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La presenza di Dio

Ultimo Aggiornamento: 12/06/2020 09:44
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13/04/2011 18:03
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!

QUARESIMA: tempo di C o n v e r s i o n e
«Per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità.
Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce»

(Gv 18, 37b)


“La corona di spine" - Dirk van Baburen (1623) - Catharijneconvent, Utrecht

«Solo mediante la fede nel Crocifisso, in Colui che è privato
di ogni potere terreno e così innalzato, appare anche la nuova
comunità, il nuovo modo in cui Dio domina nel mondo»


Come e perché conoscere
Gesù di Nazaret

Mariano Crociata

Senza voler essere un formale atto di magistero (cfr. Gesù di Nazaret. Dall'ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, I, p. 20), la seconda parte del Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI si conferma come una felice e matura sintesi di una lunga e feconda riflessione teologica portata fin dentro l'esercizio del ministero petrino. I criteri che essa presuppone trovano espressione esemplare nell'Intervento del Papa nel corso della XII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, il 14 ottobre 2008. In esso affermava la necessità del metodo storico-critico che riposa sul mistero stesso dell'incarnazione. "Il fatto storico - diceva - è una dimensione costitutiva della fede cristiana. La storia della salvezza non è una mitologia, ma una vera storia ed è perciò da studiare con i metodi della seria ricerca storica". Essa ha di peculiare che si tratta di una storia aperta all'azione divina, la quale si rende operante nel processo di formazione della stessa sacra Scrittura. Nella sua qualità di parola umana e Parola divina allo stesso tempo, la Bibbia richiede di essere "letta e interpretata con lo stesso Spirito con il quale fu scritta" (Dei Verbum, n. 12), in tal modo "seguendo una regola fondamentale di ogni interpretazione di un testo letterario" (Benedetto XVI, Intervento, cit.). I tre elementi metodologici che devono guidare l'interpretazione sono, perciò, l'unità di tutta la Scrittura, che dà origine all'esegesi canonica, la viva tradizione della Chiesa, l'analogia della fede ovvero la coerenza organica di tutti i contenuti della fede. L'assenza di qualcuno di questi elementi rende la Scrittura "un libro solo del passato" e vede affermarsi una ermeneutica secolarizzata che si basa sulla "convinzione che il Divino non appare nella storia umana", creando anche "un profondo fossato tra esegesi scientifica e lectio divina" (ib.).

L'opera che presentiamo in linea di principio afferma e realizza il superamento della separazione tra esegesi scientifica ed ermeneutica della fede o interpretazione credente della sacra Scrittura, per pervenire così ad una compiuta esegesi teologica. In questa prospettiva l'Autore si confronta con la più aggiornata ricerca esegetica e teologica contemporanea, ma attinge anche a tutta la tradizione con una particolare attenzione ai Padri della Chiesa.
La ragione di fondo della elaborazione di tale sintesi è da ricercare innanzitutto nell'esigenza di conoscere quello che Benedetto XVI chiama il "Gesù reale" (Gesù di Nazaret, II, p. 8), espressione che si intende bene se la si confronta e la si distingue dalla formula del "Gesù storico", con cui la ricerca si riferisce al Gesù conosciuto in base alle risultanze dell'applicazione ai testi scritturistici del metodo storico-critico. Conoscere il Gesù reale non può prescindere dalla dimensione costitutiva della sua identità e della sua esperienza, e cioè dal suo rapporto personale e unico con Dio, il Padre. Questo rapporto si può discernere solo nella luce della fede; all'infuori di tale prospettiva difficilmente prenderebbe senso; ma, d'altra parte, esso costituisce la dimensione originaria e generativa della persona di Gesù e di tutta la sua vicenda storica, così che il prescinderne precluderebbe irrimediabilmente la possibilità di accedere alla realtà storica dell'uomo di Nazaret. Le riserve che possono essere avanzate, a questo riguardo, si dissolvono di fronte alla considerazione che la fede non si dà senza la ragione, né tanto meno si oppone alla ragione, ma piuttosto costituisce l'orizzonte più vasto entro il quale essa può liberamente e criticamente esercitarsi nella penetrazione del mistero della realtà.

L'altra faccia di questa considerazione riguarda il nostro approccio a Gesù di Nazaret. La domanda su "come" conoscerlo si intreccia con l'altra sul "perché" conoscerlo. Se la fede è condizione imprescindibile della conoscenza della sua realtà storica e personale, allora non può esserci conoscenza di lui senza rapporto con lui, analogamente a come solo la comunione con lui ha permesso ai suoi discepoli di aprire un accesso alla sua realtà e di renderne testimonianza.
Chiunque può conoscere Gesù di Nazaret, ma lo incontra e lo conosce realmente solo chi perviene al segreto sorgivo della sua persona di Figlio eterno del Padre e come tale entra in relazione di fede e di amore con lui, sperimentando "l'intima amicizia con Gesù, da cui tutto dipende" (I, p. 8). Nell'orizzonte della fede la conoscenza storica su Gesù di Nazaret non perde in nulla di onestà intellettuale e di rigore critico, ma si consolida e si allarga all'identità e all'incontro personale che nessuna acribia storiografica da sola potrebbe assicurare.
Uno sguardo al pontificato di Benedetto XVI dall'ottica di questo suo libro, conferma un'intuizione che si è fatta strada fin dalla sua prima enciclica, Deus caritas est. Un messaggio passa attraverso la scelta e lo sviluppo dei temi adottati; messaggio che segnala l'urgenza, per la Chiesa di questo tempo, di ripartire dall'essenziale, dal centro della fede, e dall'intero, dalla salvaguardia e dalla trasmissione dell'integro patrimonio della fede ricevuta; nell'enciclica era Dio amore, qui è Gesù di Nazaret, Figlio eterno e salvatore, di cui questa seconda parte dell'opera mette in luce la centralità del mistero pasquale. A lui siamo invitati a volgere con rinnovata attenzione lo sguardo (Guardare Cristo è il titolo di un corso di esercizi spirituali tenuto da Joseph Ratzinger nel 1986 e successivamente pubblicato da Jaca Book nel 1989), noi vescovi e presbiteri, i credenti tutti, voi cultori di studi in una università cattolica dal riferimento a Cristo fin nella denominazione.

A voi torna come compito il messaggio di quest'opera del Papa: da un pensiero fecondato dalla presenza di Cristo far nascere una cultura e una competenza scientifica capaci di rinnovare l'umano nell'orizzonte del suo ritrovato rapporto con Dio.
Questa seconda parte del Gesù di Nazaret ripercorre gli eventi degli ultimi giorni dell'esistenza terrena di Gesù fino alla risurrezione e all'ascensione seguendo passo passo il filo neotestamentario nei suoi molteplici intrecci interni e con l'Antico Testamento, attraverso una lettura penetrante che dal testo scende dentro gli eventi stessi e il loro significato. Una impressione fin dall'inizio si conferma nel lettore: nei particolari e nell'insieme, il testo scritturistico si illumina di una chiarezza che rende la spiegazione convincente e perfino appagante, perfettamente rispondente alle attese di intelligibilità. È l'effetto che suscita un opus rotundum, un'opera proporzionata e compiuta nella articolazione complessiva, nei contenuti e nella cura dei particolari.

Essa ci chiede innanzitutto di entrare sempre più profondamente nella contemplazione e nella assimilazione del mistero di Cristo, in una conoscenza amorosa e in una relazione d'amore intelligente con Lui così come ci viene presentato. In questo senso le due categorie che vengono introdotte per spiegare la lavanda dei piedi, e cioè sacramentum ed exemplum, assumono un valore paradigmatico in riferimento a tutto l'agire di Gesù Cristo nel suo mistero pasquale.
Ascoltiamo cosa scrive il Papa al riguardo: "Con sacramentum [i Padri] non intendono qui un determinato singolo sacramento, ma l'intero mistero di Cristo - della sua vita e della sua morte - nel quale Egli viene incontro a noi esseri umani, mediante il suo Spirito entra in noi e ci trasforma. Ma proprio perché questo sacramentum veramente "purifica" l'uomo, lo rinnova dal di dentro, esso diventa anche la dinamica di una nuova esistenza. La richiesta di fare ciò che ha fatto Gesù non è un'appendice morale al mistero (...). Questa richiesta deriva dalla dinamica intrinseca del dono, col quale il Signore ci rende uomini nuovi e ci accoglie in ciò che è suo. Questa [è la] dinamica essenziale del dono, per la quale Egli stesso ora opera in noi e il nostro operare diventa una cosa sola con il suo (...): l'agire di Gesù diventa nostro, perché è Lui stesso che agisce in noi" (II, p. 75).

Uno dei riflessi che viene spontaneo cogliere da questo rinnovato sguardo a Cristo è senza dubbio quello che risveglia l'appello alla responsabilità cristiana nel nostro tempo e, in essa, al nostro compito pastorale. Tra altri possibili, provo a evidenziare tre spunti in tal senso.
Innanzitutto la dimensione escatologica della vita cristiana, a partire dalla risurrezione che la dischiude, a proposito della quale leggiamo che "l'essenza della risurrezione sta proprio nel fatto che essa infrange la storia e inaugura una nuova dimensione" (II, p. 304). L'Ascensione di Gesù comporta che "mediante il battesimo, (...) nella nostra vera esistenza siamo già "lassù" (cfr. Colossesi, 3, 1 ss). Se ci inoltriamo nell'essenza della nostra esistenza cristiana, allora tocchiamo il Risorto: lì siamo pienamente noi stessi" (ibidem, p. 317). Questa condizione nuova conferisce un carattere peculiare all'attesa del ritorno del Signore in questo, che può essere qualificato come "tempo intermedio" (ibidem, p. 319). "Nella preghiera cristiana per il ritorno di Gesù è sempre contenuta anche l'esperienza della presenza. (...) Egli è adesso presso di noi" (ibidem, p. 320). Anzi bisogna parlare, con san Bernardo, di un adventus medius, di una venuta tra la prima e l'ultima, e quindi di una "escatologia del presente, [...poiché] il tempo intermedio non è vuoto (...). Questa presenza anticipatrice fa senz'altro parte dell'escatologia cristiana, dell'esistenza cristiana" (ibidem, p. 322). Ad essa può essere utilmente collegato il tema del tempo dei pagani come tempo della Chiesa, il cui preannuncio "e il compito da ciò derivante è un punto centrale del messaggio escatologico di Gesù" (ibidem, p. 56).

In un orizzonte escatologico così inteso, che ingloba il tempo dell'esistenza cristiana, si affacciano, tra gli altri, due compiti che il sacramentum e l'exemplum posti dal Cristo rendono possibili e richiedono. Il primo rimanda alla nostra dimensione personale ed emerge nella preghiera di Gesù nel Getsemani. Qui egli fa esperienza di quell'intimo conflitto tra volontà umana e volontà divina che affligge la condizione umana dopo il peccato. Ma egli supera in se stesso tale conflitto poiché la volontà della sua persona divina accoglie in sé la volontà della natura umana. "E questo è possibile senza distruzione dell'elemento essenzialmente umano perché, a partire dalla creazione, la volontà umana è orientata verso quella divina. Nell'aderire alla volontà divina la volontà umana trova il suo compimento e non la sua distruzione" (ibidem, p. 181). E anche se, dopo il peccato, l'orientamento alla cooperazione si è trasformato in opposizione, Gesù riporta l'uomo alla sua condizione originaria e alla sua grandezza. "L'ostinazione di tutti noi, l'intera opposizione contro Dio è presente e Gesù, lottando, trascina la natura recalcitrante in alto verso la sua vera essenza" (ibidem). La delineazione di un secondo compito scaturisce dal processo di Gesù e dalla motivazione della sua condanna a morte. Nel processo emerge infatti una preoccupazione politica all'origine del procedimento contro Gesù da parte di un'aristocrazia sacerdotale e dei farisei, congiunti in questa circostanza. Tale preoccupazione mostra, nondimeno, un misconoscimento di ciò che in Gesù era essenziale e nuovo: "Con il suo annuncio Gesù ha realizzato un distacco della dimensione religiosa da quella politica, un distacco che ha cambiato il mondo e che veramente appartiene all'essenza della sua nuova via" (ibidem., p. 191). Nello svolgimento dei fatti emerge un disegno divino che, oltre le motivazioni che hanno portato alla condanna a morte di Gesù, si compie servendosi di decisioni umane. In questo modo si mostra come solo attraverso la croce poteva avvenire la separazione di politica e fede.

Solo attraverso la perdita veramente assoluta di ogni potere esteriore, attraverso lo spogliamento radicale della croce, la novità diventava realtà. Solo mediante la fede nel Crocifisso, in Colui che è privato di ogni potere terreno e così innalzato, appare anche la nuova comunità, il nuovo modo in cui Dio domina nel mondo (ibidem., p. 193).
Di fronte a Pilato Gesù rivendica la sua regalità, ma secondo un concetto assolutamente nuovo, strutturalmente legato al potere della verità. Dio è misura dell'essere. In questo senso, la verità è il vero "re" che a tutte le cose dà la loro luce e la loro grandezza.



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13/04/2011 18:18
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!
Bestion., 13/04/2011 11.14:



QUARESIMA: tempo di C o n v e r s i o n e
Malizia del peccatore, bontà del Signore


Salmo (35)






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non bisogna avere paura di un Popolo che non ha Potere ma di chi detiene il Potere di Quel Popolo
anche perché la MORTE non accetta una lira
13/04/2011 21:58
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Comprensione
Gianfranco Ravasi

Quando in questo mondo un uomo ha qualcosa da dire, la difficoltà non sta nel fargliela dire, ma nell'impedirgli di dirla troppo spesso.

Giunti a una certa età (ma non solo), si cade nella ripetizione stucchevole: con pazienza l'interlocutore deve riascoltare una storia già sentita fingendo interesse.
Quand'anche si opponesse un timido tentativo di difesa, dichiarando di conoscere già quel fatto, l'altro continuerebbe a riproportelo, nella certezza del costante interesse del suo racconto.

A ricordarci questo rischio, in cui possiamo tutti incorrere, è George Bernard Shaw (1855-1950) nella sua opera teatrale Cesare e Cleopatra (1899). La sua frase ci permette di segnalare un vizio, non particolarmente grave ma indubbiamente fastidioso, quello dell'annoiare il prossimo. Lo si annoia con la propria petulanza, con le richieste, con le visite importune, con l'insistenza, con le chiacchiere e così via.

E' un difetto che ha molti padri e madri: l'egoismo, l'orgoglio, l'ignoranza, la prevaricazione, l'insipienza, la pedanteria. Pur avendo una capacità infinita d'amore e di comprensione, probabilmente anche Dio s'annoia per certe invocazioni destinate a fargli cambiare parere e a spingerlo a reggere il mondo e la storia in modo migliore, secondo le nostre attese. Ma a questo punto c'è una staffilata per tutti, anche per l'annoiato che crede di essere del tutto immune da questo vizio. Ancora una volta è il moralista francese del '600 La Rochefoucauld a ricordarcelo nelle sue Massime:

«Spesso perdoniamo coloro che ci annoiano, ma non riusciamo a perdonare coloro che noi annoiamo», se lo dimostrano.



Fonte -


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14/04/2011 15:46
 
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QUARESIMA: tempo di C o n v e r s i o n e



Il caso Giovanni Paolo II
Nella fama di santità di Papa Wojty sono presenti la considerazione dei fedeli e il riconoscimento dell'azione di Dio. La "innegabile e costante pressione dei fedeli e dei mass-media" sulla "sollecita conclusione" della causa per la beatificazione di Giovanni Paolo II "non ha disturbato il procedimento". Al contrario, "ha permesso di agire con aumentata attenzione nel vaglio delle testimonianze e degli eventi". È quanto sottolinea il cardinale prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi in un intervento - che pubblichiamo quasi integralmente - tenuto il 1° aprile scorso, vigilia del sesto anniversario della morte di Papa Wojty?a, presso la Pontificia Università della Santa Croce sul tema "Sensus fidei e beatificazioni. Il caso di Giovanni Paolo II".

Angelo Amato

La dinamicità del sensus fidei si attua e trova la sua legittimazione nell'ambito dell'intero corpo ecclesiale, incluso il magistero. C'è una innegabile e necessaria osmosi tra l'intuito della fede da parte dei fedeli e la sua maturazione e formazione da parte del magistero. Il sensus fidei cristiano e cattolico non è al di fuori o al di sopra della comunione ecclesiale, non è la forma fidei del soggetto non magisteriale della Chiesa, né una riappropriazione "dal basso" della fede cattolica. Appartiene, anzi, all'essenza della nozione teologica del sensus fidei il riconoscimento del magistero autorevole, come dono alla comprensione della verità e alla comunione nella Chiesa. Se, da una parte, il magistero della Chiesa ha bisogno dello stimolo, dell'esperienza e della testimonianza del sensus fidei dei fedeli, d'altro canto, anche il sensus fidelium ha bisogno del ministero di verità e di garanzia apostolica del magistero. Il sensus fidei unisce non divide, accomunando nell'unica coscienza di fede tutti i battezzati, qualunque sia il loro ufficio nella Chiesa. Il sensus fidei ha trovato in questi ultimi secoli alcune concretizzazioni nella promulgazione, per esempio, dei due dogmi mariani dell'Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria, nel 1854, e della sua gloriosa Assunzione, nel 1950. La secolare intuizione spirituale della Chiesa circa la verità dell'assenza di peccato originale in Maria e circa la sua glorificazione celeste in corpo e anima è stata confermata dal magistero solenne e infallibile del Papa.

Il sensus fidei è poi particolarmente presente nei processi di beatificazione e di canonizzazione. I fedeli, infatti, sono dotati dalla grazia divina di un'innegabile percezione spirituale nell'individuare e nel riconoscere nell'esistenza concreta di alcuni battezzati l'esercizio eroico delle virtù cristiane. La beata madre Teresa di Calcutta o san Pio da Pietrelcina, già in vita erano ammirati, seguiti e imitati per la loro santità. "Sono vissuti santamente", "Sono morti in concetto o in odore di santità" sono espressioni tipiche della coscienza di fede dei battezzati nei confronti di alcuni testimoni eminenti delle virtù della fede, della speranza e della carità. Nei processi di riconoscimento della vita santa dei fedeli il sensus fidei dà origine alla cosiddetta fama sanctitatis (o fama martyrii, per i martiri) e alla fama signorum. Non si può iniziare un processo se non si dà una diffusa, genuina e spontanea fama di santità.
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Stando a Papa Benedetto XIV (1740-1758), riconosciuto come il Magister in questo campo, la fama sanctitatis è l'opinione diffusa tra i fedeli sull'integrità di vita e sulla pratica delle virtù cristiane, esercitate in modo continuo e al di sopra del comune modo di operare degli altri buoni cristiani. Alla fama sanctitatis appartiene anche la fama signorum e cioè la convinzione di ottenere grazie e favori celesti, mediante l'invocazione e l'intercessione di un servo di Dio morto in concetto di santità.

Il Magister aggiunge due altre precisazioni. La prima chiarisce che si può parlare di fama sanctitatis, quando la vita e le azioni di un servo di Dio possono essere proposte ad altri come esempio da imitare. La seconda precisazione riguarda la diffusione di questa fama. Se essa esiste solo in una parte esigua e non nella maggior parte del popolo di Dio si dovrebbe parlare di diceria piuttosto che di fama ("non fama, sed rumor"). In ogni caso, la qualifica più importante del concetto di fama sanctitatis è l'eccellenza delle virtù vissute e percepite come tali dai fedeli. Ciò significa che il servo di Dio, vivendo eroicamente - e cioè in modo superiore alla comune bontà degli altri fedeli - suscita stupore, ammirazione, imitazione e incoraggiamento per richiedere la sua intercessione presso Dio Trinità. Non si tratta del riconoscimento dell'intelligenza di un battezzato nel campo della teologia o delle scienze umane o della sua azione caritativa. Né basta dire che si tratta di un "buon sacerdote" o di un "buon padre di famiglia". È indispensabile, invece, considerarlo più propriamente come un "santo sacerdote" o un "santo padre di famiglia". Si tratta di percepirlo come immagine di Cristo, come autentico interprete delle beatitudini evangeliche. Inoltre, non si deve valutare un singolo atto, anche significativo, di carità, ma un atteggiamento costante - un habitus - di carità, come espressione di una continua comunione di grazia con Dio Trinità.

La fama di santità deve essere spontanea e non causata da una propaganda esasperata. Tale spontaneità è segno della grazia dello Spirito Santo, che fa nascere nei cuori dei fedeli una particolare ammirazione verso un servo di Dio. A tale proposito, nel processo canonico, si raccolgono, soprattutto per la cause recenti, testimonianze preferibilmente de visu, che depongono a favore della fama sanctitatis motivandola con la personale conoscenza e narrazione di fatti, di detti, di comportamenti e di azioni particolarmente eloquenti del servo di Dio. È quindi necessario raccogliere le testimonianze di coloro che scientia propria hanno constatato l'esercizio eroico delle virtù da parte di un servo di Dio. La fama sanctitatis, o l'opinione comune che i fedeli hanno della santità di un servo di Dio, è solo il primo passo, anche se indispensabile, per iniziare un processo di beatificazione. Di per sé, da sola, la fama sanctitatis non dice ancora che si tratta di effettiva santità. A scanso di errori, la sua autenticità sarà vagliata ed eventualmente riconosciuta nel corso di un lungo e articolato iter, sia in sede di inchiesta diocesana, sia in sede di procedimento romano, che prevede l'intervento di storici, teologi e pastori della Chiesa.

Come si vede, la fama sanctitatis non proviene primariamente dalla gerarchia ma dai fedeli. È il popolo di Dio, nelle sue diverse componenti, il protagonista della fama sanctitatis. In questo campo la vox populi è di fondamentale importanza. La fama sanctitatis è un fenomeno storico-sociologico ed ecclesiale concreto, che germina spontaneamente nel popolo di Dio. È un dato non provocato intenzionalmente, ma sorto "al di fuori" del servo di Dio, causato dalla sua vita e dalle sue opere sante. La fama sanctitatis, per esempio, si manifesta nella visita alla tomba del servo di Dio, nella preghiera personale e comunitaria - non liturgica - a lui indirizzata, nella diffusione delle sue biografie e dei suoi scritti. In conclusione, nel corso di un processo di beatificazione, c'è anzitutto una vox populi, che esprime la venerazione verso persone che sono vissute e morte santamente. Spesso questa vox populi è accompagnata anche dalla vox Dei e cioè da quelle grazie, favori celesti e anche veri e propri miracoli, ottenuti per intercessione di un servo di Dio. Infine, c'è la vox Ecclesiae che, dopo aver esaminato e valutato positivamente sia l'eroicità delle virtù sia l'autenticità del miracolo, procede alla beatificazione e poi alla canonizzazione.

Questo concetto teologico pieno di sensus fidei, inteso sia come fama sanctitatis sia come fama signorum, è emerso prepotentemente nel caso della preparazione del processo di beatificazione di Giovanni Paolo II. Da una parte, infatti, a partire dal giorno della morte, il 2 aprile del 2005, il popolo di Dio ha subito gridato alla santità del Papa defunto. Dopo le esequie solenni, quando la salma del Papa veniva portata nelle grotte vaticane, in piazza San Pietro si innalzarono spontanei alcuni striscioni con la scritta "Santo Subito", accolti prontamente e con entusiasmo dalla folla, che ne iniziò a scandire il grido. "Santo Subito" esprimeva il sentimento diffuso tra i fedeli di tutto il mondo.
I pastori della Chiesa furono pronti a raccogliere con gioia e immediatezza questa invocazione spontanea. Il 3 maggio 2005, il vicario di Roma, il cardinale Camillo Ruini, presentò al cardinale José Saraiva Martins, allora prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, la richiesta della diocesi di Roma di costituirsi attore della causa di beatificazione e canonizzazione del Pontefice, aggiungendo anche la domanda di dispensa ex toto dal termine stabilito di cinque anni dalla morte per l'apertura dell'inchiesta diocesana. Il 9 maggio 2005, il neo eletto Papa Benedetto XVI accolse benevolmente la richiesta di dispensa. Qualche giorno dopo, il 13 maggio, durante l'incontro col clero romano nella basilica Lateranense, lo stesso Pontefice ne diede notizia, che fu accolta dall'assemblea con un fragoroso applauso.
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Fu l'inizio di un iter che, ponendosi in una corsia preferenziale, sgombra cioè da ostacoli di altri processi, ha avuto uno svolgimento sollecito, ma condotto con estrema accuratezza e professionalità. L'invocazione del popolo di Dio era stata raccolta, ma la millenaria prudenza della Chiesa suggeriva di obbedire meticolosamente alle norme emanate dallo stesso Giovanni Paolo II nel 1983, con la costituzione apostolica Divinus perfectionis magister. "Santo Subito" sì, ma soprattutto "Santo sicuro". Un'incauta frettolosità non doveva pregiudicare l'accuratezza del procedimento.

Il vicariato di Roma, quindi, si assunse il compito di accertare l'esistenza della fama di santità e cioè dell'opinione diffusa tra i fedeli circa la purità e l'integrità del servo di Dio Giovanni Paolo II e circa le virtù da lui praticate in grado eroico. Si dimostrò, inoltre, che tale fama non era procurata artificiosamente, ma era spontanea, stabile, molto diffusa tra persone degne di fede e presente nella quasi totalità del popolo di Dio. Certificò anche la fama dei segni e cioè l'opinione corrente tra i fedeli circa le grazie e i favori ricevuti da Dio mediante l'intercessione del servo di Dio. Del resto, per un riscontro empirico della fama sanctitatis et signorum di Papa Giovanni Paolo II, è sufficiente sostare un poco in piazza San Pietro, in qualsiasi giorno dell'anno, per vedere la fila interminabile di fedeli che si recano in pellegrinaggio alla sua tomba nelle grotte vaticane. Ciò a confermare che la sua fama di santità è una communis opinio, e cioè un'opinione diffusa tra i fedeli nei confronti della bontà di un servo di Dio, testimone eroico ed esemplare della sequela Christi.

Nella fama di santità di Giovanni Paolo II vediamo presenti chiaramente le due dimensioni che la costituiscono: quella dal basso, che proviene dalla considerazione che i fedeli hanno della straordinarietà delle sue virtù; e quella dall'alto, che consiste nella grazia di Dio, che rende possibile l'esercizio eroico delle virtù teologali della fede, della speranza e della carità. La sua santità è, infatti, frutto sia della grazia sia dell'impegno umano nella assidua scelta del bene.
La corposa Positio in più volumi, preparata dalla postulazione e curata dalla Congregazione delle Cause dei Santi, contiene una biografia critica e documentata, l'esposizione dell'eroicità delle singole virtù teologali e cardinali, la dimostrazione della sua fama di santità, gli interrogatori dei testimoni. La fama di santità e di segni di Giovanni Paolo II è provata da moltissimi testimoni de visu, dalla venerazione della tomba, dalle segnalazioni di favori spirituali e materiali ricevuti, dalle invocazioni e dalle preghiere a lui elevate, e, infine, da veri e propri eventi straordinari, i quali costituiscono una testimonianza e una conferma "dall'alto" di tale fama.

Il vaglio delle testimonianze è stato particolarmente delicato e ha meritato un attento discernimento. Un elemento, per esempio, della fama di santità di un servo di Dio è la sua ortodossia cattolica, soprattutto in materia di fede e di morale, che deve essere presente nelle sue parole, nei suoi atteggiamenti, nei suoi scritti. Da questo punto di vista il magistero di Papa Giovanni Paolo II costituisce un capitolo di notevole importanza per la fede cattolica, per la trattazione illuminante che egli fa dei più rilevanti problemi che incontra la proclamazione attuale del Vangelo. Il suo magistero, infatti, costituisce un ricchissimo patrimonio di inculturazione del Vangelo nel mondo contemporaneo.
I testimoni convocati hanno motivato l'eroismo delle sue virtù teologali, della fede, della speranza e della carità. Tale eroicità conferisce al Pontefice una perfezione che supera le forze della natura umana, a significare che le virtù non sono solo sforzo umano ma dono di grazia di Dio e conseguenza della sua efficacia nel cuore di chi non oppone ostacoli, ma anzi collabora con essa.
L'esame delle virtù, compiuti in vari passaggi dai teologi e poi dai padri della Congregazione delle Cause dei Santi, si concluse, il 19 dicembre 2009, con l'autorizzazione del Santo Padre Benedetto XVI alla promulgazione del decreto sull'eroicità delle virtù. Da quel momento Giovanni Paolo II fu dichiarato venerabile. Ma il momento culmine della sua fama di santità è stato il sigillo divino del miracolo. Per Papa Giovanni Paolo II la postulazione presentò il caso della guarigione di una religiosa francese, suor Marie Simon Pierre Normand, nata a Cambrai nel 1961. Nel 1981 ottenne il diploma di ausiliaria puericultrice. Fu in seguito accolta fra le Piccole sorelle della maternità cattolica, emettendo la professione dei voti il 6 agosto 1985. Nel 1988, durante l'esame per il brevetto di "primo soccorso", avvertì che la mano sinistra tremava - è mancina. Attribuì l'episodio all'emozione del momento. Nel 1990 incominciò a notare stanchezza e dimagrimento e per un anno interruppe gli studi infermieristici. Li riprese nel maggio 1991, ottenendo il diploma di infermiera nel 1992. Nel suo lavoro a poco a poco avvertì forti disturbi e dolori sia alla mano sinistra sia alla gamba, con difficoltà di scrittura e di deambulazione. Il neurologo, che la visitò nell'agosto del 2001, emise la diagnosi di sindrome parkinsoniana a prevalente espressione sinistra, ovvero di parkinson giovanile. Visitata da specialisti, le fu riservato un trattamento antiparkinsoniano, che produsse un lieve ma temporaneo miglioramento della sintomatologia. La malattia ebbe, però, subito una recrudescenza, per cui la paziente fu visitata da un illustre neurologo, che confermò la diagnosi parkinsoniana. Tuttavia, la malata continuava ad aggravarsi. Finalmente, il primo pomeriggio del 2 giugno 2005, l'inferma chiese alla madre generale, in visita canonica, di essere esonerata, per impossibilità fisica, dall'ufficio. La madre la esortò a resistere, sperando nell'aiuto del defunto Pontefice. A tal proposito pregò e fece pregare. Quella sera la suora si addormentò e riposò tranquilla fino all'alba. Al risveglio, con sua grande sorpresa, non avvertiva più né dolori né irrigidimenti. Si sentiva guarita. Sospese la terapia farmacologica antiparkinsoniana e il 7 giugno si recò dal neurologo, che l'aveva seguita da anni. Il medico constatò la scomparsa di tutti i sintomi del morbo, confermando altre due volte le buone condizioni della paziente, il 15 luglio e il 30 novembre 2005. Altri specialisti riconobbero, inoltre, che la religiosa era esente da ogni patologia psichiatrica e da ogni tendenza di tipo affabulatorio o dissimulatorio. La storia clinica della paziente e numerosi esami successivi confermaronono la natura fisica della sintomatologia.
Per quanto riguarda l'aspetto teologico, e cioè la valutazione dei tempi e delle modalità della richiesta di intercessione al servo di Dio, è stato accertato che le consorelle della sanata, invitate della madre generale, avevano cominciato a invocare l'aiuto del Papa "santo" già a maggio del 2005, intensificando la preghiera la sera del 2 giugno 2005. E proprio il mattino del giorno dopo, suor Marie Simon Pierre si sentì del tutto guarita.

Dopo il meticoloso esame scientifico dell'evento e dopo aver constatato che l'invocazione univoca al servo di Dio aveva preceduto la guarigione improvvisa e duratura della suora, il Santo Padre Benedetto XVI autorizzò la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il decreto sul miracolo, il 14 gennaio 2011.
Così il diffuso sensus fidei circa la fama sanctitatis et signorum di Papa Giovanni Paolo II è stato ufficialmente legittimato dal magistero, dopo un accurato processo di verifica. Lo stesso giorno, 14 gennaio, fu anche resa nota la data della solenne beatificazione, 1° maggio 2011, in piazza San Pietro. La innegabile e costante pressione dei fedeli e dei mass-media sulla sollecita conclusione della causa - contrariamente a quanto si possa pensare - non ne ha disturbato il procedimento. Anzi ha permesso di agire con aumentata attenzione nel vaglio delle testimonianze e degli eventi. È così che la Chiesa "santa" cerca di raggiungere l'indispensabile certezza morale su eventi e persone, che rendono splendente il suo volto di Sposa di Cristo, il tutto santo.

La beatificazione di Giovanni Paolo II apre la porta alla sua canonizzazione, che, come si sa, esige un ulteriore intervento dall'alto. Ovviamente il processo sul miracolo per la canonizzazione avrà bisogno di tempo. Ma non si deve considerare tempo vuoto il periodo che va dalla beatificazione alla canonizzazione. Si tratta, invece, di un tempo pieno, durante il quale i fedeli sono invitati a conoscere meglio la vita santa del beato e a imitarne le virtù. È cioè un tempo propizio, per ricordare a tutti le promesse battesimali e per confermare la fedeltà a Cristo e al suo Vangelo di verità e di vita, sull'esempio e a imitazione di Papa Giovanni Paolo II.



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Bestion., 14/04/2011 15.46:



Il caso Giovanni Paolo II






[SM=x44599] toh!!!!!! frateli e sorele e l'anielo si effettivamente penso che rimarra inciso nella carne di molti [SM=x44600] [SM=x44600] [SM=x44598] chiaramente supposizioni [SM=x44606] [SM=x44606]

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non bisogna avere paura di un Popolo che non ha Potere ma di chi detiene il Potere di Quel Popolo
anche perché la MORTE non accetta una lira
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QUARESIMA: tempo di C o n v e r s i o n e
«Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto,
poiché aveva molti beni»

(Mc 10, 22)


“Gesù e il giovane ricco" - Heinrich Hofmann (1889) - Riverside Church di New York

«Gesù non è solo portatore della gioia e della "vita buona", ma
la sua è innanzitutto una vita contenta di esistere e una vita ben vissuta.
Senza questa convinzione potrebbe prevalere la proclamazione di una
pienezza di vita della quale gli stessi annunciatori sono i primi a
diffidare, incapaci di tenere in unità ciò che in Gesù si salda
e armonizza: l'umano e il divino.»


La provocazione di Gesù
a credenti e non credenti

Ugo Sartorio

"Si dà spesso troppo poca importanza alla ricerca del Dio che Gesù ha predicato. Si crede di sapere ormai anche senza Gesù chi sia Dio e che cosa esiga dall'uomo": questa constatazione, fatta più di quarant'anni fa dal teologo J.F. Schierse, toglie ogni dubbio sulla legittimità d'introdurre e illustrare la figura di Gesù qualora si intenda entrare in dialogo con i non credenti. Non solo. Gesù Cristo è spesso e volentieri sconosciuto tra i suoi, in casa propria, e la recita a ritmo di marcia del Credo domenicale non garantisce adesione piena e consapevole a verità per altro non facili da comprendere. Eppure Gesù è del cristianesimo il fondatore e il fondamento, e la sua vicenda terrena va letta e riletta per carpire lo stile di Dio, per entrare in sintonia con il suo mistero di trascendenza e condiscendenza, per guardare volti, cose, vicende terrene, contraddizioni e slanci dell'umano con gli occhi stessi dell'Eterno. Ha ragione don Armando quando avvisa il lettore che "due occhi non bastano", perché troppo facilmente il nostro sguardo si arrende di fronte al labirinto sempre più impressionante della complessità, e non riuscendo a reggerla imbocca scorciatoie, finendo col vedere quello che tutti vedono: idoli piccoli e grandi che si lasciano apparentemente addomesticare infondendo false sicurezze; basta allungare la mano e per un po' la novità - non raramente high tech - anestetizza la fame di vita.

"Il cristianesimo è la religione che parte da e torna sempre daccapo a Gesù", sostiene don Armando cogliendo la necessità e l'urgenza di baricentrare la vita cristiana e di offrirne a quelli di fuori una visione meno dispersiva e depressiva, nel senso di un genericismo che fa rima con buonismo e di un'insistenza sul negativo - i ripetuti "no" della Chiesa - che qualcuno legge come spietata diffida nei confronti dell'umano e volontà di potenza. Partire da Gesù e a lui tornare sarebbe a dir poco sconvolgente a fronte di una situazione, come quella di oggi, di omologazione trasversale: "Non è vero che tutti i membri della Chiesa, tutti i cristiani battezzati, vivono la loro esistenza come l'ha vissuta Gesù Cristo - annota il teologo milanese Giuseppe Colombo -. È vero il contrario; e il contrasto è evidente e clamoroso. Oggi il modello di vita dei cristiani non è quello fornito da Gesù Cristo, ma generalmente quello imposto dalla cultura ambientale, che omologa tendenzialmente cristiani e non-cristiani nelle medesime forme e nel medesimo stile di vita". Accettando come vera questa disincantata analisi, non vi è che da prenderne stimolo per individuare percorsi in grado di rivitalizzare il discorso su Gesù, senza piegarlo subito a corrispondenze troppo facili - sia consolatorie che meritorie o miracolistiche - e mettendolo al sicuro da strumentalizzazioni anche raffinate: se, infatti, veniamo da tempi nei quali l'affermazione "Cristo sì, Chiesa no" ci lusingava nella prima parte e come cristiani ci spingeva a fare meglio nella seconda, oggi c'è chi afferma "Cristo no, Chiesa sì", posizione sospetta anche solo nella formulazione, visto che ogni cortocircuito del linguaggio è preludio di poco chiare conclusioni.

Per parlare di Gesù a credenti e non, l'autore sceglie un leitmotiv intrigante, vale a dire la presentazione del Figlio come uomo "infinitamente contento di stare al mondo". Togliendo ogni dubbio sul fatto che la fede, la vita vissuta al cospetto di Dio, sia una sorta di "dopo lavoro dell'esistenza", quasi un suo doppione, fatto di culto dovuto, riti e opere buone, collocato in parallelo alla vita vera - insomma uno dei retro-mondi, esangui e malati, di cui parla Bonhoeffer. Inoltre, quella di Gesù è un'amabilità che attesta come l'uomo è sotto la benedizione divina che ripete per ognuno la formula originaria della creazione: "Tu sei buono!". Per cui l'amabilità di sé, che oggi i più faticano a recuperare e che vanno cercando in molte direzioni (dal wellness fatto religione - che mette insieme well being e fitness - alla chirurgia estetica estrema, dal viaggiare compulsivo e cosmopolita ai tradizionali percorsi psicanalitici) ha radici in cielo e in Cristo attestazione e concreta visibilizzazione. "L'intera vicenda di Gesù - troviamo a circa metà del libro - può essere riletta alla luce del suo tentativo di riattivare l'autorizzazione ad amarsi in ogni uomo e in ogni donna che ha incontrato. E non ha lasciato fuori nessuna possibilità dell'umano: il peccatore, il malato, il ricco, il povero, il potente, il ferito, l'uomo in ricerca, lo straniero. Nessun umano è a-teo, cioè privo di quella benedizione divina che autorizza la benedizione di sé".
C'è da dire che quello della gioia, quindi della vita piena e buona, è un tema che la Chiesa italiana ha lanciato come cifra del nuovo decennio pastorale, consapevole che su questo punto si giocano le chances di un cristianesimo in evidente contrazione più qualitativa che numerica. Gesù non è solo portatore della gioia e della "vita buona", ma la sua è innanzitutto una vita contenta di esistere e una vita ben vissuta. Senza questa convinzione potrebbe prevalere la proclamazione di una pienezza di vita della quale gli stessi annunciatori sono i primi a diffidare, incapaci di tenere in unità ciò che in Gesù si salda e armonizza: l'umano e il divino. Mentre ogni evangelizzazione non può che scaturire - come dice ancora Giuseppe Colombo - dal riferimento all'esistenza umana "felice" di Gesù, alla Chiesa come ""luogo" nel quale l'esistenza umana ha la possibilità di essere vissuta nel modo più felice". Pretesa facile da contestare, non si può che ammetterlo, senza che questo induca a escludere la messa a frutto del fattore "possibilità", di cui nella Chiesa non mancano preclari esempi.
Tutto questo gran parlare di gioia, vita buona, pienezza, rimanda spontaneamente a considerare i tempi anche lunghi in cui la vita è segnata dallo smacco e dal fallimento, abbrutita dal male morale e fisico, schiacciata nell'angolo dal vuoto e dal non senso. Inutile nascondersi il fatto che l'esistenza umana, che pure ha spalle forti, è accerchiata d'ogni parte dalla contingenza. Ora, scrive il teologo domenicano Edward Schillebeeckx, "l'esperienza della contingenza umana può portare a Dio come a negarlo, a non sentirlo affatto. Sia il teismo che l'ateismo non possono essere provati. Appartengono all'esperienza interpretativa della realtà. Mi rifiuto di dire che gli atei non credono e che solo i membri di una religione sono credenti. Tutti sono credenti, ma la credenza ha un altro contenuto. C'è chi coglie attraverso l'esperienza della contingenza la gratuità di Dio e c'è chi nella contingenza fa l'esperienza del nulla, del vuoto. L'esperienza della contingenza pone l'uomo di fronte alla scelta: o la fede nella gratuità di Dio o il rifiuto di un Dio, che tace".
Questo sfondo propizia una delle domande più serrate nei confronti del cristianesimo di ieri e di oggi: questi ha saputo e sa accompagnare gli uomini nell'affrontamento dell'esperienza del dolore e della croce? Oppure la croce e una certa retorica che ne consegue hanno prevalso sul Crocifisso, sulla proclamazione di una totale fedeltà a Dio e al bene degli uomini che per coerenza non ha potuto sottrarsi alla via crucis che attende al varco ogni amore per inverarlo? L'autore è chiaro sul fatto che non la croce rende grande Gesù, ma anzi che quest'ultimo riscatta infine - ed è il passaggio esistenzialmente e teologicamente più duro - la croce stessa. Non la addomestica né la subisce: la sua è una consegna nella libertà, che perciò smaschera ogni processo troppo umano di vittimizzazione e ogni giustificazione doloristica della sofferenza.
"La croce di Gesù - attualizza don Armando - non è dunque una sorta di pedaggio necessario per la sua risurrezione o per la salvezza dei peccati del mondo. È rivelazione! Non guarda a un passato remoto, da cui deve liberarci, ma punta a un futuro possibile, per il quale ci rende liberi e disponibili: è l'incrocio da cui passa il possibile avvenire dell'umanità e la possibile umanità dell'avvenire". La croce che tiene inchiodati al passato, che alimenta barriere e prigioni, che non libera energie vitali, che non apre futuro, non è la croce di Cristo.

Il terzo e ultimo capitolo del libro è dedicato alla verità. Mai tema è stato più controverso, trasformandosi ai nostri giorni in materia di accalorati duelli - anche la parola può farsi randello - tra laici e credenti: solo ammettendo che l'uomo è destinato alla verità la fede cristiana sta in piedi, pensano i cristiani; solo riconoscendo i cedimenti della fede che portano alla sua contraffazione - quando il Vangelo si irrigidisce in dottrina, l'etica diventa un prontuario di regole, l'appartenenza alla Chiesa scade in lobby - si può cominciare a dialogare seriamente, pensano i laici. L'autore, che non ama le contrapposizioni, ancor meno quelle semplicistiche, conduce il lettore a compiere un viaggio per recuperare alla radice il senso della categoria di verità, da intendere sempre in modo analogico. Il sostantivo verità e l'aggettivo vero hanno significati disomogenei a seconda dell'ambito del sapere in cui sono utilizzati: scienza, filosofia, storia, arte, poesia, teologia, letteratura hanno a che fare con la verità a titolo diverso. Per cui è bene essere avvertiti del fatto che ogni volontà d'affermazione in termini assoluti della verità rischia il più delle volte di essere una sua pacchiana mistificazione.
Ma voglio chiudere questa breve introduzione, che con gentilezza - atteggiamento di casa nel "cortile dei gentili" - don Armando mi ha richiesto il 31 dicembre 2010 come regalo per l'anno nuovo, con una considerazione. È di Dostoevskij la frase che dice: "Meglio essere nell'errore con Cristo che nella verità senza Cristo". Evidente l'utilizzo magistrale del paradosso, anche se per gusti e attitudini personali la mia preferenza va al convergere di Cristo e verità, senza costrizioni e forzature. Come noterete, anche don Armando predilige, nelle pagine del libro, detta convergenza. Che per questo mi abbia affidato di accordare fin dall'inizio la tonalità del discorso?



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15/04/2011 14:44
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


L'ospedale
Gianfranco Ravasi

Ormai, l'ospedale è il tempio/ in cui mi dai appuntamento./ Lì, so che mi aspetti, e io ho soltanto/ da lasciarmi amare-/ So che lì è oggi il luogo privilegiato/ in cui Tu mi attendi, con il Tuo Amore.

Dedico questo "Mattutino" a tutta quella folla di persone che abitano negli ospedali, sia come degenti sia come curanti. Lo faccio attraverso la testimonianza di una di loro, malata di cancro con metastasi ossea, una belga vissuta per anni a Pavia come docente in quell'università, Bernadette Béarez Caravaggi, testimonianza presente nel suo libretto Dalla soglia della sofferenza (ed. Servitium).
In essa brilla l'intuizione che l'ospedale possa trasformarsi in un tempio in cui Dio si rivela e ci attende. Attende il malato per un'esperienza misteriosa che può diventare esaltante e liberante.

Un'esperienza ardua che può avere anche un approdo estremo, vissuto però senza disperazione ma con fiducia: «E' nata insieme a me/ e cresce con me,/ mi segue ovunque,/ fedele come un'ombra./ Talvolta l'intravedo/ e sento la sua presenza/ tanto vicina, che mi sfiora./ Mi è familiare: è mia sorella,/ è la morte». Ma l'ospedale è un tempio anche per medici e infermieri: dovrebbe, infatti, essere per loro il luogo dell'amore, della consolazione, della speranza che essi seminano nel corpo e nel cuore dei pazienti.

Certo, l'oscurità del dolore può essere un inferno, ma è sempre possibile farvi sbocciare un fiore di luce e piantarvi la croce di Cristo.



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perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti e di sole????
Bestion., 15/04/2011 13.39:



«Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto,
poiché aveva molti beni»

(Mc 10, 22)






[SM=x44599] di fatti gli ha dato l'anielo [SM=x44598] [SM=x44600] [SM=x44600] [SM=x44600] [SM=x44600]

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PASQUA: tempo di S a l v e z z a
«Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà;
chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno»

(Gv 11, 25-26)


“La Resurrezione di Lazzaro" - Vincent Van Gogh (1890) - Amsterdam Rijksmuseum

«Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va
disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo,
leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata
ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili,
ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento,
quelle invisibili sono eterne»

(san Paolo di Tarso)


Il senso della Pasqua
per chi non crede

Carlo Maria Martini

Mentre il Natale suscita istintivamente l’immagine di chi si slancia con gioia (e anche pieno di salute) nella vita, la Pasqua è collegata a rappresentazioni più complesse. È la vicenda di una vita passata attraverso la sofferenza e la morte, di un’esistenza ridonata a chi l’aveva perduta. Perciò, se il Natale suscita un po’ in tutte le latitudini (anche presso i non cristiani e i non credenti) un’atmosfera di letizia e quasi di spensierata gaiezza, la Pasqua rimane un mistero più nascosto e difficile. Ma tutta la nostra esistenza, al di là di una facile retorica, si gioca prevalentemente sul terreno dell’oscuro e del difficile. Penso soprattutto, in questo momento, ai malati, a coloro che soffrono sotto il peso di diagnosi infauste, a coloro che non sanno a chi comunicare la loro angoscia, e anche a tutti quelli per cui vale il detto antico, icastico e quasi intraducibile, senectus ipsa morbus, «la vecchiaia è per sua natura una malattia». Penso insomma a tutti coloro che sentono nella carne, nella psiche o nello spirito lo stigma della debolezza e della fragilità umana: essi sono probabilmente la maggioranza degli uomini e delle donne di questo mondo.

Per questo vorrei che la Pasqua fosse sentita soprattutto come un invito alla speranza anche per i sofferenti, per le persone anziane, per tutti coloro che sono curvi sotto i pesi della vita, per tutti gli esclusi dai circuiti della cultura predominante, che è (ingannevolmente) quella dello «star bene» come principio assoluto. Vorrei che il saluto e il grido che i nostri fratelli dell’Oriente si scambiano in questi giorni, «Cristo è risorto, Cristo è veramente risorto», percorresse le corsie degli ospedali, entrasse nelle camere dei malati, nelle celle delle prigioni; vorrei che suscitasse un sorriso di speranza anche in coloro che si trovano nelle sale di attesa per le complicate analisi richieste dalla medicina di oggi, dove spesso si incontrano volti tesi, persone che cercano di nascondere il nervosismo che le agita.

La domanda che mi faccio è: che cosa dice oggi a me, anziano, un po’ debilitato nelle forze, ormai in lista di chiamata per un passaggio inevitabile, la Pasqua? E che cosa potrebbe dire anche a chi non condivide la mia fede e la mia speranza? Anzitutto la Pasqua mi dice che «le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi» (Rom 8,18). Queste sofferenze sono in primo luogo quelle del Cristo nella sua Passione, per le quali sarebbe difficile trovare una causa o una ragione se non si guardasse oltre il muro della morte. Ma ci sono anche tutte le sofferenze personali o collettive che gravano sull’umanità, causate o dalla cecità della natura o dalla cattiveria o negligenza degli uomini.

Bisogna ripetersi con audacia, vincendo la resistenza interiore, che non c’è proporzione tra quanto ci tocca soffrire e quanto attendiamo con fiducia. In occasione della Pasqua vorrei poter dire a me stesso con fede le parole di Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi: «Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne».

Tutto questo richiede una grande tensione di speranza. Perché, come dice ancora san Paolo, «nella speranza noi siamo salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza» (Rom 8,24). Sperare così può essere difficile, ma non vedo altra via di uscita dai mali di questo mondo, a meno che non si voglia nascondere il volto nella sabbia e non voler vedere o pensare nulla. Più difficile è però per me esprimere che cosa può dire la Pasqua a chi non partecipa della mia fede ed è curvo sotto i pesi della vita. In questo mi vengono in aiuto persone che ho incontrato e in cui ho sentito come una scaturigine misteriosa, che le aiuta a guardare in faccia la sofferenza e la morte anche senza potersi dare ragione di ciò che seguirà. Vedo così che c’è dentro tutti noi qualcosa di quello che san Paolo chiama «speranza contro ogni speranza» (Lettera ai Romani, 4,18), cioè una volontà e un coraggio di andare avanti malgrado tutto, anche se non si è capito il senso di quanto è avvenuto.

È così che molti uomini hanno dato prova di una capacità di ripresa che ha del miracoloso. Si pensi a tutto quanto è stato fatto con indomita energia dopo lo tsunami del 26 dicembre 2004 o dopo l’inondazione di New Orleans provocata dall’uragano Katrina nell’agosto successivo. Si pensi alle energie di ricostruzione che sorgono come dal nulla dopo la tempesta delle guerre. Si pensi alle parole che la ventottenne Etty Hillesum scrisse il 3 luglio 1942, prima di essere portata a morire ad Auschwitz: «Io guardavo in faccia la nostra distruzione imminente, la nostra prevedibile miserabile fine, che si manifestava già in molti momenti ordinari della nostra vita quotidiana.

È questa possibilità che io ho incorporato nella percezione della mia vita, senza sperimentare quale conseguenza una diminuzione della mia vitalità. La possibilità della morte è una presenza assoluta nella mia vita, e a causa di ciò la mia vita ha acquistato una nuova dimensione». Per queste cose non ci si può affidare alla scienza, se non per chiederle qualche strumento tecnico: al massimo essa permette un debole prolungamento dei nostri giorni. L’interrogativo è invece sul senso di quanto sta avvenendo e più ancora sull’amore che è dato di cogliere anche in simili frangenti. C’è qualcuno che mi ama talmente da farmi sentire pieno di vita persino nella debolezza, che mi dice «io sono la vita, la vita per sempre».

O almeno c’è qualcuno al quale posso dedicare i miei giorni, anche quando mi sembra che tutto sia perduto. È così che la risurrezione entra nell’esperienza quotidiana di tutti i sofferenti, in particolare dei malati e degli anziani, dando loro la possibilità di produrre ancora frutti abbondanti a dispetto delle forze che vengono meno e della debolezza che li assale. La vita nella Pasqua si mostra più forte della morte ed è così che tutti ci auguriamo di coglierla.



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perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti e di sole?????
Bestion., 15/04/2011 16.48:


PASQUA: tempo di S a l v e z z a
«Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà;
chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno»






[SM=x44607] non ce ne vorra' mica uno......?????????? [SM=x44607] [SM=x44608] [SM=x44606]

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Re: ... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!
Bestion., 15/04/2011 16.48:



« Le cose visibili sono d’un momento,
quelle invisibili sono eterne»

(san Paolo di Tarso)







[SM=x44599] questa mi piace [SM=x44603] [SM=x44604] si parla di cose sensate [SM=x44603] [SM=x44604] dal mio punto di vista di uomini di D_O

non trovi bestion che sia l'ora della preghiera [SM=x44599] [SM=x44597]
san boss (ora pro nobis) san dittatore (ora pro nobis) san sola (ora pro nobis) san prete (ora pro nobis) san uomo/donna qualunque (ora pro nobis) san comunista (ora pro nobis)et cetera et cetera ......... [SM=x44606] [SM=x44606] [SM=x44606]
mah!!!! sara' cosi' [SM=x44598] [SM=x44600]

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15/04/2011 23:10
 
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perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti e di sole???????
[SM=x44613] [SM=x44613] bestion te che conosci bene il libro [SM=x44641] [SM=x44641] non vorrei bestemmiare non capisco "il lupo dimorera' con l'agnello" [SM=x44606] [SM=x44606]


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PASQUA: tempo di S a l v e z z a
«Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà;
chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno»

(Gv 11, 25-26)


“La Resurrezione di Lazzaro" - Vincent Van Gogh (1890) - Amsterdam Rijksmuseum

«Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va
disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo,
leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata
ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili,
ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento,
quelle invisibili sono eterne»

(san Paolo di Tarso)


Il senso della Pasqua
per chi non crede

Carlo Maria Martini

Mentre il Natale suscita istintivamente l’immagine di chi si slancia con gioia (e anche pieno di salute) nella vita, la Pasqua è collegata a rappresentazioni più complesse. È la vicenda di una vita passata attraverso la sofferenza e la morte, di un’esistenza ridonata a chi l’aveva perduta. Perciò, se il Natale suscita un po’ in tutte le latitudini (anche presso i non cristiani e i non credenti) un’atmosfera di letizia e quasi di spensierata gaiezza, la Pasqua rimane un mistero più nascosto e difficile. Ma tutta la nostra esistenza, al di là di una facile retorica, si gioca prevalentemente sul terreno dell’oscuro e del difficile. Penso soprattutto, in questo momento, ai malati, a coloro che soffrono sotto il peso di diagnosi infauste, a coloro che non sanno a chi comunicare la loro angoscia, e anche a tutti quelli per cui vale il detto antico, icastico e quasi intraducibile, senectus ipsa morbus, «la vecchiaia è per sua natura una malattia». Penso insomma a tutti coloro che sentono nella carne, nella psiche o nello spirito lo stigma della debolezza e della fragilità umana: essi sono probabilmente la maggioranza degli uomini e delle donne di questo mondo.

Per questo vorrei che la Pasqua fosse sentita soprattutto come un invito alla speranza anche per i sofferenti, per le persone anziane, per tutti coloro che sono curvi sotto i pesi della vita, per tutti gli esclusi dai circuiti della cultura predominante, che è (ingannevolmente) quella dello «star bene» come principio assoluto. Vorrei che il saluto e il grido che i nostri fratelli dell’Oriente si scambiano in questi giorni, «Cristo è risorto, Cristo è veramente risorto», percorresse le corsie degli ospedali, entrasse nelle camere dei malati, nelle celle delle prigioni; vorrei che suscitasse un sorriso di speranza anche in coloro che si trovano nelle sale di attesa per le complicate analisi richieste dalla medicina di oggi, dove spesso si incontrano volti tesi, persone che cercano di nascondere il nervosismo che le agita.

La domanda che mi faccio è: che cosa dice oggi a me, anziano, un po’ debilitato nelle forze, ormai in lista di chiamata per un passaggio inevitabile, la Pasqua? E che cosa potrebbe dire anche a chi non condivide la mia fede e la mia speranza? Anzitutto la Pasqua mi dice che «le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi» (Rom 8,18). Queste sofferenze sono in primo luogo quelle del Cristo nella sua Passione, per le quali sarebbe difficile trovare una causa o una ragione se non si guardasse oltre il muro della morte. Ma ci sono anche tutte le sofferenze personali o collettive che gravano sull’umanità, causate o dalla cecità della natura o dalla cattiveria o negligenza degli uomini.

Bisogna ripetersi con audacia, vincendo la resistenza interiore, che non c’è proporzione tra quanto ci tocca soffrire e quanto attendiamo con fiducia. In occasione della Pasqua vorrei poter dire a me stesso con fede le parole di Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi: «Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne».

Tutto questo richiede una grande tensione di speranza. Perché, come dice ancora san Paolo, «nella speranza noi siamo salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza» (Rom 8,24). Sperare così può essere difficile, ma non vedo altra via di uscita dai mali di questo mondo, a meno che non si voglia nascondere il volto nella sabbia e non voler vedere o pensare nulla. Più difficile è però per me esprimere che cosa può dire la Pasqua a chi non partecipa della mia fede ed è curvo sotto i pesi della vita. In questo mi vengono in aiuto persone che ho incontrato e in cui ho sentito come una scaturigine misteriosa, che le aiuta a guardare in faccia la sofferenza e la morte anche senza potersi dare ragione di ciò che seguirà. Vedo così che c’è dentro tutti noi qualcosa di quello che san Paolo chiama «speranza contro ogni speranza» (Lettera ai Romani, 4,18), cioè una volontà e un coraggio di andare avanti malgrado tutto, anche se non si è capito il senso di quanto è avvenuto.

È così che molti uomini hanno dato prova di una capacità di ripresa che ha del miracoloso. Si pensi a tutto quanto è stato fatto con indomita energia dopo lo tsunami del 26 dicembre 2004 o dopo l’inondazione di New Orleans provocata dall’uragano Katrina nell’agosto successivo. Si pensi alle energie di ricostruzione che sorgono come dal nulla dopo la tempesta delle guerre. Si pensi alle parole che la ventottenne Etty Hillesum scrisse il 3 luglio 1942, prima di essere portata a morire ad Auschwitz: «Io guardavo in faccia la nostra distruzione imminente, la nostra prevedibile miserabile fine, che si manifestava già in molti momenti ordinari della nostra vita quotidiana.

È questa possibilità che io ho incorporato nella percezione della mia vita, senza sperimentare quale conseguenza una diminuzione della mia vitalità. La possibilità della morte è una presenza assoluta nella mia vita, e a causa di ciò la mia vita ha acquistato una nuova dimensione». Per queste cose non ci si può affidare alla scienza, se non per chiederle qualche strumento tecnico: al massimo essa permette un debole prolungamento dei nostri giorni. L’interrogativo è invece sul senso di quanto sta avvenendo e più ancora sull’amore che è dato di cogliere anche in simili frangenti. C’è qualcuno che mi ama talmente da farmi sentire pieno di vita persino nella debolezza, che mi dice «io sono la vita, la vita per sempre».

O almeno c’è qualcuno al quale posso dedicare i miei giorni, anche quando mi sembra che tutto sia perduto. È così che la risurrezione entra nell’esperienza quotidiana di tutti i sofferenti, in particolare dei malati e degli anziani, dando loro la possibilità di produrre ancora frutti abbondanti a dispetto delle forze che vengono meno e della debolezza che li assale. La vita nella Pasqua si mostra più forte della morte ed è così che tutti ci auguriamo di coglierla.



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e' ancora giovane ma crescera' [SM=x44598] [SM=x44599]

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anche perché la MORTE non accetta una lira
16/04/2011 10:32
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Lingua velenosa
Gianfranco Ravasi

La calunnia ha un filo più tagliente di una spada, una lingua più velenosa di quella di tutti i serpenti del Nilo, un fiato che cavalca i venti come fossero corsieri e diffonde la menzogna per tutti i quattro punti cardinali del mondo.

Non avevo mai letto Cimbelino, una delle ultime opere drammatiche di Shakespeare (è collocata tra il 1609 e il 1610). Nell'atto III, scena IV, uno dei personaggi, Pisanio, lancia questa bordata contro la calunnia. Tema, questo, che non abbiamo mai fatto mancare alla nostra rubrica perché siamo convinti che di calunnie siamo al tempo stesso artefici e vittime.
C'è, infatti, un gusto particolare nel partire magari da uno spunto reale e iniziare un ricamo raffinato di falsità maliziose. E c'è, per contrasto, un'impotenza amara quando si conosce una calunnia emessa contro di noi, nei cui confronti ci sentiamo del tutto incapaci di controbattere, nella certezza di non riuscire mai ad essere convincenti.

Mi pare di aver già citato in passato un'altra battuta di Shakespeare, quella di Amleto a Ofelia: «Anche se tu sei casta come il ghiaccio e pura come la neve, non sfuggirai alla calunnia. Vattene in convento!». E chi ci assicura che il convento sia un'oasi paradisiaca ove non soffi il «venticello» della calunnia (per usare un'immagine del Barbiere di Siviglia)? Già la Bibbia segnalava la sofferenza di un orante che presentava a Dio lo scandalo dell'amico calunniatore:

«Se mi avesse insultato un nemico, l'avrei sopportato- ma sei tu, mio amico e confidente, legato a me da dolce amicizia!» (Salmo 55, 13-15).



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Bestion., 16/04/2011 10.32:



Lingua velenosa
Gianfranco Ravasi







[SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] e non conosci il santo veleno [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598]
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16/04/2011 16:27
 
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Pensare prima di parlare
Gianfranco Ravasi

Non c'è da fidarsi di quello che dice la gente, spesso se le inventa le cose, dice quello che le passa per la mente senza pensarci. Pensare prima di parlare e invece succede il contrario.

«Non avere un pensiero e saperlo esprimere: è questo che fa di uno un giornalista». Certo, era esagerato Karl Kraus, il caustico autore austriaco dei Detti e contraddetti (1909), ma in qualcosa indovinava. E la sua "verità" non colpiva solo i giornalisti, che - continuava - spesso «hanno con la vita e la verità all'incirca lo stesso rapporto che le cartomanti hanno con la metafisica», ma soprattutto il chiacchiericcio vano e vacuo di molti.
Basta solo salire su un treno e sorbirsi le conversazioni fluviali che i passeggeri affidano ai loro cellulari. Aveva ragione, allora, lo scrittore Luigi Malerba quando - nella nostra citazione da Salto mortale (1968) - registrava un'atmosfera diffusa, quella del parlare col cervello scollegato, emettendo un profluvio di banalità, di stupidità e persino di vere e proprie falsità. Un antico letterato orientale, vissuto nel IX secolo nell'attuale Iraq, di nome Ibn al-Mu'tazz, ricordava che il sapiente esprime le sue idee con accuratezza e col minor numero di parole.

Ora, invece, a partire dalla televisione, una logorrea incessante e indefessa si rovescia nelle orecchie degli ascoltatori, miscelando verità e inganno, sostanza e apparenza in una marmellata appiccicosa e fortemente speziata, destinata a palati ormai deformati da un eccesso continuo. Diventa, così, urgente una purificazione del nostro sguardo dalle troppe brutture e bruttezze e una liberazione del nostro orecchio dalle ortiche del vaniloquio, del cicaleccio inconsistente, del brusio permanente.

Sì, bisogna avere il coraggio di creare qualche volta - almeno di domenica - un'oasi di silenzio, introducendo una sorta di dieta dell'anima e della mente, perché abbia spazio la riflessione, il pensiero, il raccoglimento.



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perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti e di p_ie
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16/04/2011 21:53
 
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Lingua velenosa
Gianfranco Ravasi

La calunnia ha un filo più tagliente di una spada, una lingua più velenosa di quella di tutti i serpenti del Nilo, un fiato che cavalca i venti come fossero corsieri e diffonde la menzogna per tutti i quattro punti cardinali del mondo.

Non avevo mai letto Cimbelino, una delle ultime opere drammatiche di Shakespeare (è collocata tra il 1609 e il 1610). Nell'atto III, scena IV, uno dei personaggi, Pisanio, lancia questa bordata contro la calunnia. Tema, questo, che non abbiamo mai fatto mancare alla nostra rubrica perché siamo convinti che di calunnie siamo al tempo stesso artefici e vittime.
C'è, infatti, un gusto particolare nel partire magari da uno spunto reale e iniziare un ricamo raffinato di falsità maliziose. E c'è, per contrasto, un'impotenza amara quando si conosce una calunnia emessa contro di noi, nei cui confronti ci sentiamo del tutto incapaci di controbattere, nella certezza di non riuscire mai ad essere convincenti.

Mi pare di aver già citato in passato un'altra battuta di Shakespeare, quella di Amleto a Ofelia: «Anche se tu sei casta come il ghiaccio e pura come la neve, non sfuggirai alla calunnia. Vattene in convento!». E chi ci assicura che il convento sia un'oasi paradisiaca ove non soffi il «venticello» della calunnia (per usare un'immagine del Barbiere di Siviglia)? Già la Bibbia segnalava la sofferenza di un orante che presentava a Dio lo scandalo dell'amico calunniatore:

«Se mi avesse insultato un nemico, l'avrei sopportato- ma sei tu, mio amico e confidente, legato a me da dolce amicizia!» (Salmo 55, 13-15).



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Bestion., 14/04/2011 15.46:



Il caso Giovanni Paolo II







[SM=x44613] [SM=x44613] [SM=x44613] mah!!! non sara' mica il successore di peru ???????? [SM=x44607] [SM=x44607] [SM=x44607] [SM=x44607] [SM=x44607] [SM=x44607] [SM=x44607] [SM=x44607] [SM=x44607] [SM=x44607] [SM=x44607] [SM=x44607] [SM=x44606] [SM=x44606] [SM=x44606] [SM=x44606] [SM=x44606] [SM=x44606] [SM=x44606] [SM=x44606] [SM=x44606] [SM=x44606]

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non bisogna avere paura di un Popolo che non ha Potere ma di chi detiene il Potere di Quel Popolo
anche perché la MORTE non accetta una lira
17/04/2011 23:39
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!

PASQUA: tempo di S a l v e z z a
«Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo»
(Gv 1, 29)



“Entrata di Cristo in Gerusalemme" - Pietro Lorenzetti (1340) - Basilica San Francesco, Assisi

«Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato.
Come molti si stupirono di lui - tanto era sfigurato per essere d'uomo il suo aspetto
e diversa la sua forma da quella dei figli dell'uomo - così si meraviglieranno di lui
molte genti; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto
mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito»

(Isaia)


Il servo di jahvè

Giovanni Paolo II

Durante la prossima settimana, la liturgia vuole essere strettamente ubbidiente al susseguirsi degli avvenimenti. Proprio gli avvenimenti, svoltisi a Gerusalemme poco meno di duemila anni fa, decidono che questa è la Settimana Santa, la Settimana della Passione del Signore.
La domenica odierna rimane strettamente collegata con l’evento che ebbe luogo quando Gesù si avvicinò a Gerusalemme, per compiere lì tutto ciò che era stato annunziato dai profeti. Proprio in questo giorno i discepoli, per ordine del Maestro, gli condussero un asinello, dopo aver chiesto di poterlo prendere per un certo tempo in prestito. E Gesù vi si pose a sedere sopra, perché si adempisse su di lui anche quel particolare degli scritti profetici. Infatti così dice il profeta Zaccaria: “Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina” (Zc 9,9).
Allora anche la gente che in occasione delle feste si recava a Gerusalemme – la gente che guardava gli atti compiuti da Gesù ed ascoltava le sue parole – manifestando la fede messianica che egli aveva risvegliato, gridava: “Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!” (Mc 11,9-10).
Noi ripetiamo queste parole in ogni Messa quando si avvicina il momento della transustanziazione.

Così dunque, sulla strada verso la Città Santa, vicino all’entrata in Gerusalemme, sorge davanti a noi una scena dell’entusiasmante trionfo. “E molti stendevano i propri mantelli sulla strada e altri delle fronde che avevano tagliate dai campi” (Mc 11,8).
Il popolo d’Israele guarda a Gesù con gli occhi della propria storia: questa è la storia che portava il popolo eletto, attraverso tutte le vie della sua spiritualità, della sua tradizione, del suo culto, proprio verso il Messia. Nello stesso tempo questa storia è difficile. Il regno di Davide rappresenta il punto culminante della prosperità e della gloria terrestre del popolo, che dai tempi di Abramo, a più riprese, aveva ritrovato la sua alleanza con Dio-Jahvè, ma anche più di una volta l’aveva infranta. E adesso stringerà questa alleanza in maniera definitiva? O forse perderà di nuovo questo filo della vocazione, che ha segnato dall’inizio il senso della sua storia?

Gesù entra in Gerusalemme sull’asinello prestatogli. La folla sembra essere più vicina all’adempimento della promessa per la quale avevano vissuto tante generazioni. Le grida: “Osanna... Benedetto colui che viene nel nome del Signore!” sembrano voler esprimere l’incontro ormai vicino dei cuori umani con l’eterna Elezione. In mezzo a questa gioia che precede le solennità pasquali, Gesù è raccolto e silenzioso. È pienamente consapevole che quell’incontro dei cuori umani con l’eterna Elezione non avverrà mediante gli “Osanna”, ma mediante la Croce.
Prima che egli venisse in Gerusalemme, accompagnato dalla folla dei suoi conterranei, pellegrini per le feste di Pasqua, un altro lo aveva introdotto ed aveva definito il suo posto in mezzo a Israele.

Fu proprio Giovanni Battista al Giordano. Giovanni però, quando aveva visto Gesù che aspettava, non aveva gridato “Osanna”, ma indicandolo col dito aveva detto: “Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29). Gesù sente il grido della folla nel giorno dell’ingresso in Gerusalemme, ma il suo pensiero è fisso alle parole di Giovanni presso il Giordano: “Ecco colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29).

Oggi leggiamo la narrazione della Passione dei Signore secondo Marco. Vi è la completa descrizione degli avvenimenti, che si susseguiranno nel corso di questa settimana. E, in un certo senso, il programma della settimana.
Ci fermiamo in raccoglimento davanti a questa narrazione. È difficile conoscere questi avvenimenti in modo diverso. Benché li conosciamo tutti a memoria, sempre torniamo ad ascoltarli con lo stesso raccoglimento. Mi ricordo quando ero ancora giovane sacerdote e raccontavo la Passione del Signore ai bambini, con quanta attenzione essi ascoltavano! Questa era sempre una catechesi completamente diversa dalle altre. La Chiesa quindi non cessa di rileggere la narrazione della Passione di Cristo, e desidera che questa descrizione rimanga nella nostra coscienza e nel nostro cuore. In questa settimana siamo chiamati ad una solidarietà particolare con Gesù Cristo, “Uomo dei dolori” (Is 53,3).

Così dunque insieme all’immagine di questo Messia, che l’Israele della vecchia alleanza aspettava, e che anzi sembrava avere ormai quasi raggiunto con la propria fede nel momento dell’ingresso in Gerusalemme, la liturgia odierna presenta a noi contemporaneamente un’altra immagine. È l’immagine descritta dai Profeti, in modo particolare da Isaia: “Ho presentato il dorso ai flagellatori... sapendo di non restare deluso” (Is 50,6).
Cristo viene in Gerusalemme perché si adempiano su di lui queste parole, per realizzare la figura del “servo di Jahvè”, mediante la quale il profeta, otto secoli prima, aveva rivelato l’intento di Dio. Il “Servo di Jahvè”: il Messia, il discendente di Davide, non è quello in cui si adempie l’“Osanna” del popolo, ma quello che è sottoposto alla più terribile prova: “Mi schermiscono quelli che mi vedono... lo liberi, se è suo amico” (Is 21,8-9).
Invece non mediante la “liberazione” dall’obbrobrio, ma proprio mediante l’obbedienza fino alla morte, mediante la Croce, doveva realizzarsi l’eterno disegno dell’amore. Ed ecco parla ormai non più il profeta, ma l’Apostolo, parla Paolo, nel quale “la parola della Croce” ha trovato una via particolare. Paolo, consapevole del Mistero della Redenzione, rende testimonianza a colui che “pur essendo di natura divina... spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo... umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alta morte, e la morte di croce” (Fil 2,6-8).
Ecco la vera immagine del Messia, dell’Unto, del Figlio di Dio, del Servo di Jahvè. Gesù con questa immagine entrava in Gerusalemme, quando i pellegrini, che lo accompagnavano per via, cantavano: Osanna”. E stendevano i mantelli e i rami degli alberi sulla strada per la quale egli camminava.

E noi oggi teniamo nelle nostre mani i rami d’olivo. Sappiamo che poi questi rami seccheranno. Con la loro cenere cospargeremo le nostre teste, nell’anno prossimo, per ricordare che il Figlio di Dio, diventando uomo, ha accettato la morte umana per meritare a noi la Vita.



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Bestion., 17/04/2011 23.39:




Il servo di jahvè
Giovanni Paolo II







[SM=x44613] [SM=x44613] talmente puro che da "a" e' uscita "o" [SM=x44606] [SM=x44606] [SM=x44606]
[SM=x44613] [SM=x44613] mah!!!!! bestion cosa te ne farai di tutte queste cose? boh!!!! [SM=x44606] [SM=x44606] [SM=x44606] [SM=x44606] [SM=x44606]

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PASQUA: tempo di S a l v e z z a





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[SM=x44605] mah!!! bestion gli angioletti hanno avvertito chi di dovere [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] di mettere i sottotitoli [SM=x44605] [SM=x44605] [SM=x44605] [SM=x44600] [SM=x44599] [SM=x44645]

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19/04/2011 10:25
 
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Quello che lui dice
Gianfranco Ravasi

Comincio sempre la mia preghiera in silenzio, perché è nel silenzio del cuore che Dio parla.

Dio è amico del silenzio: dobbiamo ascoltare Dio perché ciò che conta non è quello che diciamo noi, ma quello che Lui dice a noi e attraverso di noi. Il nome di Maria, ricordato oggi dalla liturgia, è portato da un numero infinito di donne e anche di uomini. Vogliamo, allora, ricordare la Madre di Gesù da un angolo di visuale molto particolare, quello del suo silenzio.
Sì, perché, se si esclude il Magnificat che è una solenne preghiera innica, Maria pronunzia nei vangeli sei frasi brevissime, simili a un sussurro.

Il resto è silenzio. Quel silenzio che un'altra donna, madre Teresa di Calcutta (1910-1917), ci ha sopra illustrato in parole povere e spoglie, tratte dal suo Cammino semplice, apparso nel 1995, parole che sbocciano appunto dalla quiete e dalla pace interiore. Bisognerebbe veramente alonare di silenzio non solo la preghiera ma anche le azioni più importanti della nostra vita, nella certezza che in quel tacere puro e denso si può scoprire la voce di Dio.

Anzi, madre Teresa ci ricorda che, una volta ascoltata e custodita in noi quella parola divina, essa si irradierà attraverso noi stessi, comunicandosi agli altri. Ci sono, infatti, persone che non hanno bisogno di pronunziare tante parole; eppure sanno confortare e consigliare in modo efficace e folgorante! S. Teresa d'Avila nel suo Castello interiore scriveva: «Dio e l'anima si godono in altissimo silenzio.

L'intelletto non deve fare né movimenti né ricerche. Chi l'ha creato vuole solo che si riposi e contempli le meraviglie che accadono davanti a lui».



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