricerca di Antonio Orbe circa la comprensione globale dell'antica riflessione teologica cristiana, senza steccati tra ortodossia ed eresia.
Inizialmente Ratzinger rileva, nell'ambito della riflessione filosofica greca, la posizione degli stoici che avevano scoperto "dietro la diversità delle strutture, l'unità della essenza "uomo", l'umanità una dell'uomo, che sussiste attraverso tutti i tempi e gli spazi" (p. 20). La concezione panteistica della filosofia stoica, più specificamente l'idea aristotelica della monarchia divina avevano trovato la loro realizzazione politica nell'impero romano.

Alla concezione panteistica, e perciò necessitante, della riflessione stoica Ratzinger contrappone la fede veterotestamentaria in un unico Dio "che si erge libero di fronte al mondo" (p. 26). Secondo tale fede l'unità iniziale degli uomini si è disgregata a causa del peccato, e il recupero dell'unità è proiettato in dimensione futura, verso il momento in cui tutti i popoli confluiranno a Gerusalemme, centro di una nuova umanità unita. La contrapposizione tra queste due concezioni viene inasprita in ambito cristiano dall'avvento di Cristo come nuovo Adamo, con cui, dopo quella adamitica, "ha avuto principio una seconda e definitiva umanità", quella dei cristiani, che superando, mediante la partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo, la condizione umana di carattere naturale, "rivendicano il titolo di essere il secondo e definitivo genere umano, che già da ora va costruendosi in mezzo all'umanità antica" (p. 28).
La Chiesa cristiana era il nuovo mondo, che si contrapponeva, pur alieno da ogni forma di violenza, a quello romano, in quanto si preannunciava come il mondo definitivo e vero, al quale quello antico "un giorno avrebbe dovuto cedere" (p. 29).

A questo punto Ratzinger affronta alla rivoluzione cristiana quella gnostica, concepita come ben altrimenti radicale: "essa respinge il mondo nella sua interezza insieme col suo dio, che smaschera come cupo tiranno e carceriere, vede in dio e nelle religioni solo il sigillo e la chiusura definitiva di quella prigione che è il mondo" (p. 32). Queste pagine del libro di Ratzinger, ispirate alla interpretazione che dello gnosticismo aveva dato Jonas e che negli anni Sessanta del secolo scorso era dominante in Germania e negli Stati Uniti, vanno oggi ridimensionate insieme con quella interpretazione, in quanto l'affermato rifiuto del mondo materiale rimase negli gnostici sempre allo stadio di mera teoria, senza realizzarsi in una concezione di vera e propria teologia politica: gli gnostici furono quanto mai lealisti nei confronti dello stato romano e anche per questo, oltre che per più importanti motivi di ordine dottrinale, risultarono invisi ai fedeli della Chiesa cattolica.

In opposizione al nichilismo gnostico, la riflessione cattolica, pur non minimizzando affatto i guasti del peccato, ha sempre affermato la bontà del mondo in quanto opera dell'unico sommo Dio, e pur nella convinzione che in un tempo futuro l'impero di Roma, dai romani considerato eterno, avrebbe avuto termine e sarebbe stato sostituito dal regno di Cristo, nell'affermazione che ogni potere viene da Dio fondavano la separazione tra ciò che appartiene a Dio e ciò che appartiene a Cesare e non vedevano motivo di rifiutargli l'ossequio nei limiti in cui questo non contrastava col preminente diritto che Dio aveva sull'uomo.

Nella trama di questa riflessione s'inseriva la concezione dell'unità di tutti gli uomini in Cristo, in quanto la Chiesa è concepita già da Paolo come corpo di Lui, inteso come unico uomo nuovo (p. 37). Facendosi uomo in Cristo Dio ha tratto a sé l'uomo immettendolo nell'unità con Dio, in modo che "l'essere di Gesù Cristo e il suo messaggio hanno introdotto una nuova dinamica nell'umanità, la dinamica del trapasso dall'essere dilacerato dei molti singoli entro l'unità di Gesù Cristo, di Dio. La Chiesa è, per così dire, null'altro che questa dinamica, questo entrare in movimento da parte dell'umanità in direzione dell'unità di Dio" (p. 40).
Questo mistero di unità, che cultualmente ha il suo centro nella mensa eucaristica e che si alimenta alla più generale convinzione che tutti gli uomini in Cristo diventano fratelli tra loro, "si realizza nel singolo uomo come trapasso dalla sovranità del proprio io all'unità delle membra del corpo di Cristo" (p. 42). Fattualmente questa unità trova concreta attuazione nella rete di comunità, le singole Chiese che, pur materialmente autonome una rispetto all'altra, sono fraternamente in comunione tra loro e con Dio realizzando "l'ultimo fine dell'evento di Cristo" (ibidem).

La riflessione di Origene sul tema dell'unità dei cristiani prese consistenza soprattutto nella polemica col filofoso pagano Celso. Questi, rimproverando ai cristiani di aver abbandonato le leggi patrie, aveva prospettato una visione globale dell'unità dei vari popoli come entità diverse, sovrumanamente amministrate, sotto l'egida del sommo Dio, da divinità minori, quelle che i giudei definivano angeli delle nazioni, armonicamente conviventi nella superiore unità politica rappresentata dall'impero romano.
Origene accetta e fa sua la dottrina giudaica degli angeli delle nazioni, ma la fonda sulla sua notazione più caratteristica e importante: solo Israele, tra tutti i popoli della terra, non è stato affidato al governo di un angelo, ma è rimasto sotto il dominio diretto e la protezione di Dio (Deuteronomio, 32, 8-9): in questo senso il dominio degli angeli sui singoli popoli è valutato da Origene prevalentemente, non completamente, in modo negativo. Ne deriva che "l'opera salvifica di Cristo (...) consiste proprio nel fatto che egli ha vinto gli arconti (cioè, gli angeli delle nazioni) e ha condotto gli uomini fuori della prigionia del fattore nazionale nell'unità di Dio, entro l'unità dell'umanità una" (p. 54).

Abbiamo detto che la concezione origeniana degli angeli delle nazioni è prevalentemente, non completamente negativa. Infatti nei superstiti scritti di Origene non mancano spunti nei quali questi angeli vengono considerati come coloro che hanno trasmesso agli uomini la loro scienza, scienza del mondo, poesia grammatica retorica musica, e così via: scienza del mondo però, non sapienza di Dio che si è resa manifesta in Cristo (p. 60).
In effetti "Origene, di fronte a Celso, non nega che la fede cristiana di fatto implichi una breccia praticata attraverso l'antico principio del vincolo nazionale e politico cui era legato il fatto religioso. I cristiani hanno realmente abbandonato gli antichi legami (...) La loro guida è Cristo, che essi seguono come quel popolo nuovo presso il quale le spade sono tramutate in aratri e le lance in falci (...) i suoi uomini in Gesù sono diventati figli della pace (...) Al posto del dominio assoluto delle leggi nazionali, per il cristiano è subentrata la legge di Cristo, che ha proclamato nulle le leggi antiche (...) al posto dei limitati ordinamenti nazionali è entrata l'unica legge di Dio, che in virtù di Gesù Cristo vige per tutta l'ecumene" (pp. 63-64).

Date queste conclusioni, Origene risponde negativamente all'invito di Celso affinché i cristiani s'impegnino concretamente e attivamente a pro dell'impero: essi non possono impugnare le armi, non possono ricoprire uffici pubblici, ritengono giusto trasgredire le leggi dello stato per amore della legge di Cristo. O per meglio dire: i cristiani s'impegnano anche a pro dell'impero, ma dal superiore punto di vista del servizio reso a Dio, che si estende a beneficio del prossimo, che è dire di tutto il mondo (p. 70).
Il nuovo ordine vagheggiato da Origene era destinato a realizzarsi soltanto in proiezione escatologica, nell'ultimo tempo, in quanto la persistenza dell'impero pagano impediva ogni prospettiva presente o di prossimo futuro. Ma il radicale cambiamento impresso ai rapporti tra Chiesa e impero da Costantino imponeva un riesame radicale anche riguardo alla funzione dell'impero nel mondo attuale.

Proprio questo ripensamento operò Eusebio di Cesarea, teorizzando l'impero diventato cristiano come instaurazione del regno messianico a opera di Costantino, il nuovo Mosè. Perciò la sua quasi completa assenza non manca di avvertirsi nella pagina di Ratzinger, che passa direttamente da Origene ad Agostino, allorché la caduta di Roma a opera dei goti nel 410 mandò in frantumi, in Occidente, la simbiosi tra impero e Chiesa vagheggiata dal grande storico.
In polemica con l'aristocrazia pagana che interpretava la decadenza di Roma come punizione imposta dagli dei tradizionali ormai dismessi dall'imperatore, nella Città di Dio Agostino contesta decisamente verità e significato della religione politica imperniata sul culto degli dei tradizionali, che aveva messo gli uomini in balia dei demoni. In questa prospettiva "il sacrificio di Cristo e dei cristiani ora diviene veramente comprensibile come "redenzione", cioè liberazione: elimina il culto politico opposto alla verità e al posto di esso, che è culto dei demoni, mette l'unico universale servizio alla verità, che è libertà" (p. 84).

In ambito filosofico, in polemica sia con la divinizzazione del mondo affermata dal panteismo stoico sia con l'eccessivo divisismo, per altro accentuato dal nostro autore, predicato dal platonismo, Agostino propone la convinzione cristiana sia del mondo come creatura di Dio sia della funzione dell'incarnazione di Cristo come presenza di Dio nella storia degli uomini. Ne deriva che il bene e il male operati dai vari regni terreni, che si sono succeduti nella storia, sono stati voluti da Dio, sì che il dominio di buoni e cattivi è "il segno, duplice e unitario insieme, di Dio nella storia, che allude tanto al potere assoluto di Dio come alla relatività dei valori immanenti al mondo, e particolarmente della grandezza politica" (p. 93).
Di qui la bivalente, e al fondo negativa, valutazione della potenza romana, meritato frutto di prisca virtus e, insieme, di illimitata ambizione: i romani "avevano ricercato e ricevuto il regno della terra al posto del regno eterno, la fama terrena in luogo della gloria imperitura. L'impero romano, il segno della loro grandezza, fu contemporaneamente l'indizio della loro riprovazione perpetua" (p. 95).

Agostino ha riconosciuto il valore positivo dell'impero, sua patria, capace di buona amministrazione, mirata al benessere terreno dei sudditi, ma valore relativo a riscontro del valore assoluto della patria eterna di tutti gli uomini, la città celeste, concepita non soltanto come realtà escatologica, ma già ora come "popolo di Dio nel pellegrinaggio attraverso il deserto del regno terreno, la Chiesa", che in questo mondo vive come straniera in esilio perché il suo vero luogo è altrove (p. 104).
Nel suo vivere nel mondo la Chiesa deve necessariamente convivere con lo Stato: Agostino si è reso chiaramente conto della necessità, pur nella loro imperfezione, del permanere dei regni terreni. Mentre Origene, attivo in epoca in cui il cristianesimo era religio illicita, aveva guardato direttamente alla fine del mondo come realizzazione della città celeste, Agostino, meno rivoluzionario, vede già ora all'opera la Chiesa, ormai religione ufficiale dell'impero, che abbraccia nella sua estensione tutti i popoli e unifica nell'amore tutte le lingue che il peccato aveva diversificato; essa per altro, contro ogni facile tentazione di potere terreno, non deve avere "la minima comunanza con una teocrazia terrena, con un mondo costituito cristianamente, bensì è un'entità sacramentale - escatologica, che vive in questo mondo quale segno del mondo futuro" (p. 113).



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Continua (2/3)


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