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La presenza di Dio

Ultimo Aggiornamento: 12/06/2020 09:44
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Re: Re: perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti?????
[SM=x44611] [SM=x44611] [SM=x44611] cavolo mi son dimenticato le sole [SM=x44611] [SM=x44611] e' proprio nella fossa!!!!!! [SM=x44606] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602]


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non bisogna avere paura di un Popolo che non ha Potere ma di chi detiene il Potere di Quel Popolo
anche perché la MORTE non accetta una lira
29/12/2010 11:46
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!

Il mistero dell'Incarnazione secondo Ireneo di Lione


“Gesù nel Getsemani" - Jacques Van Schuppen (1665)

«Gesù Cristo, nel momento delle tentazioni, non è il Figlio di Dio che vince il demonio,
ma il Figlio dell'uomo. ... La speranza dell'uomo nasce dall'uomo, ma non da uno
qualsiasi bensì da chi per il suo sovrabbondante amore s'è fatto ciò che
siamo noi, per fare di noi ciò che è lui stesso»
[Eb 2, 10]



Una logica
della somiglianza

di Luigi Padovese

Che salvezza avrebbe potuto sperare l'uomo se il Salvatore non avesse assunto la sua realtà? E che tipo di speranza avrebbe dovuto nutrire questo uomo se Gesù non gli avesse insegnato come sperare? Il Cristo per Ireneo di Lione diviene l'oggetto e il "maestro della speranza". Ne è l'oggetto proprio attraverso la sua carne terrena. Difatti "sulla carne del nostro Signore irrompe la luce del padre, e brillando a partire dalla sua carne, viene su di noi, e così l'uomo giunge all'incorruttibilità". E altrove: "Se non è nato [Cristo], neanche è morto; e se non è morto, neanche è risorto dai morti. E se non è risorto dai morti, neanche ha vinto la morte, e non è stato distrutto il regno di questa; e se non è stata vinta la morte, come ci innalzeremo alla vita noi, sin dall'inizio soggetti alla morte?" Di questa speranza si mostra, poi, il maestro per tutti gli uomini avendo passato le età dell'uomo e quindi fattosi partecipe dell'esperienza d'ognuno. Questa piena condivisione, trova naturalmente delle applicazioni concrete. Nel momento delle tentazioni, ad esempio, non è il Figlio di Dio che vince il demonio, ma il Figlio dell'uomo. "Le sue armi furono, da un lato, la preghiera e la santità di vita, e dall'altro la "parola di Dio" evocata nella sua vera luce per dissipare la frode e docilmente accettata".
Non dovette far ricorso al miracolo: gli bastò essere docile alla parola del Creatore. Il potere del Verbo gli si lasciò sentire, più che per comunione ipostatica con lui, mediante la fede nella Parola di Dio, norma della propria vita in corpo e anima.
Per la stessa ragione, anche nella passione è l'uomo Cristo che, proprio in forza della sua umanità ci insegna a lottare e a vincere il demonio. Il carattere "esemplare" dell'agire di Cristo è messo in evidenza da Ireneo nel testo che segue: "Se non ha patito davvero, non gli si deve alcuna gratitudine, non essendoci stata la passione. E quando noi dovremo soffrire veramente, apparirà come un impostore esortandoci a porgere anche l'altra guancia, quando si è percossi, se non ha patito veramente egli inganna anche noi esortandoci a sopportare ciò che lui stesso non ha sopportato; e noi saremo al di sopra del maestro, patendo e sopportando ciò che il maestro non ha patito e non ha sopportato".

Resta comunque vero che se Cristo diviene causa esemplare della nostra speranza, non è soltanto in forza della sua umanità. Pertanto "quanti dicono che egli è stato generato da Giuseppe, scrive Ireneo, e hanno speranza in lui, si escludono dal regno". Il motivo di queste parole è evidente: il Verbo doveva essere uomo per mostrar la bontà della carne da Lui creata e perché il demonio che aveva vinto l'uomo fosse ora sconfitto da un uomo. Al tempo stesso, però, occorreva che fosse Dio a venirci incontro perché "se non fosse stato Lui a donarci la salvezza, non l'avremmo ricevuta stabilmente. E se l'uomo non fosse stato unito a Dio, non avrebbe potuto divenire partecipe della incorruttibilità". Queste considerazioni d'Ireneo approfondiscono quanto s'è affermato prima: la speranza dell'uomo nasce dall'uomo, ma non da uno qualsiasi bensì da chi "per il suo sovrabbondante amore s'è fatto ciò che siamo noi, per fare di noi ciò che è lui stesso".

Alla luce di queste parole va colto il senso profondo dell'Eucaristia che è una delle "economie parziali" nell'unico piano di salvezza. Per capirne il significato, Ireneo rileva il suo legame con l'incarnazione, poiché tanto in quella che in questa è lo stesso evento che si realizza: una unione salvifica con Dio operata tramite la carne di Cristo. "Poiché pieno di Spirito Santo, il Cristo è, nel senso più rigoroso del termine un uomo spirituale, e il sacramento che ci fa partecipare alla sua carne ci dà in potere, sotto apparenze terrestri, una realtà celeste: la sua umanità tutta penetrata dallo Spirito di Dio, divenuta Spirito Vivificante. Essa ci vivifica. L'uomo non può fare a meno di questo contatto con la carne di Cristo; dev'essere innestato in Lui come l'ulivo selvatico sull'ulivo domestico. Rifiutare questa unione significa condannarsi a essere ulivo secco, infruttuoso. Ciò comporta, infatti, un discostarsi dal modello di uomo perfetto che è Cristo. Da queste considerazioni scaturisce una conseguenza che Ireneo tiene a sottolineare nei testi propriamente eucaristici del Contro le eresie. Se, cioè, l'incontro col Verbo Incarnato dà salvezza, questa abbraccerà tutto l'uomo, non esclusa la carne. Anzi, la salvezza sarà più evidente in quell'elemento dell'uomo che solo è passibile di morte e corruzione: la carne.
"Il Verbo, infatti, non è venuto a santificare le menti, ma gli uomini. La sua missione non fu quella d'innalzare le sole anime alla visione del Padre, bensì gli uomini, facendo la loro carne atta alla visione di Dio". Contro l'obiezione gnostica fondata sull'espressione di Paolo "la carne ed il sangue non possono ereditare il regno di Dio (1 Corinzi, 15, 50), Ireneo risponde osservando che da soli effettivamente non lo possono, ma per il fatto che ricevono il corpo di Cristo e il pegno dello Spirito Santo, essi vengono assimilati a Lui. In quanto membra del corpo di Cristo comunicano alle qualità del medesimo, quindi anche alla sua incorruttibilità. Eppure questa comunicazione o assimilazione, ha luogo progressivamente. Non si tratta già di disprezzare la realtà creata, corpo e anima, ma di conformarsi al modello che Cristo ci offre nella sua carne "pneumatica". E questo processo richiede tempo. In fondo l'Eucaristia rientra nel disegno educativo di Dio che, progressivamente, dispone l'uomo a scegliere Dio, a obbedirgli, a conformarsi a Lui. In questo processo di graduale osmosi tra sostanza divina e umana, va accantonato l'equivoco di ritenere l'incorruttibilità come il risultato d'un processo quasi biologico più meno dipendente dall'incarnazione, una specie di divinizzazione "per contatto", quasi che questo bastasse.
Ireneo rimuove questa falsa interpretazione facendo presente che se "i nostri corpi ricevono l'Eucaristia e non sono più corruttibili perché hanno speranza della resurrezione, occorre che siano anche in grado di produrre frutti spirituali.

A questo punto il nostro discorso si volge allo Spirito Santo. Il senso della sua azione nell'uomo è compendiato da Ireneo in queste parole: "Dov'è lo Spirito del Padre, lì è l'uomo vivente: il sangue razionale custodito da Dio per la vendetta e la carne ereditata dallo Spirito, dimentica di sé per aver acquistato la qualità dello Spirito ed essere divenuta conforme al Verbo di Dio". È significativa l'espressione finale "carne conforme al Verbo di Dio". Lo Spirito sarebbe allora presente in noi per conformarci al Verbo di Dio. Questi infatti, quale secondo Adamo, ha realizzato in sé la perfetta somiglianza con Dio che il primo Adamo aveva smarrita. Ma come l'ha realizzata? Se si tiene conto che è lo Spirito l'operatore della "somiglianza", anzi, che Egli stesso è questa "somiglianza" smarrita da Adamo per il peccato, si può dedurre che Cristo lo possedette in pienezza. Dal canto suo l'uomo, conformandosi a Cristo, ripristina il piano originale divenendo pienamente "ad immagine e somiglianza di Dio". Soltanto così torna a essere l'uomo perfetto, perché come Cristo, è costituito di anima, di carne e di Spirito. "Ireneo - afferma G. Joppich - non vede nella nostra unione con lo Spirito Santo il termine dello sviluppo, ma piuttosto l'opera dello Spirito Santo è da intendersi come l'ultima fase del nostro essere trasformati a somiglianza del Lògos".

È per la sua somiglianza che dobbiamo attenderci l'incorruttibilità. Lo Spirito Santo ci dispone a essa; ne è altresì il pegno, il suggello e, in quanto tale, il principio della speranza seminato nel nostro corpo. Argomentando a fortiori, Ireneo dichiara: "Se fin d'ora, avendo ricevuto il pegno dello Spirito, gridiamo: "Abba, Padre", che cosa accadrà quando, risuscitati, lo vedremo faccia a faccia, quando tutte le membra faranno zampillare abbondantemente un inno di esultanza, glorificando colui che li avrà risuscitati dai morti e avrà donato loro la vita eterna? Infatti, se già il pegno abbracciando l'uomo da ogni parte in sé stesso, gli fa dire: "Abba, Padre", che cosa farà la grazia intera dello Spirito, quando sarà data agli uomini da Dio? Ci renderà simili a lui e porterà a compimento la volontà del Padre, perché farà l'uomo a immagine e somiglianza di Dio". Quest'opera di progressiva assimilazione al Figlio, ovvero questa ricomposizione della somiglianza con Dio che si compie per tappe successive, non termina neppure con la morte, ma anzi continua in quel regno messianico che, secondo Ireneo, si pone tra la resurrezione e il giudizio finale. Lo scopo di questo regno è quello di preparare gli uomini, gradualmente, a ricevere l'incorruttibilità che proviene dalla visione di Dio.
In esso, dunque, Cristo porterà a compimento il senso dell'incarnazione, quello cioè di adattare gli uomini al Padre perché Egli comunichi a essi la sua incorruttibilità.

Essere "incorruttibili" significa allora partecipare alla natura di Dio. Ma tutto ciò è opera di Dio. L'uomo deve soltanto lasciar fare, non sottrarsi. In tal caso egli sarà sempre discepolo e Dio sempre maestro. Per questa ragione, secondo Ireneo, il trinomio fede/speranza/carità, inteso come espressione di dipendenza, non cesserà mai, nemmeno nell'altra vita. Conseguentemente l'incorruttibilità che Ireneo addita come il fine del cammino umano, non va intesa come una partecipazione "statica" alla vita di Dio, quasi che egli ce la conferisca una tantum.

Essa, piuttosto, proprio perché è vita, è partecipazione "dinamica" all'essere divino. Per questa ragione la speranza in Dio non verrà mai meno perché sempre aspetteremo che Egli, attingendo alla pienezza del suo essere, ci stupisca con doni sempre più grandi. "Speriamo - scrive Ireneo - di ricevere e di imparare qualcosa di più da Dio, poiché è buono e ha infinite ricchezze e un regno senza limiti e una sapienza immensa". Stando dunque a quanto s'è venuto dicendo, la speranza, per Ireneo, non sfocia in un "compimento" che la rende inutile. Essa è invece una virtù "dinamica" perché da un lato poggia sul continuo divenire dell'uomo e dall'altro sulla realtà effusiva di Dio che mai cesserà "di distribuire al genere umano in misura sempre maggiore la sua grazia e onorare continuamente con doni sempre più grandi coloro che gli piacciono". La spiritualità d'Ireneo si configura, dunque, come spiritualità attenta all'uomo concreto, alla sua carne. Proprio per questa ragione è una spiritualità ricca di speranza.


Fonte -




















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[Modificato da Bestion. 29/12/2010 11:50]
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30/12/2010 01:08
 
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Re: perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti e sole?????
[SM=x44597] scusi se le do' del ti bestion!!!! [SM=x44606] [SM=x44606] ma io proprio non capisco quale' il problema??????? la tecnologia?????? [SM=x44606] [SM=x44606] per la navicella spaziale???

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anche perché la MORTE non accetta una lira
30/12/2010 13:14
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Nella grotta della natività



«Ho allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me.
Il bue conosce il suo proprietario e l'asino la greppia del suo padrone,
ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende»

(Is 1, 2-3)



L'asinello prediletto
di Pier Giordano Cabra

Mi è sempre piaciuto collocare personalmente nel presepio il bue e l'asinello accanto a Gesù bambino. Con una predilezione per l'asinello, dato che la mamma mi ripeteva che gli assomigliavo.
Collocandolo dentro la bella grotta di sughero gli raccomandavo di fare compagnia per me a Gesù e, per non farlo sentire solo, gli mettevo accanto appunto anche il bue. Ma da quando ho trovato in Isaia che il "bue conosce il suo proprietario e l'asino conosce la greppia del suo padrone", la predilezione è passata al bue e ho cominciato a collocarlo per primo, sembrandomi più disinteressato, non essendoci di mezzo la ben nota e affollata greppia.

Rileggendo col passare degli anni e con più calma, il contesto di Isaia, come posso negare la necessità della presenza dei due simpatici animali? Li trovo indispensabili per dare realismo al presepio: "Ho allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me. Il bue conosce il suo proprietario e l'asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende" (Is 1, 2-3). Il profeta sembra aver legato alla luce dei due animali l'ombra dell'incomprensione del Natale.

A loro volta i due animali sembrano messi lì per ricordare che il Creatore e Signore di tutte le cose è venuto tra i suoi, ma i suoi non l'hanno ricevuto. Ieri come oggi.
Il bue e l'asino testimoniano il rifiuto da parte di un popolo che si ribella nei confronti del suo Signore o non riesce a comprendere quel suo desiderio di rassicurare il loro cuore, dal momento che Lui, il Padrone è venuto a fare un tratto di strada con noi e "non ci chiama più servi, ma amici".

Tutto vero. Ma con che coraggio potrei mettere nel mio presepio quest'anno queste due creature se le caricassi solo di questo insopportabile peso? Non hanno forse riconosciuto il loro padrone?
Mi deciderò a deporli al loro posto guardando però al Bambino, che aprendo gli occhietti incontra i loro occhioni, dopo quelli bellissimi della madre. E lo vedo sorridere loro, mentre parla nella loro lingua: "Grazie d'essere venuti a portarmi il benvenuto di tutta la creazione. E anche il benvenuto di quelli che per ora non mi conoscono, ma che mi riconosceranno, perché anche per loro sono venuto".

Deporrò allora il più possibile vicino a Lui il mio bue e il mio asinello, perché, illuminati da quel sorriso, essi hanno ricevuto l'onore d'essere l'icona di quell'istinto divino che spinge ogni creatura verso la sorgente della vita, quale immagine della consolante anticipazione di un mondo, predetto dai profeti, dove "ogni vivente vedrà il Salvatore".


Fonte -




















[SM=x44645] [SM=x44599]



















30/12/2010 16:10
 
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Te Deum laudamus
attribuito ai Santi Agostino e Ambrogio (IV° secolo)

Te Deum laudamus:
te Dominum confitemur.
Te aeternum patrem,
omnis terra veneratur.

Tibi omnes angeli,
tibi caeli et universae potestates:
tibi cherubim et seraphim,
incessabili voce proclamant:

"Sanctus, Sanctus, Sanctus
Dominus Deus Sabaoth.
Pleni sunt caeli et terra
majestatis gloriae tuae."

Te gloriosus Apostolorum chorus,
te prophetarum laudabilis numerus,
te martyrum candidatus laudat exercitus.

Te per orbem terrarum
sancta confitetur Ecclesia,
Patrem immensae maiestatis;
venerandum tuum verum et unicum Filium;
Sanctum quoque Paraclitum Spiritum.

Tu rex gloriae, Christe.
Tu Patris sempiternus es Filius.
Tu, ad liberandum suscepturus hominem,
non horruisti Virginis uterum.

Tu, devicto mortis aculeo,
aperuisti credentibus regna caelorum.
Tu ad dexteram Dei sedes,
in gloria Patris.

Iudex crederis esse venturus.
Te ergo quaesumus, tuis famulis subveni,
quos pretioso sanguine redemisti.

Aeterna fac
cum sanctis tuis in gloria numerari.

Salvum fac populum tuum, Domine,
et benedic hereditati tuae.
Et rege eos,
et extolle illos usque in aeternum.

Per singulos dies benedicimus te;
et laudamus nomen tuum in saeculum,
et in saeculum saeculi.

Dignare, Domine, die isto
sine peccato nos custodire.
Miserere nostri, Domine,
miserere nostri.

Fiat misericordia tua, Domine, super nos,
quem ad modum speravimus in te.
In te, Domine, speravi:
non confundar in aeternum.





















[SM=x44645] [SM=x44599]




















30/12/2010 16:12
 
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«Se la ragione resta chiusa di fronte alla questione su Dio,
questo finirà per condurre allo scontro delle culture»

(Benedetto XVI sulla sua lezione a Ratisbona)



“Paolo predica nell'Areopago"
Raffaello Sanzio (1515) - Victoria and Albert Museum, Londra


«Non si diventa sensibili al Cristianesimo affrontando
le grandi questioni filosofiche, cosmologiche o sociali,
ma acuendo il senso della propria esistenza»

(Søren Aabye Kierkegaard)



Nel Cortile dei Gentili
(Quello in cui non cresce l'ortica!)

di Don Matteo De Meo

Il Pontefice Benedetto XVI, nel suo discusso intervento a Ratisbona, nel settembre del 2006, si chiese se fosse necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione, ponendo le condizioni di una vera e propria sfida per ritrovare un’unità del sapere come condizione di dialogo, non solo per la filosofia e la teologia, ma anche per fornire all’uomo di oggi risposte alle domande di senso e di verità che inevitabilmente e in molti modi si pone, anche in una società frammentata come la nostra. “Non abbandonare la questione su Dio dell’uomo di oggi” è propriamente la sfida contenuta nella immagine biblica del “Cortile dei Gentili”. Ovvero, bisogna ricentrare lo sguardo sul nostro umano; come una questione teorica, meramente filosofica o peggio ancora, psicologica o sociale, ma innanzitutto come un dato di esperienza. Una delle intelligenze filosoficamente più logiche della modernità, Kierkegaard, diceva: “Non si diventa sensibili al Cristianesimo affrontando le grandi questioni filosofiche, cosmologiche o sociali, ma acuendo il senso della propria esistenza” (una frase citata moltissimo da De Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo).
Per cui non avremo mai una comprensione adeguata e autentica del cristianesimo stesso, se non recuperiamo il fondo della questione. L’evento cristiano si riferisce all’uomo, nella sua concretezza, nella sua storicità, in tutta la verità della sua piena dimensione. Non all’uomo astratto, ma all’uomo concreto storico: l’uomo nella sua irripetibile realtà dell’essere e dell’agire, dell’intelletto e della volontà, dell’intelligenza e del cuore; l’uomo che ha una sua storia, la storia della sua vita, l’uomo che insieme a tanti bisogni di natura corporale e temporale ha un fondamentale bisogno, quello della verità. L’uomo è ricerca della verità, domanda di verità, cioè di senso ultimo dell’esistenza: perchè esisto?

Sono rimaste scolpite nella mia mente le parole di un giovane padre di famiglia che, colpito da una grave malattia, mi disse piangendo, sentendo ormai la sua morte imminente: “..io ho un infinito desiderio di vivere e di essere felice, dimmi allora...perchè devo morire?...” Qual’è allora il senso profondo del mio vivere, del mio amare, del mio soffrire, del mio nascere, del mio morire? La verità è un forte grido che l’uomo sente dentro il suo cuore, che ritrova ogni momento nel suo cuore e che lo porta già oltre sè. La domanda stessa che nasce è irresistibile, è drammatica, e costituisce il tessuto profondo della vita. L’uomo non ha bisogno di verità, è il bisogno di verità; l’uomo non ha un senso religioso ma è il suo senso religioso. L’esistenza della domanda dimostra che l’uomo non ha in sè le risorse per rispondere a questa domanda. Questa domanda lo porta oltre sè, è una “inquietudine del cuore”, come dice s. Agostino. L’uomo che si stupisce di fronte alla realtà, di fronte al suo umano seriamente considerato, riconosce originalmente il bisogno di capire da dove viene, qual’è l’origine della sua vita e dove va, qual’è il senso profondo della sua esistenza, alla luce del quale può accettare se stesso e aprire la sua esistenza all’accoglienza degli uomini e delle cose.

Ho ricevuto una lettera, in questi giorni, di un amico biologo naturalista presso il CNR. Lo invitai qualche anno fa ad un incontro su tali questioni, come uomo di scienza e non “credente”. Vi leggo, col suo permesso, alcuni stralci:

“...Carissimo io credo che la nostra desueta amicizia (non sono mai riuscito ad intrattenere un rapporto duraturo con uomini di fede dopo un pò mi hanno sempre caritatevolmente scaricato) sia per me quel “cortile dei Gentili” di cui parli nel tuo saggio. Non solo un immagine, quindi, ma una realtà, un luogo umano...! E di questo ti sono grato! ... Anch’io non condivido molto delle posizioni di quel mio collega che tu citi spesso nel tuo saggio ma in un suo scritto mi ci ritrovo molto e, in un certo senso, il suo contenuto è emblematico del nostro rapporto: “.... Sdraiato sull’erba con il mento appoggiato sulle mani, all’improvviso il bambino percepì il groviglio di gambi e radici, una foresta in miniatura, un mondo trasfigurato di formiche, coleotteri…..La microforesta d’erba parve dilatarsi e diventare tutt’uno con l’universo e con la mente. Il bambino sentì quella bellezza come un’emanazione di Dio e per questo alla fine abbraccio il sacerdozio. In un’altra epoca in un altro luogo un bambino contemplava le stelle, Orione, Cassiopea e l’Orsa maggiore,si fa commuovere dalla musica inaudita della Via Lattea, inebriare dal profumo notturno delle campanule, di un giardino africano. Il bambino sentì quella bellezza e divenne biologo. -Richard Dawkins conclude- Come mai le stesse emozioni hanno condotto il cappellano in una direzione e me in un’altra?
Non è facile rispondere alla domanda”...Quanto espresso in queste poche righe da Dawkins (in The God Delusion), mi fa riflettere sul perché e cosa muove un uomo a fare delle scelte di questo tipo. Sono poi così diverse le due scelte? Molto probabilmente il confine umano che separa un uomo di fede come te, da un uomo di scienza come me che ha continuamente a che fare con fenomeni naturali (ecologia, biologia, fisica, ecc.) è molto meno lontano di quanto si pensi. Infatti, credo che abbiamo qualcosa in comune, nonostante le apparenti differenze, un grande senso religioso.

Io ho scelto la seconda strada, ma non sono in grado di dare una risposta del perché, della mia scelta. Sicuramente a condizionare la scelta è stata soprattutto la passione per le scienze naturali, e per tutto ciò che vive, per questo “misterioso” palesarsi dell’essere. Passione che ho avuto fin da quando ero bambino, tanto da diventare il mio lavoro da adulto.
L’armonioso ordine che sprigiona la natura con i suoi fenomeni, mi rinvia ad grande sacralità di ogni forma di vita, dalla più semplice alla più complessa, e ciò mi riempie sempre di stupore... L’osservazione della natura, delle sue leggi, della sua vita, presuppone un atteggiamento profondamente religioso.

Giovanni Paolo II nella lettera enciclica circa i rapporti tra fede e ragione scriveva: “La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità”.

Io spesso, per lavoro devo osservare e studiare animali, dalla forma strana come ostriche, cozze, vongole, molto lontano dall’immagine stereotipata, che abbiamo degli animali; osservandoli mi meraviglio stupito, che questi sono creature che respirano, mangiano, e si riproducono. Un’analoga riflessione la faccio osservando una grande quercia, un albero da frutta, o un banale filo d’erba, che, anche se apparentemente immobili, sono vitali e pieni di energia. Tutte le forme di vita, dalla più semplice alla più complessa, sono legate da un filo comune. Vi è un ordine dietro tutto ciò, che io vedo e osservo e che mette davanti un inesplicabile mistero...

Senza dubbio l’uomo moderno, nel senso di uomo tecnologico, è sempre più distratto dal desiderio di possedere, di consumare, estendendo questo concetto anche ai rapporti umani e sociali. Possedere, manipolare, è in fondo come un allontanarsi dal dato, come un’ultima forma di superbia dell’uomo, del suo egoismo che lo rende cieco; smette di osservare e confonde il dato con le sue idee...! Ma guardando la realtà come dato, senza pretesa di possederla, (ed è quello che faccio ogni giorno nel mio laboratorio ma anche quando guardo giocare i miei figli e abbraccio mia moglie) mi chiedo da dove venga tutto ciò, ....l’essere e il suo mistero.


Sull’argomento credo che l’uomo da sempre fin dalla notte dei tempi si è interrogato. Ieri, e mi riferisco a qualche secolo addietro, l’uomo coltivava maggiormente questa riflessione. Sant’Agostino nelle sue “Confessioni” esortava gli uomini ad avere più attenzione al proprio umano <>. Oggi interrogarsi sull’uomo, sul senso del suo essere è come parlare di cose che non hanno nessun valore ed interesse, e noto con tristezza come questa distrazione dilaghi anche fra molti che si dicono credenti. Molto più interessati a ciò che sentono che a ciò che vedono. Dicono, ragionano ma hanno smesso di guardare, di osservare. Una fede che pretende di reggersi sulla forza dei ragionamenti dimenticando i fatti e l’osservazione della realtà francamente non mi interessa...è irragionevole e consentimi molto pericolosa... é irragionevole credere senza vedere ed è veramente pericolosa se non insidiosa una fede senza la ragione. E credo che sia altrettanto pericolosa una ragione che non si lasci sfidare dalla fede...
Purtroppo fino a prima di incontrarti mi avevano sempre detto che la fede è questa...e molti vivono una fede così...E sinceramente non sò come si faccia a vivere una fede così. Come può esserci una connessione fra ciò che non vedo accadere, l’esperienza, e la fede. Non si può affidare la vita a qualcosa che non c’è, il cui esserci non mi si palesa. Ma dopo quanto mi hai scritto l’ultima volta, e leggendo il tuo “Cortile dei Gentili”, le cose iniziano ad assumere un contorno diverso... Ora sto iniziando a guardare ciò che ho sempre visto...Un’altro passo dentro il Mistero?...”

Ecco questo è l’uomo del Cortile dei Gentili, l’uomo che grida al Mistero come una grande incognita ma che non smette di cercarlo e che desidera che si palesi che si faccia vedere...!
L’uomo è un uomo religioso, non semplicemente nel senso che sente la necessità di conoscere un oggetto diverso da quelli che conosce normalmente, ma nel senso che l’uomo sente il desiderio di un incontro che lo riveli a se stesso, che gli faccia capire il senso profondo della sua esistenza. L’uomo incomincia come coscienza, perchè la coscienza dell’uomo è il punto in cui questo è recepito, è raccolto, è sentito, e perciò l’uomo si dispone a vivere la grande avventura della vita. La grande avventura della vita è la conoscenza di sè. Noi crediamo al Dio di Gesù Cristo perchè è il Dio che rivela totalmente l’uomo a se stesso, Cristo rivela all’uomo tutta la verità su di lui.

E di questo noi, credenti, siamo sfidati a dar ragione percorrendo e non “dribblando” i sentieri spesso nebbiosi e fumosi del Cortile dei Gentili.


Fonte -




















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Re: Re: perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti e sole?????
[SM=x44599] chissa perche' mi e' venuta in mente sto pezzo [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602]
.......riuniti infra de loro,
senza l’ombra de un rimorso
ce faranno un ber discorso
sulla pace e sur lavoro
per quer popolo cojone
risparmiato dar cannone....
(trilussa)
[SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602]


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31/12/2010 11:39
 
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Adeste fideles
attribuito a Wade del John Francis - 1743 (da un Canto del XIII° secolo)

Adeste fideles læti triumphantes,
venite, venite in Bethlehem.
Natum videte Regem angelorum.
Venite adoremus (ter)
Dominum.

En grege relicto humiles ad cunas,
vocati pastores adproperant,
et nos ovantes gradu festinemus.
Venite adoremus (ter)
Dominum.

Æterni Parentis splendorem æternum,
velatum sub carne videbimus,
Deum infantem pannis involutum.
Venite adoremus (ter)
Dominum.

Pro nobis egenum et fœno cubantem
piis foveamus amplexibus;
sic nos amantem quis non redamaret?
Venite adoremus (ter)
Dominum.





















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31/12/2010 13:42
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


31 dicembre 2010
L'anno che va, il tempo che viene



“Gesù, Buon pastore"
Seconda metà del III° secolo - Affresco, Catacombe di Priscilla, Roma


«Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me,
come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore.
Ho altre pecore che non sono di quest'ovile; anche queste io devo condurre;
ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore»

(Gv 10, 14-17)



Te Deum del cuore
Davide Rondoni

E ora che l’anno finisce, il cuore deve de­cidere da che parte stare. Il cuore, che è la sede delle decisioni che davvero segnano l’esistenza, come dice la Bibbia. E il nostro cuore, adesso che finisce un anno duro e pie­no di fatiche, deve decidere: lamento o gra­titudine?

È sempre così. Di fronte a un anno che passa, come di fronte al viso dei propri figli, o delle persone che ti trovi accanto. Hai mille motivi per lamentarti, cuore nostro. Mil­le motivi per dare voce alle ferite. Alle delu­sioni. Ai torti subiti. Mille motivi per far par­lare la lingua amara della rivendicazione. O la lingua stanca dell’avvilimento.

Molte notizie che anche oggi troviamo sui giornali farebbero salire parole dure dal cuo­re. Ma come c’è la durezza della pena, c’è an­che la durezza della gioia. La resistenza, la forza della gratitudine. Quella che proviamo per cose che magari sui giornali non ci fini­scono. La gratitudine per le cose da niente che costellano la nostra vita. Per il respiro che ancora ci viene accordato, e il riso e anche per il pianto con cui conosciamo il dolore e l’amore. Le cose che non fanno notizia, co­me il sorriso di un figlio, l’occhiata della per­sona che amiamo, il suo voltarsi quando la salutiamo. Quelle cose da niente che non fan­no notizia, ma che ci suggeriscono una gra­titudine invincibile.
E noi vogliamo scegliere di rendere grazie per queste cose da niente. Per la fede dei semplici, papi nel fulgore del loro ministe­ro o ammalati nella penombra della loro of­ferta. Vogliamo ringraziare per tutte le ma­dri che, camminando lavorando soffrendo, non perdono la speranza. E custodiscono l’amore. Per tutti quelli che non fanno no­tizia e fanno andare il mondo, mettendo cu­ra e pazienza in lavori senza onori appa­renti. Gratitudine per la bellezza spavento­sa e dolce di questo posto chiamato Italia, edificato dal genio, dalla fede e dalla opero­sità dei nostri padri, sotto i cui cieli abitia­mo e vediamo panorami per cui vale la pe­na essere venuti al mondo. Il nostro cuore decide di ringraziare, in questa fine d’anno. Per le cose che ci hanno corretto. Per quel­le che, pure facendoci soffrire, ci hanno le­gato di più a ciò che vale.
E ringraziare per le cose da niente, i 'buon­giorno' scambiati per le scale, i 'se hai biso­gno di una mano, ci sono' che ci hanno det­to anche con gesti silenziosi. Vogliamo ren­dere grazie per la benedizione dei bambini nostri e per quelli degli altri. Per i loro visi do­ve tutto reinizia. E per la pazienza dei nostri anziani, che onorano il tempo senza sentir­lo come una ingiustizia, ma come un chiari­mento. Vogliamo ringraziare per la pazienza preziosissima dei sofferenti nel corpo, nella mente. Per chi è restato senza lavoro, ma non senza dignità. Per le cose che non fanno mai notizia, come la cura e l’amicizia offerta da tanti a chi è solo. Per il mare di bene che con onde silenziose sostiene il nostro viaggio.

Ora che l’anno finisce strapperemo il cuore dalle mani del demonio lamentoso che vor­rebbe non farci vedere come i cuori di tutti cercano il bene. Ora che finisce l’anno con tutte le sue ferite e le sconfitte e le perdite, rin­grazieremo per tutti i doni, e per il segreto bene che si nasconde anche nel patimento se una mano ci passa sugli occhi come ai bambini. Ringrazieremo per tutti gli abbrac­ci silenziosi. Per i baci di amicizia e di amo­re scambiati. Per le cose da niente che non fanno notizia ma hanno fatto la vita e la spe­ranza per questo anno che finisce. E ringra­zieremo per il dono più misterioso di tutti, la fede. Per le mani che ce lo hanno offerto, per i volti che lo hanno confermato in mezzo al­le tenebre dell’anno. Per i dolci amici che ci hanno parlato di Lui, Signore buono dell’an­no che va e dell’istante che viene.


Fonte -




















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31/12/2010 17:30
 
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01/01/2011 11:21
 
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“Madonna del Magnificat"
Sandro Botticelli (1480) - Galleria degli Uffizi, Firenze



Magnificat
Testo: Vangelo di San Luca (cap 1, vv 46-55)
Musica: dal canto gregoriano, ai diversi autori nei secoli successivi


Magnificat
anima mea Dominum,

et exultavit spiritus meus
in Deo salutari meo

quia respexit humilitatem ancillae suae,
ecce enim ex hoc beatam me dicent omnes generationes

quia fecit mihi magna, qui potens est:
et Sanctus nomen eius

et misericordia eius a progenie in progenies
timentibus eum.

Fecit potentiam in brachio suo,
dispersit superbos mente cordis sui,

deposuit potentes de sede,
et exaltavit humiles;

esurientes implevit bonis,
et divites dimisit inanes.

Suscepit Israel, puerum suum,
recordatus misericordiae suae,

sicut locutus est ad patres nostros,
Abraham et semini eius in saecula.

Gloria Patri et Filio
et Spiritui Sancto

sicut erat in principio et nunc et semper
et in saecula saeculorum. Amen.






















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01/01/2011 13:08
 
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[Modificato da Bestion. 01/01/2011 13:12]
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01/01/2011 17:46
 
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01/01/2011 19:30
 
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Ascoltato per voi: Bach/Magnificat
Dal Chiostro del monastero benedettino di Melk, in Austria, il Magnificat di Bach
nell'interpretazione del Concentus Musicus Wien fondato e diretto da Nickolaus Harnoncourt







Fonte -




















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02/01/2011 11:08
 
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02/01/2011 15:20
 
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02/01/2011 22:18
 
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04/01/2011 13:04
 
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04/01/2011 16:15
 
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04/01/2011 22:55
 
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«Cantate al Signore un canto nuovo, cantate al Signore da tutta la terra.
Cantate al Signore, benedite il suo nome, annunziate di giorno in giorno la sua salvezza»

(Sal *96, 1-2)





«il Dio dei cantautori non è immenso, non è irraggiungibile,
al contrario è un Dio con cui si parla, si litiga, si blatera,
si chiede perdono a tu per tu»

(Roberto Vecchioni)



Cantautori
A tu per tu con Dio

di Roberto Vecchioni

In musica, nella grande musica (dalla polifonia medioevale all’Ottocento), Dio è stato celebrato con afflati e trasporti spirituali che sfiorano il sublime (si pensi a Monteverdi, a Palestrina, ad alcune insuperate romanze) ma ne è venuto fuori sempre un Dio astratto, lontano, temuto e adorato, incapace di interagire col mondo, alto e inaccessibile.

Anche nella poesia, nella grande poesia, Dio è vissuto nell’icona che lo vuole e lo trasmette universale, Dio di popoli, di nazioni o di umanità tutta, mai o raramente dall’uomo, del singolo, mai o raramente con una voce, un viso, delle mani, delle parole. E anche quando tutto ciò è in parte avvenuto (penso all’originalità di Prévert, ma ai surrealisti in generale) sempre stragrande, immenso, imbattibile, amato o odiato che fosse, su un altro piano, mai a tu per tu. Poi ci sono le eccezioni. Padre Turoldo, Madre Teresa. E forse proprio da queste eccezioni sono partiti i cantautori, per parlarne. Perché il Dio dei cantautori non è immenso, non è irraggiungibile, al contrario è un Dio con cui si parla, si litiga, si blatera, si chiede perdono a tu per tu.

Un Dio che arriva nella canzone d’autore coi grandi autori di fine anni ’60, primi ’70: De André, Guccini, Gaber. Nel ’65 Guccini scrive Dio è morto. Nello stesso anno, con tutt’altro piglio, Celentano interpreta Pregherò, che si può dire il perfetto opposto del buio gucciniano.

Pregherò è una canzone immediata, facile e anche furba di fede. «Non puoi odiare Dio perché non puoi vederlo, ma c’è». Verso che presuppone una cecità spirituale ma anche probabilmente fisica con conseguente rancore nei riguardi del destino: l’escamotage religioso di Celentano è elementare: io con il mio amore ti farò vedere Dio. Differente anni luce è l’impatto di Guccini con Dio è morto: intanto in lui Dio è metafora del dolore immenso che sconquassa il mondo, della perdita dei valori, delle guerre, della fame, della miseria e quant’altro. Non è quindi Dio in sé ad essere morto, bensì la società tutta che confonde il male con il bene, non conosce più limiti, non ha più nessuna pietà.

A dare voce allo scontento e all’incertezza umana arriva nel ’67 De André (con Spiritual e Si chiamava Gesù) col suo Dio-uomo da una parte e il suo uomo incolpevole dall’altra, temi che tre anni dopo esprimerà in senso più ampio ne La buona novella. Altra storia è in De André: lui sì che prende e subito una posizione. L’afflato di Fabrizio è fortemente, tortuosamente terreno, è l’uomo il centro morale, il valore primo dell’universo; ogni cosa parte dall’uomo e nell’uomo ha il suo epilogo. Ma De André crede in Dio? Parrebbe di no. Dio è invenzione del potere per avere la scusa di comandare in suo nome e giustificare a suo nome ogni bassezza.

La splendida Preghiera in gennaio (dedicata al suicidio di Tenco) è una specie di sommario delle certezze di De André, che non sono così «laiche». Per lui non esiste l’inferno, Dio accoglie chi ha sofferto (anche i peccatori) e, fondamentale, Dio ascolta gli uomini per aiutare gli uomini. Non solo Preghiera in gennaio è un capolavoro, ma mi pare nella sua non laicità, nel suo sfondo eretico un atto di fede ancor più forte di mille lodi al creatore. È evidente che De André fosse affascinato dal sospetto dell’esistenza di Dio, ma lo immaginò uguale identico al suo sentire, senza stare a seguire bibbie e vangeli.

E infatti nemmeno i Vangeli canonici seguì. Nella Buona novella a De André non interessa celebrare la venuta di Dio sulla terra. A lui preme dimostrare come un uomo straordinario abbia insegnato al mondo la pietà e, attenzione non il perdono, la pietà. Si perdona infatti solo chi ha colpa e se ne pente, ma nell’universo di Fabrizio, l’uomo non è responsabile del male, o ci nasce in mezzo o se ne difende, come nel sublime Testamento di Tito.

Contestuale anche se fortemente politico, caustico, graffiante è il Gaber dell’80 (Io se fossi Dio), che stila in effetti un panorama definitivo delle bassezze di questo mondo, augurandosi l’avvento di un Dio vendicativo e punitore. Gaber rivolgendosi direttamente al creatore aveva già scritto nel ’70 una bellissima "preghiera", il cui tema (guardar giù anche tra gli scontenti, i disgraziati, gli operai) riprenderà De André in Smisurata preghiera» e si era divertito (e qui l’ironia è tutto) in una bizzarra Madonnina dei dolori del ’72 fuori dalla norma perché ai grandi problemi metafisici oppone le sue minuscole fastidiosissime disgrazie di uomo comune.

Io se fossi Dio è una valanga di citazioni, sottintesi e no, un torrente di invettive, di gridi liberatori, di offese, un mix alla Savonarola, insomma. Ovviamente anche qui Dio è un ruolo una scusante una maschera, ma a differenza di De André, Gaber a Dio ci crede eccome, e sotto sotto spera che prima o poi intervenga per punire questo letamaio. Tra le righe si evince che nella sua disamina Gaber lascia intendere che forse è così che deve andare: l’altro Dio quello vero, permette tutto quello che lui non permetterebbe ma avrà bene le sue ragioni anche se inarrivabili e oscure.

Negli anni ’70 non possiamo fare a meno di citare l’altra storia del mondo, così minuziosamente complessa, fascinosamente darwiniana che ci presenta Lucio Dalla in Com’è profondo il mare. Il tema di fondo è la storia del pensiero libero umano soffocato dall’ignoranza e dalla prevaricazione evidenti nelle ultime due strofe dove chi comanda, non potendo eliminare il male (metafora del progresso popolare) lo brucia lo uccide lo umilia. Non erano tempi quelli di salamelecchi e sviolinate, oggi a distanza di trent’anni Dalla, come molti d’altronde, si è chiamato fuori, ha sepolto nel passato la sua vena contestatrice e provocatoria e si è trovato a consacrare e legittimare la presenza e le ragioni di Dio nel mondo (come nel brano Inri).

D’altronde questo rendez-vous con la fede pare che oggi sia una tappa quasi obbligatoria per molti cantautori, da Baglioni a Jannacci a me stesso, quasi che «tirare i remi in barca» abbia bisogno di una giustificazione, di un alibi che faccia da solido contrappeso. Bisogna considerare che una gran parte di cantautori crede in Dio ma non sopporta l’istituzione terrena che lo rappresenta.

E se Bennato se la prende con il papa cattolico (Affacciati affacciati, contro Paolo VI), Franco Battiato (’79) punta in ben altra direzione. A un suo immaginifico e totale spiritualismo che va oltre la riduttività e il particolarismo culturale appunto di qualsiasi rivelazione. E così fin dagli esordi gli piace giocare con un universo non contenibile nel ristretto cerchio della carità cristiana, ma individuabile e decifrabile (in un mare di simboli) in un contesto ben più ampio dove egli si muove e si esplica tra misticismi orientali e nozioni sufi, con vaghe parentele nel mondo musulmano e arabo in genere.

Agli inizi degli anni ’80 si torna per così dire alla tradizione con Renato Zero e Vasco Rossi, appena prima del grande silenzio che durerà fino agli anni ’90. Vasco in Portatemi Dio (dell’83) è già uguale a se stesso coerente con il suo personaggio provocatorio e blasfemo, crudo, granitico, cialtrone e coraggioso.

E siccome è Vasco Rossi fa quel che nessuno aveva mai tentato, se la prende direttamente con Dio quasi che costui fosse un divertito torturatore delle sue creature, intimandogli senza pudori di presentarsi in giudizio e attribuendosi il potere di giudicarlo. Vasco non se la prende con Dio per le ingiustizie e i dolori dell’umanità, bensì solo per le colpe che il Signore avrebbe nei suoi confronti («Gli devo raccontare la vita che ho vissuto e che non ho capito a cosa sia servito») che è poi una tacita scusante, un giustificativo ai suoi eccessi, ai suoi anticonformismi. Zero (che canta Potrebbe essere Dio, si badi bene al condizionale) ritaglia un brano intenso e profondo senza andare a cercare metafore alate e volando basso e convincente con esempi di tutti i giorni.

L’assunto in fondo è lo stesso in cui ci siamo più volte imbattuti, ovvero l’erronea propensione degli esseri umani a mitizzare piaceri fuggevoli, a mercificarsi, a ritenere indispensabili e imperdibili oggetti di tutti i tipi, false immagini di illusoria felicità. Gli anni ’80 sono muti con Dio, a meno che non adombri qualcosa quel Ci vuole un’altra vita di Battiato del 1986. I motivi di questo silenzio sono ovviamente culturali. Sono anni in cui parecchi cantautori, anche storici, cambiano faccia o si rivolgono ad altro; molti di nuovi si affacciano sulla scena, ma non hanno ancora né la voglia né il carisma per misurarsi in tal senso.

Negli anni Novanta, invece, parlar di Dio sarà sempre più frequente. Meglio se in dialogo a due con il Creatore. A parte alcune eccezioni, negli anni ’90 e ancor più nei 2000 si invertirà la percentuale tra invettive e preghiere a favore di queste ultime. Una delle più belle pagine di ricerca lessicale e letteraria resta sicuramente Qui Dio non c’è di Baglioni da Oltre del ’90. Vi si affronta mancanza (e il bisogno) della fede. Nasce un filone nuovo, al quale appartengono anche brani "minori" come Dio c’è del ’92 di Mia Martini e il suo esatto contrario Dio non c’è di Marco Masini del ’93. Il 1993 è anche l’anno di un’intensa Ave Maria, portata al Festival di Sanremo da Renato Zero. Da rilevare che quando la Madonna appare in canzone fa sempre figure superlative: la sua immagine è accompagnata da un senso di rispetto generale quasi fosse un’icona intoccabile, da non mettere in discussione, al contrario di Dio. Tutto ciò fa parte di un transfert spiegabilissimo. La Madonna non comanda e non impone, è l’eterna madre e quindi la dolcezza del mondo e nel mondo.

Su questa lunghezza d’onda troviamo la Madre dolcissima di Zucchero che è una sintesi dedotta e modernizzata dalla versione canonica degli Aquero. Nel 1994 resta da segnalare una inusuale incursione di Gino Paoli nell’ambito religioso. Già dal titolo Il Dio distratto si desume l’argomento: le cose non vanno bene perché Dio non è molto attento. Notare la sottile differenza con altre canzoni.

Qui Dio non è cattivo o sadico, e non è neppure uno che non deve spiegarci niente perché lui sa e noi no. Dio è solo distratto, il che ci riconduce ad un Paoli illuminista e voltairiano, Dio è il grande orologiaio. Al dialogo diretto col Supremo appartengono Un giorno un sogno di Antonacci e Hai un momento Dio di Ligabue. Il dialogo con Dio diretto a botta e risposta è cosa impervia e rischiosa.

L’escamotage per renderla credibile sta nell’abbassare Dio a livello umano, farlo parlare e agire come un uomo, altrimenti tutto diventa grottesco. Il brano di Antonacci parte bene e poi si sfilaccia, finisce cioè nello stereotipo della donna che non torna e si deprezza ancor più con due versi finali a tarallucci e vino.

Ligabue, nella sua semplicità, mi sembra invece più consistente. L’approccio all’Eterno è più immediato e consequenziale, molto discreto, riverente e la domanda non è poi di quelle che ci vogliono anni e pagine per rispondere: «Io sono un bravo ragazzo, vuoi incontrarmi almeno per un attimo?». Gli ultimi quindici anni sono un andare e venire di argomentazioni, soliloqui, variazioni su tema che non possono essere assemblati o incasellati in categorie.

C’è di tutto: dalla farneticazione geniale di Battiato ne L’esistenza di Dio, dove la scienza seziona e ricuce per cercare anima e tracce di sopravvivenza nell’uomo, all’ironia nemmeno troppo nascosta di Paola Turci in Ringrazio Dio (testo invero criptico dove la solitudine si mischia e si confonde come i soggetti) che quasi implora nuove prove e nuovi dolori per movimentare questa valle di lacrime; all’ennesimo dialogo (stavolta indiretto) di Finardi con Dio, dove l’umanizzazione è chiaramente proposta come un ipotesi (Se Dio fosse uno di noi).

Non c’è solo l’umanizzazione di Dio, ma anche lo scambio di ruoli: è Dio a soffrire e l’uomo a commiserarlo. E arriviamo all’Agnello di Dio di De Gregori, brano complesso, sfuggente, qua e là ostico, faticoso da intendere. Di certo c’è che la figura dell’agnello desunta dal Vangelo assume un significato molto più ampio di quello comune.

L’agnello è sacrificale e De Gregori ci illustra una galleria di esistenze illuse, comprate, deteriorate dalla civiltà del benessere «che tutto consuma, compreso l’amore». Lacerante pessimismo che nega un qualsiasi piano provvidenziale finale, Dio non abita da queste parti. Del ’96 è pure Oggi un Dio non ho di Raf, altra temperie ovviamente di minore profondità.

Anche qui Dio è metafora di una strada ,di un indirizzo di vita di, un percorso chiaro da scegliere per arrivare a un fine. Il cantautore però sembra aver perso almeno momentaneamente la bussola. Oggi un Dio non ho è un esempio di crisi, di accecamento, di buio momentaneo, accidente piuttosto comune nei credenti e quindi fonte di identificazione per chi ascolta. Chi invece crede e fa la lista dei suoi buoni propositi e delle sue buone azioni per accattivarsi Dio è Ruggeri nel Padre nostro 1989 Ma il brano è convenzionale, scontato e gli accenti musicali impongono una metrica obbligata che lo raffredda tantissimo. Ben altro spessore, e ben altra altezza di ispirazione ne Un Dio che cade di Gianna Nannini.

La canzone è di una consequenzialità perfetta, dall’attesa alla speranza di felicità, che poi dovrebbe essere il fine ultimo di tutti gli uomini. L’attesa, sacra e umana assieme, è quella non di un Dio che scende e si fa vedere ma di un Dio che cade e quindi riconosce le possibilità di errore delle sue creature: cade appunto come loro. Nel testo anticonformista brillano le locuzioni usate dalla Santacroce (l’autrice) per un finale che annuncia dolcezza e rifugge dall’orrore del tuono: eccola dunque la speranza, quella di un mondo senza colpe. Tre versi dicono molto di più di un saggio intero e Fossati (in Baci e saluti del 2006) li segna ad epigrafe su di un testo straordinario vissuto all’ombra e in parallelo con i grandi poeti sudamericani di cui conosce anima e sintassi.

«Posso nascondermi aspettando che ritorni / tutto quel vuoto stellato/ dove a Dio piace improvvisarsi pescatore». Ma la voce più certamente più originale, più singolare che si eleva a cantare il rapporto con una sacralità presente e intangibile, ma comunque chiamata a significare la speranza è quella nel 2006 di Vinicio Capossela in Ovunque proteggi. Non esiste nessuna preghiera, nessun «a tu per tu» in questi anni che arrivi così decisamente e direttamente al Signore, come questa voce laica e sprovveduta, peccatrice, deviata dagli eventi, ma pregna di una fede tra disperazione e sogno. Capossela porta il dialogo a due all’estrema essenzialità – valore del lirismo – ed è cantore graffiante della sua anima in questo estremo rivedersi e risolversi nel bisogno spasmodico non di doni o facilitazioni, non di conquiste o miracoli, ma di tenerezza divina, di aiuto ora e sempre, in una parola di protezione.

L’ambiguità è evidente: Dio è quasi assimilabile a una persona umana (a un padre, a una donna) che comunque ci sia, sia pronta a prendere le sue difese sempre (ovunque proteggi la grazia del tuo cuore); ma è straordinariamente pulsante ed emozionante il desiderio dolcissimo che Dio o chi Capossela voglia investire di tale potere sia la conditio sine qua non per continuare a vivere e credere. Questo sghimbescio, questo sfogo fuori norma, questo mascherare una fede per creare amore resta una delle invenzioni più riuscite a significare un rapporto possibile con il Signore.

Volutamente ho saltato dall’indagine temporale (che non è probante) un brano di De André da Anime salve, e cioè Smisurata preghiera. L’ho fatto perché penso si tratti di un compendio generale di quasi tutto quello che abbiamo analizzato e perché oltre ad essere un capolavoro assoluto la possiamo usare per tirare le fila, per abbozzare una conclusione ovviamente momentanea, dato che una definitiva non credo sarà mai possibile.

Per Smisurata preghiera De André ha preso spunto da Il gabbiere di Álvaro Mutis, poeta sudamericano, ricostruendo in versi una summa che vale da suo testamento spirituale. Il De André di sempre, alto, altissimo a difendere la debolezza coerente e minoritaria continuamente offesa contro la maggioranza che non lascia spazio a chi esce dal cerchio e dai limiti; è il De Andrè di Villon, dei due ladroni, del Fiume Sand Creek, del suo lontanissimo Piero, il De André percorso da un fuoco di sdegno e da un vento di dolcezza che si confondono e ci ammaliano sino alla commozione. Il solito Faber sì, ma sul finale ecco la sorpresa, ecco quel rivolgersi umile e disperato a Dio (credere per sopravvivere), implorandolo di salvarli tutti questi «servi disobbedienti» troppo sfortunati in vita per patire anche dopo la morte.

Gli ultimi nove versi, poi, sono un capolavoro nel capolavoro: è come se tutto il dolore, tutta la miseria del mondo si fossero concentrati in quell’attimo nella sua penna: «Non dimenticare il loro volto che dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna li aiuti», è così sino ai quattro colpi finali, parattatici rispetto a quelli centrali, anche se di segno e significato opposto: Fabrizio si fa suggeritore a Dio, giustificandolo (anche Lui) come ha fatto con tutti e sempre, ma lo mette di fronte alla pietà che proprio Lui non può tradire, lo incatena al patto con la sua divinità fatta di misericordia.



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05/01/2011 00:04
 
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perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti e sole?????
[SM=x44599] vecchioni c'e' una bella canzone "shalom" ci sono dei pezzettoni non indiferenti [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602]

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non bisogna avere paura di un Popolo che non ha Potere ma di chi detiene il Potere di Quel Popolo
anche perché la MORTE non accetta una lira
05/01/2011 16:42
 
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Epifania 2010: concerto all'Auditorium di Milano dalla "laVerdi Barocca"



Uno dei capolavori di Bach, l'Oratorio di Natale,
per festeggiare l'Epifania all'Auditorium di Milano.
Con brunch nel foyer tra la prima e la seconda parte del concerto.



Epifania con l'Oratorio di Bach
Pino Pignatta

Epifania del Signore davvero commovente, dal punto di vista musicale e spirituale (e sappiamo che questi due aspetti in Bach erano intimamente connessi) quella che va in scena domani all'Auditorium di Milano. L’Orchestra laVerdi Barocca, diretta dal maestro Ruben Jais - con l’Ensemble vocale de laVerdi Barocca diretta da Gianluca Capuano - dopo il grande successo dello scorso anno, eseguirà nuovamente, in forma integrale, l’Oratorio di Natale di Johann Sebastian Bach, composizione tanto vasta e grandiosa quanto concettualmente omogenea: si presenta come un ciclo di sei cantate, una per ciscuna delle sei festività comprese tra il giorno di Natale e l’Epifania, e precisamente: il dies Natalis, la festa di santo Stefano, quella dell’apostolo Giovanni, la Circoncisione (o Nuovo Anno), la domenica dopo il Capodanno e l’Epifania.

L’Oratorio di Natale composto da Johann Sebastian Bach, in tedesco Weihnachts-Oratorium, è uno dei capolavori della musica liturgica, scritto a Lipsia, dove Bach era Kantor da più di dieci anni, per le festività natalizie del 1734-1735. Nella produzione sacra bachiana il termine “Oratorium” ricorre tre volte, nei momenti culminanti dell’anno: Natale, Pasqua e Ascensione. Può avere un carattere narrativo, come nel caso dell’Oratorio di Pasqua, oppure privilegiare il racconto del Vangelo e affidarne l’intonazione a un tenore, nelle vesti dell’Evangelista, e questo è il caso del Weihnachts-Oratorium. È una composizione articolata in 64 brani, fra i quali si alternano arie solistiche, arie a più voci, recitativi accompagnati dal basso continuo e che ripropongono direttamente i Vangeli di Luca e Matteo. Entrano in scena personaggi come l’Angelo, i Magi, Erode, e non manca l’intervento dei cosiddetti “cori della turba”, cioè del popolo dei pastori che prende parte all’azione.

Il concerto proposto domani all'Auditorium di Milano dalla "laVerdi Barocca" (ensemble specializzato nell’esecuzione della musica barocca, secondo un approccio filologico) è davvero curioso anche perché prevede l'esecuzione integrale divisa in due parti: le prime tre Cantate che compongono l'Oratorio di Natale di Bach a partire dalle 11.30; le seconde tre Cantate, che si chiudono appunto con l'Adorazione dei Re Magi, a partire dalle 15. Nel mezzo, tra le due sezioni del concerto, brunch nel foyer dell'Auditorium.


Fonte -


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05/01/2011 19:49
 
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05/01/2011 19:52
 
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