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La presenza di Dio

Ultimo Aggiornamento: 12/06/2020 09:44
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23/01/2011 23:42
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!

Professione teologo
Joseph Ratzinger e la teologia politica nel volume
"L'unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa"






«Ratzinger sottolinea con nettezza come
i limiti di ogni visione politica, anche teologica,
siano segnati dalle Scritture sacre ebraiche
e poi cristiane e dalla fede biblica.
Da qui scaturisce anche l'opposizione
a ogni assolutizzazione politica
del Cristianesimo»




L'unico assoluto in
un mondo provvisorio

di Giovanni Maria Vian

C'è già tutto Ratzinger in questo piccolo libro, tanto prezioso quanto poco conosciuto, che risale alla sua stagione giovanile. Agli inizi degli anni Sessanta il teologo, che da poco era ordinario di teologia fondamentale all'università di Bonn, ne aveva infatti anticipato le linee fondamentali in due sostanziosi articoli, poi rielaborati nel volume pubblicato un decennio più tardi e quasi subito tradotto in spagnolo, italiano e portoghese. Al suo centro è il problema della politica, affrontato con il metodo che caratterizza l'autore sin dalla sua formazione, e cioè con uno sguardo storico e teologico rivolto con attenzione alla tradizione cristiana, ripensata con creatività e cautela.

Secondo un atteggiamento le cui caratteristiche balenano nei tratti del biblista Friedrich Stummer, specialista dell'Antico Testamento, quei tratti che mezzo secolo più tardi il cardinale Ratzinger rievocherà nei ricordi autobiografici come quelli di "un uomo silenzioso e riservato, la cui forza stava nella serietà del suo lavoro filologico, mentre solo con molta cautela arrivava ad accennare a delle linee teologiche. Io, però, stimavo molto proprio questo stile cauto".

In questo caso, l'interesse del giovane studioso è rivolto esclusivamente al mondo antico e ai Padri della Chiesa, rappresentati qui da due nomi importanti e molto significativi: Origene e Agostino. Appena trentenne, nell'affrontare l'argomento scelto il giovane Ratzinger dimostra una non comune consuetudine con le fonti antiche e, al tempo stesso, una sensibilità acuta nei confronti della cultura contemporanea. Attraverso lo studio della patristica viene così impostata in modo originale la ricerca di un tema che, a partire della seconda metà degli anni Sessanta, diventa di attualità con la teologia politica, come avverte l'autore nella premessa e come indica bene il sottotitolo della prima traduzione del libretto: Aportaciones para una teología política. In un dibattito che nel periodo immediatamente successivo al Vaticano ii mostra sviluppi e accenti nuovi, ma le cui linee profonde erano state preparate tra le due guerre soprattutto dal dibattito ideale tra Schmitt e Peterson (non per caso, il nome di quest'ultimo ricorre più volte nelle note).
Fortissimo è l'interesse per il mondo e per la cultura dell'antichità come contesto del primo cristianesimo da parte del giovane Ratzinger, già liceale entusiasta dei classici latini e greci - nei primi mesi dopo la guerra, il seminarista diciottenne imprigionato dagli americani aveva resistito all'avvilimento provando a comporre su un grosso quaderno esametri greci - e poi per anni lettore appassionato dei Padri, nelle edizioni critiche e nello spirito della loro riscoperta teologica e storica, già allora vivace in Germania e Francia. E i frutti di questa formazione rigorosa e impegnativa, sfociata nella tesi di dottorato su Agostino e poi in quella tormentatissima di abilitazione alla docenza su Bonaventura, sono già ben maturi nel breve studio su "umanità e dimensione politica nella visione della Chiesa primitiva" (Menschheit und Staatenbau in der Sicht der frühen Kirche) che è all'origine di questo libro, nel quale una lettura attenta ritrova riflessioni e temi che si fanno ricorrenti nel Ratzinger della maturità (e ora in Benedetto XVI) con una coerenza davvero impressionante.

Tratteggiata la teologia politica del mondo grecoromano, con l'idea diffusa della corrispondenza nei regni umani della monarchia divina, ed evocata l'opposizione filosofica ai diversi ordinamenti politici in nome del cosmopolitismo (che più tardi offrirà agganci a quella cristiana), Ratzinger sottolinea con nettezza come i limiti di ogni visione politica, anche teologica, siano segnati dalle Scritture sacre ebraiche e poi cristiane - delle quali propone senza esitare la lettura canonica, che le abbraccia nell'insieme trasmesso dalla tradizione della Chiesa e dove le singole parti si richiamano e si integrano l'una con l'altra - e dalla fede biblica.
Da qui scaturisce anche l'opposizione a ogni assolutizzazione politica del cristianesimo, che nel mondo antico si presenta come "entità rivoluzionaria", sia pure temperata.

Di fronte a questo si erge inquietante lo gnosticismo, che per secoli seguirà il cristianesimo "come un'ombra maligna", da esso radicalmente diverso nell'opporsi al cosmo e al suo creatore e dunque segnato da una anarchia di fondo. Ratzinger - che risulta del tutto al corrente del dibattito scientifico sulle origini dello gnosticismo e rileva, con punte di raffinata attenzione filologica, la convinzione di intellettuali pagani come Celso e Plotino che lo identificavano con la fede cristiana - dà del fenomeno gnostico una lettura storica e teologica che lo vede, da sempre, schierato "dalla parte del serpente".

Questa descrizione ratzingeriana richiama quella dei grandi avversari antichi dello gnosticismo, rappresentato come una "tonalità d'animo le cui energie da lungo tempo s'erano andate accumulando a far gorgo", che escono allo scoperto e dilagano non per caso all'apparire del cristianesimo e che, appunto diabolicamente, lo accompagneranno nel corso della storia.
Come si è accennato, Ratzinger sottolinea il fatto che l'opposizione filosofica agli ordinamenti statali, di origine soprattutto stoica, offre agganci a quella dei cristiani: ma "l'ideale apolitico e individualistico cosmopolita del cittadino del mondo" è superato dalla venuta di Cristo, che è "mistero di unità" e anima quella "fraternità cristiana" a cui il giovane teologo dedica proprio nello stesso periodo la prima pubblicazione monografica importante (Die christliche Brüderlichkeit) dopo le due tesi su Agostino e su Bonaventura. In ambito ebraico e cristiano, la riflessione si sposta sulle nazioni (e sui loro angeli, o demoni), nate dalla dispersione di Babele, e proprio sul fattore nazionale s'incentra uno dei punti principali della polemica di Origene contro Celso.

Analogamente, un passo difficile del De principiis fonda "la metafisica teologica della nazione" elaborata dal grande intellettuale cristiano alessandrino, che sottolinea l'irriducibilità di fondo - per ragioni escatologiche - della rivoluzione cristiana nei confronti del mondo, e dunque anche di ogni sistema politico.
Ancora più a fondo va la riflessione di Agostino sulla teologia politica, svolta in particolare nel De civitate Dei. Quest'opera davvero epocale, occasionata dagli echi dell'inaudito sacco di Roma, risente ovviamente di una situazione del tutto nuova, dopo la svolta costantiniana e l'elaborazione di Eusebio di Cesarea (a proposito delle quali i cenni di Ratzinger tengono conto più della dimensione teologica che di quella storica, pure non trascurata, anzi avvertita con finezza).

Il giovane teologo nota subito che il prediletto vescovo di Ippona ribadisce la fede cristiana nel rapporto tra Dio e mondo: così, di fronte al monismo stoico sostiene l'assoluta alterità di Dio creatore, e di fronte all'insistenza platonica sulla trascendenza divina afferma la fede nell'incarnazione di Cristo: per Agostino, insomma, "il Dio creatore - sintetizza Ratzinger - è pure il Dio della storia". Proprio per questo ogni costruzione umana è relativa, cioè perché sempre resterà umana: con le parole del grande intellettuale africano, "cosa sono tutti gli uomini, se non uomini?".
A differenza di Origene, però, Agostino insiste maggiormente sulla presenza permanente nella Chiesa dell'unità delle nazioni preannunciata a Pentecoste e che invece per l'alessandrino è soprattutto un segno escatologico: "Già il corpo di Cristo parla tutte le lingue, e quelle che non parla le parlerà". Rispetto poi al rapporto con gli ordinamenti politici che restano mondani, il realismo della dottrina agostiniana non propone né una "ecclesializzazione" (Verkirchlichung) dello Stato né una "statalizzazione" (Verstaatlichung) della Chiesa.
L'aspirazione, condivisa da Ratzinger, è ben diversa: e cioè quella di "rendere presente la nuova forza della fede" in questo mondo provvisorio. E il cristianesimo ne relativizza tutte le realtà, compresa naturalmente quella politica, perché guarda all'unico assoluto.



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Fine (3/3)


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24/01/2011 17:06
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


45ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali


vertici Rai ricevuti in udienza da Benedetto XVI

«È importante ricordare sempre che il contatto virtuale
non può e non deve sostituire il contatto umano diretto
con le persone a tutti i livelli della nostra vita»




Il Papa: «uno stile cristiano
di presenza nel web»

Redazione

“Esiste uno stile cristiano di presenza anche nel mondo digitale: esso si concretizza in una forma di comunicazione onesta e aperta, responsabile e rispettosa dell’altro”. È quanto sottolinea Benedetto XVI nel messaggio per la 45ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali (5 giugno 2011), presentato oggi – festa di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti – in sala stampa vaticana. “Le nuove tecnologie – scrive il Papa in vista della giornata, che ha per tema ‘Verità, annuncio e autenticità di vita nell’era digitale’ – non stanno cambiando solo il modo di comunicare, ma la comunicazione in se stessa, per cui si può affermare che si è di fronte ad una vasta trasformazione culturale”. Infatti, “si prospettano traguardi fino a qualche tempo fa impensabili, che suscitano stupore per le possibilità offerte e, al tempo stesso, impongono in modo sempre più pressante una seria riflessione sul senso della comunicazione nell’era digitale”. Le nuove tecnologie, ribadisce Benedetto XVI, “chiedono di essere poste al servizio del bene integrale della persona e dell’umanità intera. Se usate saggiamente, esse possono contribuire a soddisfare il desiderio di senso, di verità e di unità che rimane l’aspirazione più profonda dell’essere umano”.

“Nel mondo digitale – ricorda il Papa – trasmettere informazioni significa sempre più spesso immetterle in una rete sociale, dove la conoscenza viene condivisa nell’ambito di scambi personali”. E ancora: “Le nuove tecnologie permettono alle persone d’incontrarsi oltre i confini dello spazio e delle stesse culture, inaugurando così un intero nuovo mondo di potenziali amicizie”. Per Benedetto XVI, “questa è una grande opportunità, ma comporta anche una maggiore attenzione e una presa di coscienza rispetto ai possibili rischi”. Da qui alcuni interrogativi: “Chi è il mio ‘prossimo’ in questo nuovo mondo?”; “abbiamo tempo di riflettere criticamente sulle nostre scelte e di alimentare rapporti umani che siano veramente profondi e duraturi?”. “È importante – rimarca il Pontefice – ricordare sempre che il contatto virtuale non può e non deve sostituire il contatto umano diretto con le persone a tutti i livelli della nostra vita. Anche nell’era digitale, ciascuno è posto di fronte alla necessità di essere persona autentica e riflessiva. Del resto, le dinamiche proprie dei social network mostrano che una persona è sempre coinvolta in ciò che comunica. Quando le persone si scambiano informazioni, stanno già condividendo se stesse, la loro visione del mondo, le loro speranze, i loro ideali”.

Secondo Benedetto XVI, “esiste uno stile cristiano di presenza anche nel mondo digitale”. Infatti, “comunicare il Vangelo attraverso i nuovi media significa non solo inserire contenuti dichiaratamente religiosi sulle piattaforme dei diversi mezzi, ma anche testimoniare con coerenza, nel proprio profilo digitale e nel modo di comunicare, scelte, preferenze, giudizi che siano profondamente coerenti con il Vangelo, anche quando di esso non si parla in forma esplicita”. Anche nel mondo digitale “non vi può essere annuncio di un messaggio senza una coerente testimonianza da parte di chi annuncia”. A tal proposito, il Papa sottolinea la necessità di “essere consapevoli che la verità che cerchiamo di condividere non trae il suo valore dalla sua ‘popolarità’ o dalla quantità di attenzione che riceve. Dobbiamo farla conoscere nella sua integrità, piuttosto che cercare di renderla accettabile, magari ‘annacquandola’ (…). Essa, pur proclamata nello spazio virtuale della rete, esige sempre d’incarnarsi nel mondo reale e in rapporto ai volti concreti dei fratelli e delle sorelle con cui condividiamo la vita quotidiana”. Per questo, nota il Pontefice, “rimangono sempre fondamentali le relazioni umane dirette nella trasmissione della fede!”.

Benedetto XVI invita, dunque, “i cristiani a unirsi con fiducia e con consapevole e responsabile creatività nella rete di rapporti che l’era digitale ha reso possibile”. Perché “questa rete è parte integrante della vita umana”. In questo contesto, prosegue, “la proclamazione del Vangelo richiede una forma rispettosa e discreta di comunicazione, che stimola il cuore e muove la coscienza”. Per il Papa “i credenti, testimoniando le loro più profonde convinzioni, offrono un prezioso contributo affinché il web non diventi uno strumento che riduce le persone a categorie, che cerca di manipolarle emotivamente o che permette a chi è potente di monopolizzare le opinioni altrui”. Al contrario, “i credenti incoraggiano tutti a mantenere vive le eterne domande dell’uomo. È proprio questa tensione spirituale propriamente umana che sta dietro la nostra sete di verità e di comunione e che ci spinge a comunicare con integrità e onestà”. Il messaggio si conclude con l’invito ai giovani “a fare buon uso della loro presenza nell’arena digitale” e... “appuntamento” alla Giornata mondiale della gioventù di Madrid, “la cui preparazione deve molto ai vantaggi delle nuove tecnologie”.




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24/01/2011 22:41
 
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Il destino
Gianfranco Ravasi

Fermezza di fronte al destino, grazia nella sofferenza, non vuol dire semplicemente subire: è un-azione attiva, un trionfo positivo.

È famoso un detto pronunziato da Cassio nell-atto I del Giulio Cesare di Shakespeare: «Vi sono momenti in cui gli uomini sono padroni del proprio destino». La stessa cosa ce la ricorda lo scrittore tedesco Thomas Mann (1875-1955) nel suo famoso romanzo Morte a Venezia dal quale abbiamo desunto la citazione posta in apertura.
Il destino è una parola magica che già inquietava i Greci, convinti che dèi e uomini fossero succubi di un Fato invincibile.

Anche ai nostri giorni, pur così tecnologici e smaliziati, sono una legione gli sciocchi che ricorrono ad alcuni furbi per conoscere o cambiare "magicamente" il loro destino. In realtà, senza voler piombare in un determinismo cieco o in una predestinazione intangibile, dobbiamo riconoscere che la nostra libertà non è arbitra di tutto.

Non siamo soli nell-universo e non tanto perché possano esistere influenze extraterrestri o astrali quanto piuttosto perché l-essere e la storia hanno un altro protagonista, il Creatore, dalle cui mani noi usciamo e nelle quali rimaniamo. Ecco, allora, il misterioso operare della grazia divina, la sorpresa di una salvezza e anche l-attesa di un giudizio. Non bisogna, però, mai dimenticare che Dio ha creato l-uomo libero e, quindi, co-protagonista del proprio destino.

È per questo che tessiamo noi ogni giorno il nostro destino, accompagnati e sostenuti dal Creatore ma non da lui plagiati e obbligati. È questa la nostra grandezza come è anche il rischio e il dramma della libertà.



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25/01/2011 14:26
 
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Le mani di Dio
Gianfranco Ravasi

Fa', o Signore, che noi stringiamo la tua mano nera perché la terra porti frutti di speranza. Fa' che stringiamo la tua mano gialla perché ciascuno guadagni il suo pane con dignità. Fa' che stringiamo la tua mano bianca perché fioriscano i boccioli di giustizia su tutti i rami. Fa' che noi stringiamo anche la tua mano rossa perché tutti gli abitanti dell'Africa, dell'Asia, dell'Europa e dell'America coltivino sotto tutti i cieli e in tutti i tempi campi di preghiera e giardini di pace.

Le mani di Dio non sono solo bianche, ma hanno tutti i colori della pelle dell'umanità, per questo, se vuoi stringerle, non devi esitare a tenere nella tua la sua mano nera o gialla o rossa. È, infatti, con le mani dei giusti di tutta la terra che Dio coltiva i campi della preghiera, fa sbocciare la giustizia, fa maturare i frutti della speranza trasformando il mondo in un giardino di pace.
Ogni etnia, ogni popolo, ogni fede è necessaria per creare un mondo diverso da quello in cui le mani si staccano o, peggio, si armano l'una contro l'altra.

A scrivere la preghiera che oggi abbiamo proposto, a suggello della Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani, è stato Nabil Mouannès, un prete del Libano, terra che ha conosciuto sia il tempo delle mani differenti unite nella concordia, sia quello della furia dello scontro. La sua è un'invocazione necessaria nei nostri anni in cui spesso si crede che Dio sia solo bianco come un europeo o solo olivastro come un arabo. La malattia del fondamentalismo si annida nelle fibre nascoste delle religioni corrompendole.

Bisogna ritrovare il grande respiro di Dio che ama tutte le creature uscite dalle sue mani in tanti profili e forme diverse e che le vorrebbe tutte - come dice il profeta Sofonia (3,9) - spalla a spalla, a invocare il suo nome.



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25/01/2011 14:42
 
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Il segretario di Giovanni XXIII ricorda il giorno in cui
il Papa annunciò il concilio Vaticano II



Concilio Vaticano II: aperto in San Pietro, 11 ottobre 1962, da Giovanni XXIII - chiuso nello stesso luogo, 8 dicembre 1965, da Paolo VI

«Se la Chiesa, coerente con la sua vocazione, si ripresenterà
giovane e pura, senza macchia né ruga (Ef 5, 27), riflettente
il modello ideato dal suo Fondatore, e perciò credibile,
tutti ne trarranno beneficio
»


Lo strano paradosso del vecchio
che ringiovanì la Chiesa

di Loris Capovilla

Sono trascorsi cinquantadue anni da quando Giovanni XXIII manifestò la determinazione di indire il XXI concilio ecumenico, celebrare il primo Sinodo romano, avviare l'aggiornamento del Codice di diritto canonico.

Riecheggiano nel mio animo due emblematiche affermazioni di allora: l'una contenuta nel discorso ai cardinali: "Amore e santità"; l'altra, trasparente tra le righe di una lettera inviata a un condiscepolo, parroco di campagna: "Prontezza a tutto".
Sul terminare dell'allocuzione ai porporati, il Papa si avvolse nel mantello del suo lontano antecessore san Leone i: "Sarete mia corona e mio gaudio, se la vostra vita rimarrà radicata nell'amore e nella santità" (Discorsi messaggi colloqui, Città del Vaticano, Tipografia Poliglotta Vaticana 1960, i, pp. 129-133). Nello scritto al condiscepolo lasciò intravedere il fondo del suo animo: "Sono stupito di questo trovarmi sempre me stesso, cioè semplice e sincero, calmo e sereno e pronto umilissimamente a tutto, come prigioniero di Cristo" (Giovanni XXIII, Lettere del Pontificato, San Paolo, 2008, lettera n. 42, 31. i. 1959).

Sovente rimbalza la domanda: chi era e com'era questo Papa Giovanni che, settantottenne, osò segnalare al cammino della Chiesa tre eventi tanto gravi?
Le due proposizioni: "amore e santità" e "prontezza a tutto" aiutano a scoprire il segreto di un'anima. Era il cristiano completamente libero da preoccupazione di successo personale; l'uomo che, a suo dire, aveva messo il proprio io sotto i piedi; il sacerdote della tradizione, abilitato ad avviare il processo di aggiornamento senza avventure, secondo la formula da lui coniata, ripetuta poi da Paolo vi: "Fedeltà e rinnovamento".
La sola fedeltà infatti ridurrebbe la Chiesa a museo; il solo rinnovamento condurrebbe all'anarchia. Era il sacerdote che soltanto sull'altare, tra il Libro e il Calice, si sentiva a suo agio. Apparteneva alla stirpe dei profeti chiamati ad annunciare ciò che non pretendono di raggiungere e non vedranno coi loro occhi.
A tre mesi dalla elezione alla cattedra di Pietro, dopo aver pregato e riflettuto sul consuntivo dei suoi trent'anni di servizio della Santa Sede in oriente e in Francia e del sessennio veneziano, dato ascolto alle voci che da varie parti del mondo gli giungevano, egli riprese il filo della tradizione più recente dei Papi del secolo ventesimo e lo riannodò a quello della tradizione più antica richiamante "alcune forme di affermazione dottrinale e di saggi ordinamenti di ecclesiastica disciplina, che nella storia della chiesa, in epoca di rinnovamento, diedero frutti di straordinaria efficacia per la chiarezza del pensiero, per la compattezza dell'unità religiosa, per la fiamma più viva del fervore cristiano".
Diede prova in tal modo di apprezzare al sommo le istituzioni apostoliche e gli ordinamenti datisi dalla Chiesa, a cominciare dal convegno gerosolimitano dell'anno 50 dell'era cristiana sino al concilio Vaticano i e si avventurò "certo tremando un poco di commozione, ma insieme con umile risolutezza di proposito" sulla strada indicatagli dalla Provvidenza.

Questo dev'essere stato il senso del colloquio col suo segretario di Stato, se il cardinale Tardini alla data del 20 gennaio 1959 poté scrivere nella sua agenda il commento che lo onora e rende giustizia al Papa: "Udienza importante. Sua Santità ieri pomeriggio ha riflettuto e concretato sul programma del suo pontificato. Ha ideato tre cose: Sinodo romano, Concilio ecumenico, aggiornamento del Codice di diritto canonico. Vuole annunciare questi tre punti domenica prossima ai signori cardinali, dopo la cerimonia di San Paolo. Dico al S. Padre (che mi interrogò): A me piacciono le cose belle e nuove. Ora questi tre punti sono bellissimi e il modo di dare il primo annuncio ai cardinali è nuovo (ma si riallaccia alle antiche tradizioni papali) ed è opportunissimo".

Chi conobbe il cardinale Tardini sa che era prelato non facile agli entusiasmi e non incline alla cortigianeria. Sulla sua agenda 1959 la pagina del 20 gennaio è la sola che rechi traccia di inchiostro!
I singoli momenti della vigilia e del 25 gennaio e seguenti rivivono nella mia fantasia. Rivedo il Papa la sera del 24 con le tredici pagine dattiloscritte dei discorsi dell'indomani, e risento la sua voce, la stessa che nell'ora della morte ripeterà identico concetto che gli stava fisso nel cuore: "L'umanità sospira la pace. Se la Chiesa, coerente con la sua vocazione, si ripresenterà giovane e pura, senza macchia né ruga (Efesini, 5, 27), riflettente il modello ideato dal suo Fondatore, e perciò credibile, tutti ne trarranno beneficio. Io non ho mai avuto dubbi di fede, tuttavia mi sconcerta il fatto che mentre Cristo da duemila anni tiene le sue braccia aperte sulla croce, l'espansione del suo vangelo abbia subìto tanto ritardo. Confido che questi fogli suscitino una risposta corale ai propositi che vi stanno racchiusi".

Il 25 gennaio 1959 il Papa si alzò all'alba avviando la sua preghiera mattutina con l'Angelus recitato sopra il solenne abbraccio del colonnato berniniano. Celebrò la messa nella cappella domestica e assistette alla mia. Rimase in ginocchio più a lungo del solito. Sostò al tavolo di lavoro per una rapida scorsa ai quotidiani e ad alcune pratiche della segreteria di Stato. Risonava nell'aria il suo interrogativo: "Come ripresentare nella sua interezza il messaggio cristiano alla gente del nostro tempo? L'uomo moderno non è insensibile alla parola di Cristo, non è del tutto restio ad afferrare l'àncora di salvezza che gli viene offerta".
In macchina verso San Paolo proferì poche parole. Presiedette la messa celebrata dall'Abate e tenne omelia. Il rito si prolungò più del previsto e il Papa varcò la soglia dell'aula capitolare del monastero benedettino poco dopo mezzogiorno, l'ora in cui cessava l'embargo dell'annuncio. Così accadde che la notizia del concilio venisse divulgata dai mass media prima che il Pontefice l'avesse comunicata ai cardinali.

All'annuncio di quel 25 gennaio sino all'indizione propriamente detta di Natale 1961, nella laboriosa parentesi delle fasi antepreparatoria e preparatoria, il Papa moltiplicò in proposito la sua catechesi compendiata nelle tre articolazioni, che segnalavano il cammino dell'evento ecclesiale, come verrà precisato nel discorso di apertura dell'11 ottobre 1962: a) promuovere il rinnovamento interiore della cattolicità; b) porre i cristiani dinanzi alla realtà della Chiesa di Cristo e dei suoi compiti istituzionali; c) sollecitare i vescovi, coi loro presbiteri e laici, a sentirsi collegialmente corresponsabili della salvezza di tutti gli uomini e a farsi carico di tutti i loro problemi, affinché l'assise conciliare si rivelasse veramente ecumenica.
Queste articolazioni, per nulla esaurite, sono state ulteriormente esplicitate durante i pontificati di Paolo vi, Giovanni Paolo i, Giovanni Paolo ii, Benedetto XVI, tramite ininterrotta presenza papale, interventi collegiali degli episcopati delle varie nazioni, attività degli organi centrali della santa sede, in particolare con l'impulso impresso ai Pontifici Consigli e alle Pontificie Commissioni.

Con tale impegno, la Chiesa del Vaticano II, entrata nella dinamica contemporanea, ha recato efficace contributo alla promozione della giustizia e alla instaurazione della pace, a vantaggio di tutta l'umanità, senza tuttavia piegare un solo lembo della sua bandiera; ha favorito il cammino verso la ricomposizione dell'unità dei cristiani, presupposto alla unificazione di tutte le genti.
Qualche giorno dopo il 25 gennaio 1959, esaltando l'Immacolata di Lourdes, Giovanni XXIII sentì il bisogno "di esprimere un pensiero in grande confidenza paterna". Infatti già lo si era collocato tra gli uomini inclini alla mitezza e all'ottimismo, ed egli non negò questa sua connotazione, ma volle renderne ragione: "La naturale inclinazione del vostro nuovo Papa ad esporre la dottrina con calma e con semplicità piuttosto che sottolineare, a colpi decisi, punti di dissenso ed aspetti negativi del pensare e dell'operare, non lo dissuade, né gli toglie il senso delle sue tremende responsabilità pastorali. In ogni tempo chiunque è preposto alla direzione delle anime, delle famiglie e della società religiosa, civile e sociale sente imperioso il dovere di opporsi al franamento che le tre concupiscenze minacciano di operare a danno dell'uomo ed il dovere di richiamare quelle vecchie parole, che suonano ad alcuni meno gradevoli, parole di invito alla disciplina e alla penitenza".
Si avverte in questo brano il preannuncio dell'allocuzione Gaudet mater Ecclesia in apertura del concilio, colla proposta della "medicina della misericordia", tuttavia senza compromessi tattici, senza collocare nell'ombra uno solo dei princìpi e dei valori che sono tutt'uno col cristianesimo.

Cinquantadue anni dell'annuncio del concilio, a quarantasei dalla sua conclusione, dopo che quattro Papi hanno ripetutamente asserito che esso è stato evento voluto da Dio, condotto dallo Spirito, approdato alle sue evangeliche conclusioni; dopo che Paolo vi e Giovanni Paolo ii hanno riconosciuto che Papa Giovanni ha ringiovanito la Chiesa - stupendo paradosso: il "vecchio" che compie opera di ringiovanimento! - la vox populi attribuisce il carisma profetico al pastore che nell'annunciare il concilio affermò di aver voluto cogliere la buona ispirazione celeste, scoprendone la premessa nella Bibbia: "Susciterò loro un profeta e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto. Come riconosceremo la parola che il Signore non ha detto? Quando il profeta parlerà in nome del Signore e la cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l'ha detta il Signore" (Deuteronomio, 18, 18-22).

Giovanni XXIII ha detto le parole del Signore? Le ha dette al popolo romano col Sinodo? All'umanità col concilio? Ha interpretato l'esigenza incontrovertibile dell'aggiornamento del Codice?
Se il Sinodo romano, che va letto nell'ottica della legislazione degli anni sessanta del secolo xx, è stato oggetto di non pochi strali, è segno che i suoi articoli non sono stati considerati alla luce della disciplina ecclesiastica e della passione pastorale. Se il Codice, promulgato dopo personale vaglio compiuto da Giovanni Paolo ii con estrema sensibilità, al fine di renderlo strumento di liberazione per i credenti (legum servi sumus ut liberi esse possimus), incontra qualche difficoltà di interpretazione e di applicazione, dipende dal fatto che taluno dimentica la costituzione gerarchica della Chiesa. Se il Vaticano II non ha raggiunto tutte le mete prefissate, o stenta a conseguirle, ciò significa che la nostra conversione è di là da venire.

Nella prefazione alla biografia di Giovanni XXIII di Michel De Kerdreux (pseudonimo di Soeur Marie du Saint Esprit, carmelitana di Gravigny), il cardinale François Marty ha scritto: "Non dimentico mai che Giovanni è stato il Papa del Concilio. E oggi so che ha avuto ragione. Non a motivo della crisi attuale, ma perché senza questa immensa conversione la chiesa di Gesù Cristo sarebbe assai malata. Essa non potrebbe adempiere alla sua missione, mentre nella nostra epoca la famiglia umana ha tanto bisogno di questa ancella".
Grazie a Papa Giovanni, sul cui petto esultavano le aspirazioni e le illuminazioni dei suoi immediati antecessori, di vescovi e di teologi, di uomini e donne timbrati a fuoco dalla parola rivelata, oggi noi sappiamo, meglio di ieri, chi siamo e dove siamo diretti (Lumen gentium); quale lingua dobbiamo parlare e quale messaggio diffondere (Dei verbum); come e con quale intensità pregare (Sacrosanctum concilium); quale atteggiamento tenere dinanzi ai problemi e ai drammi dell'umanità contemporanea (Gaudium et spes).
Sono i quattro pilastri che sostengono l'edificio della rinnovata teologia pastorale e incoraggiano ad ascoltare la voce di Dio, a rivolgersi a Dio come figli; e obbligano a dialogare con tutte le componenti della famiglia umana.



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25/01/2011 19:29
 
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Il camaleonte
Gianfranco Ravasi

Ognuno crede a le raggioni sue:/ - disse er Camaleonte - come fai?/ Io cambio sempre e tu nun cambi mai:/ credo che se sbajamo tutt-e due.
Così parlava il camaleonte al rospo nella poesia Er carattere di Trilussa (1871-1950), il noto poeta romanesco.

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Il pensiero corre anche al citatissimo detto del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa: «Se vogliamo che tutto rimanga com-è, bisogna che tutto cambi». C-è, infatti, un mutamento innovativo che in realtà è solo parvenza, fumo, illusione, e, in questa operazione, il potere è certamente maestro.

Ma ritorniamo al contrasto suggerito dal camaleonte della parabola di Trilussa. È indubbio che gli estremi dell-adattamento a ogni situazione oppure dell-ostinazione nella propria convinzione sono rischiosi. Ciononostante entrambi questi comportamenti hanno in sé un-anima di verità.Nel primo caso è certo che la realtà umana è di sua natura mutevole e quindi è corretto aggiornarsi, è necessario attualizzare lo stesso messaggio eterno cristiano.
Nel secondo caso è facile capire che non si può transigere sui principi, non si possono variare i valori secondo le convenienze né stravolgere la verità autentica. Detto questo, ancora una volta emerge in tutta la sua forza ma anche nella sua delicatezza la pratica dell-equilibrio che faccia evitare ogni deriva di relativismo e ogni ottusità di fissismo. L-equilibrio non è necessariamente il buon senso popolare né tanto meno il perbenismo. È, in verità, una grazia e un impegno, un dono divino ed è un risultato di sapienza umana.

Saper discernere ciò che permane e ciò che può variare, non cristallizzarsi nella grettezza ideologica e non debordare nell-inconsistenza superficiale sono, quindi, una virtù e un-arte.



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25/01/2011 19:54
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!

Il successo
Gianfranco Ravasi

Il metodo del successo consiste in larga misura nel sollevamento della polvere. Per aver successo bisogna aggiungere acqua al proprio vino, finché non c-è più vino.

In un articolo di "terza pagina" di un quotidiano dedicato ai trent-anni dalla morte di Luciano Bianciardi, scrittore nato a Grosseto nel 1922, vissuto e morto a Milano nel 1972, era citata la prima frase che sopra ho evocato, tratta dal suo romanzo più noto, La vita agra (1962).
M-imbatto ora in un altro riferimento letterario, questa volta di un autore noto in Italia per il suo romanzo Pel di carota, Jules Renard (1864-1910), una delle più comuni letture dell-adolescenza. Il tema è identico in entrambe le considerazioni e riguarda il sostanziale bluff del successo. Ci sono giornali che campano sollevando questa polvere dorata o allungando in telenovele infinite quel poco di notizie che hanno riguardo ad attori, principi, cantanti, calciatori e così via.

E schiere di lettori e lettrici palpitano, s-affascinano e adorano, mentre le volute di polvere si levano verso l-alto e il flusso degli articoli procede nel vuoto e nella vacuità. Eppure un po- tutti per avere successo, saremmo talvolta pronti a ogni gesto, a ogni ignominia, a ogni compromesso. Basti solo vedere certi programmi televisivi ove impudicamente ci si denuda l-anima con tutte le vergogne, pur di essere in quel riquadro magico che è il televisore, segno di successo e di gloria.

Oh, se si ritrovasse un po- di gusto per il riserbo, per la semplicità, per le piccole gioie dell-esistenza!



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25/01/2011 22:05
 
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Il sonno
Gianfranco Ravasi

Dormono le cime dei monti/ e le vallate intorno, i declivi e i burroni./ Dormono i rettili, quanti nella specie/ la nera terra alleva,/ le fiere di selva, le varie forme di api,/ i mostri nel fondo cupo del mare./ Dormono le generazioni/ degli uccelli dalle lunghe ali.

E così, ecco riaffiorata anche quest-anno l-estate, con le sue giornate assolate, con lo splendore dei suoi colori e con le notti trapuntate di stelle e con la luna che tra pochi giorni sarà nella pienezza del suo sfolgorare. Ritorniamo, allora, idealmente sui banchi di scuola, evocando una poesia antica.
Sono pochi versi dedicati alla pace della notte, al velo del sonno che si distende sulla stessa natura oltre che su tutte le creature viventi. A dipingere questo silenzio e questa quiete è un poeta greco del VII sec. a.C., Alcmane, vissuto a Sparta come maestro di musica e di danza, e questo frammento è forse il testo più celebre delle sue poesie a noi giunte.

Il sonno è, certo, segno di riposo e di pace e l-uomo, più ancora degli animali, ne sente la necessità anche perché consuma spesso la vita in una frenetica girandola di fatti e atti, di tensioni e reazioni. Ma sappiamo anche che in tutte le culture il sonno è un simbolo di morte: non per nulla chiamiamo il cimitero con questa parola di genesi greca che significa "il luogo del riposo, del giacere addormentati". Entrare stasera nel sonno potrebbe, perciò, essere l-occasione per riflettere qualche istante sull-approdo della nostra vita e quindi sul senso del nostro continuo agitarci, agire e parlare che consuma le ore del giorno.

Pensare talvolta alla morte è una grande lezione di vita.



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25/01/2011 23:05
 
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La scorza
Gianfranco Ravasi

«Una civiltà non crolla come un edificio; si direbbe molto più esattamente che si svuota a poco a poco della sua sostanza finché non ne resta più che la scorza.
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Sto leggendo un testo di Georges Bernanos (1888-1948) il famoso scrittore cattolico francese. Il titolo è chiaro anche per chi non sa la sua lingua: La France contre les Robots. È un-analisi lucida e severa contro lo "svuotarsi" dell-anima della nostra civiltà. Si tratta di una rivelazione che ai nostri giorni si rivela ancor più catastrofica.

Ormai i "Robots" per noi sono quasi reperti del neolitico; la virtualità ci riduce a larve che comunicano senza parlare, che s-incontrano senza vedersi, che si uniscono senza amarsi. Anche in questo caso mi sembra adatto un passo delle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij che cito a memoria: «La civiltà ha reso l-uomo, se non più sanguinario, in ogni caso più ignobilmente sanguinario di quanto lo fosse un tempo. Ecco, queste parole più che per l-Ottocento in cui sono state scritte valgono per il nostro tempo ben «più ignobilmente sanguinario».

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Ma ciò che colpisce nella considerazione di Bernanos è l-idea di riduzione a scorza, esito infausto a cui va incontro la nostra civiltà soprattutto occidentale. Un-Europa disseccata nelle sue radici spirituali cristiane corre il rischio di rinsecchirsi e ridursi a un tronco arido, con qualche germoglio ma senza la vitalità piena della sua linfa.

L-uomo moderno è sempre più pelle, esteriorità, visibilità e scarsa sostanza; è moda e spettacolo e non più culture e valori; è consumo e trucco ma non più anima, vita spirituale e cuore.



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26/01/2011 14:49
 
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Il quadro e la cornice
Gianfranco Ravasi

Di molte persone si può affermare quanto vale per certi dipinti, cioè che la parte più preziosa è la cornice.
È accaduto a un pittore non certo memorabile che conosco: aveva donato a un'istituzione un suo dipinto racchiuso in una sontuosa cornice antica.
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Una notte giunsero i ladri in quel palazzo: l'indomani i custodi trovarono per terra il quadro, privo di cornice, l'unico bottino considerato (probabilmente a ragione) degno di essere rubato.

Questo evento un po' particolare, che potrebbe trasformarsi in una parabola morale, contiene in sé una lezione valida per tutti; essa è ben formulata nella frase sferzante dello scrittore franco-rumeno Emile Cioran (1911-1995) che oggi abbiamo proposto alla comune riflessione. Ci sono purtroppo nella società contemporanea molte realtà infiocchettate, avvolte in contenitori pregiati il cui prezzo è alto, ma il valore molto basso.

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Ci sono persone il cui apparire è strepitoso, ma la cui sostanza umana e spirituale è pressoché nulla. Impeccabili nel vestire, seducenti nel parlare, talora "scolpiti" da qualche chirurgo plastico per togliersi di dosso la patina del tempo, si sono trasformati quasi esclusivamente in cornice, in addobbo, in apparenza. Gusci dorati, vuoti all'interno; abiti eleganti, sorretti solo da manichini.
Già nel Seicento lo scrittore spagnolo Baltasar Gracián y Morales osservava: «Ci sono individui composti unicamente di facciata, come case non finite per mancanza di quattrini. Hanno l'ingresso degno di un grande palazzo, ma le stanze interne sono paragonabili a squallide capanne».



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26/01/2011 15:04
 
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Il foglio e il punto nero
Gianfranco Ravasi

Un maestro indù mostrò un giorno ai suoi discepoli un foglio di carta con un punto nero nel mezzo. «Che cosa vedete?», chiese. «Un punto nero!» risposero. «Nessuno di voi è stato capace di vedere il grande spazio bianco!», replicò il maestro.
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È questa la legge che fa riempire di cronaca nera i giornali e le televisioni: un solo delitto ha più peso di mille atti di generosità e d'amore, secondo i parametri dell'informazione.

Anche noi siamo pronti a cogliere la pagliuzza nell'occhio dell'altro e ignoriamo la luminosità sorridente di tanti sguardi. È normale elencare tutte le amarezze dell'esistenza e ignorare la quiete e le gioie che pure accompagnano la maggior parte dei nostri giorni. Il nostro pensiero si fissa con più facilità sui punti neri del cielo della storia che non sulle distese di azzurro e di luce. Certo, non si deve essere così ottimisti o ingenui da ignorare il male che pure costella le vicende umane, ma non è giusto considerare come marginali la meraviglia delle albe e dei tramonti, lo stupore del sorriso dei bambini, il fascino dell'intelligenza, il calore dell'amore. Il sì è più forte del no.

E in questa linea vorremmo aggiungere un'altra nota. Ce la offre Pirandello nel suo dramma Il piacere dell'onestà (1918) quando il protagonista dichiara: «È molto più facile essere un eroe che un galantuomo. Eroi si può essere una volta tanto; galantuomini si dev'essere sempre».

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Anche nel bene può, quindi, vigere la stessa legge: il punto più luminoso dell'eroismo attira tutta l'attenzione, facendo dimenticare che è ben più mirabile il tenue filo di luce che percorre tutte le giornate di un genitore dedicato alla sua famiglia, forse con un figlio disabile.

C'è un eroismo quotidiano che non fa suonare le trombe davanti a sé, ma che ha in sé una grandezza ben più gloriosa.



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26/01/2011 15:22
 
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Elogio al dubbio
Gianfranco Ravasi

Se un uomo parte da certezze, terminerà con i dubbi; ma se si contenta di comunicare coi dubbi, terminerà con certezze.Nella festa dell-apostolo Tommaso, vorrei spezzare una lancia a favore del dubbio: dopo tutto, Gesù concede al discepolo dubbioso una possibilità d-appello, pur lodando la fede pura e totale.
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Certo, sul dubbio si possono dire tante cose negative: crea inerzie, genera scetticismo, rende ansiosa e gretta la vita, offende il prossimo, scoraggia l-esistenza stessa. Tuttavia c-è un aspetto positivo. Ce lo insegna il filosofo inglese Francesco Bacone (1561-1626) nella frase citata. È facile, infatti, incontrare persone dalle certezze così adamantine da rasentare il fondamentalismo e da svelare il veleno dell-assolutismo intollerante.

Un altro sapiente, contemporaneo di Bacone, il francese Montaigne, osservava che «il molto sapere porta l-occasione di più dubitare». Chi ha una vasta conoscenza vede, infatti, la complessità della realtà ed è molto più attento a evitare l-arroganza definitoria, la convinzione dell-essere detentore di tutta la verità.
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È quest-ultimo lo stile del confronto dei nostri giorni ove ognuno è convinto di stringere tra le mani la verità solo perché ha imparato qualcosa o semplicemente perché ha la voce più grossa.
Un po- di sano dubbio, di esitazione, di cautela, di rispetto non potrebbe che essergli benefico. Uno solo può vedere e tenere insieme con un unico sguardo tutta la verità con le sue infinite facce che la rendono simile a un diamante.

E costui è Dio.



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26/01/2011 16:57
 
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Una sola orma
Gianfranco Ravasi

Ho sognato di camminare in riva al mare col Signore e rivedevo sullo schermo del cielo tutti i giorni della mia vita passata. Per ogni giorno trascorso apparivano sulla sabbia due orme: la mia e quella del Signore. Ma in alcuni tratti ho visto una sola orma, proprio nei giorni più difficili della mia vita.
Allora ho detto: «Signore, tu mi avevi promesso di essere sempre con me. Perché mi hai lasciato solo proprio nei momenti più difficili?» Ed egli mi rispose: «Figlio, io non ti ho mai abbandonato: i giorni nei quali c-era una sola orma sulla sabbia erano proprio quelli in cui ti ho portato in braccio».

Qualche mese fa alla Messa per la moglie morta di un mio amico fu letta questa sorta di parabola, attribuita di solito a un "anonimo brasiliano". In quel momento diventava quasi come il suo testamento di fiducia, lasciato al marito e ai figli ai quali sembrava di essere soli nel cammino della vita, senza la presenza di quel Dio che in altri giorni li aveva accompagnati.

La sofferenza ha, certo, un volto oscuro, fin mostruoso. Eppure è - come tutti i misteri - indefinibile con un-unica immagine. Può essere anche sorgente di purificazione, può farti riscoprire i veri valori, cancellare le illusioni, renderti più umile e umano. Ma soprattutto può far balenare il volto stesso di Dio: è ciò che, in ultima analisi, insegna il libro di Giobbe che, solo percorrendo la galleria oscura del dolore, incontra il vero Dio («Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono!»).

È per questo che il giorno del dolore è anche il momento della grande scelta: o per la bestemmia, l-apostasia, la disperazione o per la scoperta viva, autentica, intensa del Dio che ti prende in braccio.



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26/01/2011 17:36
 
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La coerenza
Gianfranco Ravasi

Bisogna vivere come si pensa, altrimenti si finirà per pensare come si è vissuto.
È bella questa frase dello scrittore francese Paul Bourget (1852-1935) che, dopo una fase "laica", passò a un cattolicesimo fin rigido. La sua, comunque, è una considerazione facilmente dimostrabile: quante volte, dopo aver ceduto sui princìpi e aver costruito una vita tutt-altro che immacolata, si riesce piano piano a giustificarsi e a «chiamare bene il male e male il bene, a cambiare le tenebre in luce e la luce in tenebre, l-amaro in dolce e il dolce in amaro», come già denunciava il profeta Isaia (5, 20).

Questo spunto di Bourget spinge dunque a una riflessione sulla coerenza. Ricordo una battuta di don Lorenzo Milani nelle sue Esperienze pastorali: «Un atto coerente isolato è la più grande incoerenza». È paradossale, ma rischia di essere vero. Molti credono di salvarsi la faccia presso Dio e presso gli uomini perché compiono un atto isolato, nobile e coerente con la morale e, se credenti, con la loro fede.

Questo atto, invece, si ritorce contro di loro perché "incoerente" con un-esistenza votata al compromesso, al vantaggio immediato, all-accomodamento meschino. Non è un gesto, pur forte, che ti rende onesto, ma una scelta costante di vita che evidentemente è ben più impegnativa e costosa. Purtroppo ai nostri giorni il cambiar idea secondo l-utilità è un esercizio frequente e l-incoerenza è ormai segno di creatività.

Già Torquato Tasso nella Gerusalemme liberata ammoniva che «nel mondo mutabile e leggero, costanza è spesso il variar pensiero» (V, 3).



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26/01/2011 19:26
 
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La Casa
Gianfranco Ravasi

La casa è l-uomo; ovvero «dimmi come abiti e ti dirò chi sei-»
Questo e non altro è, nella sua ragione più profonda, la casa: una proiezione dell-io; e l-arredamento non è che una forma indiretta di culto dell-io.
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Lo scrittore francese Victor Hugo affermava: «Dalla conchiglia si può capire il mollusco, dalla casa l-inquilino». Questa idea è sviluppata dal critico Mario Praz (1896-1982), nel saggio La filosofia dell-arredamento.
Da quest-opera abbiamo estratto alcune righe per fare due riflessioni molto semplici. La prima è scontata: il cattivo gusto non ha limiti e le case di certi arricchiti ne sono la testimonianza parlante.

Ma anche gli appartamenti delle persone semplici, col crescere impetuoso della volgarità e dei luoghi comuni pubblicitari, sono altrettanto squallidi non a causa degli eventuali arredi poveri bensì per gli oggetti brutti (magari anche costosi) che li popolano. Ricordo le case modeste della mia infanzia in campagna: quanta nobiltà avevano quei canterani e quelle madie! Quanto affascinanti erano i camini con la batteria degli utensili di rame! Come può un ragazzo avere gusto quando vive in spazi tristi e volgari?

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È anche per questo che non si ha più nessun rispetto per le città: i palazzi storici sfregiati da graffiti sono il simbolo della bruttura che è penetrata nel cuore e nella mente.
Inoltre, chi non ha casa non può esprimere se stesso e così vive umiliato. Le giovani coppie che non possono sposarsi per carenza di alloggi economicamente accessibili sono emblema di un disagio profondo e sono un-offesa alla dignità della persona.



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26/01/2011 19:36
 
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Cercare e trovare
Gianfranco Ravasi

Un uomo gira tutto il mondo in cerca di quello che gli occorre, poi torna a casa e là lo trova.

Dall-Irlanda, ove ora vive, una conoscente milanese mi manda un libro curioso intitolato The brook Kerith, cioè "il torrente Kerith", scritto dall-autore irlandese George Moore (1852-1933): il torrente Kerith è l-affluente del Giordano presso il quale si trova il profeta Elia quando viene investito dalla missione divina, alle cui acque egli beveva mentre dei corvi «gli portavano pane al mattino e carne alla sera» (1 Re 17, 5-6).

Sfogliando il libro m-imbatto nella frase che oggi propongo come spunto di riflessione.È vero: spesso noi ci agitiamo alla ricerca della felicità, della verità, della quiete; talora ci inoltriamo in regioni esotiche e remote non solo geograficamente ma anche spiritualmente e non ci accorgiamo che ciò che ansiosamente cercavamo era accanto a noi, nella persona che amiamo, nel luogo quotidiano della nostra esistenza.

Forse aveva ragione il pittore Picasso quando confessava: «Io non cerco, trovo». La grazia ci precede attendendoci nei luoghi più semplici; basta aver occhi puri per riconoscerla. Ma una volta trovata la verità o l-amore o la gioia, non finisce la nostra avventura. Anzi, è proprio allora che comincia. Mi è sempre piaciuta una battuta dello scrittore e regista francese Jean Cocteau, amico di Picasso: «Prima trovare. Poi cercare». La vera ricerca inizia quando si è trovato.

È questa la caratteristica anche della fede che è viaggio sempre vivo, di luce in luce, nell-infinito e nel divino che ci ha avvolti.



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[Modificato da Bestion. 26/01/2011 19:38]
26/01/2011 20:36
 
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Il chiodo che trafigge
Gianfranco Ravasi

Bisogna sapere che l-amore è un orientamento e non uno stato d-animo.

Beato colui che riesce a tenere la propria anima orientata a Dio mentre un chiodo lo trafigge. Così scriveva Simone Weil (1909-1943), straordinaria testimone di una ricerca che la condusse a Cristo, pur rimanendo sempre radicata nell-ebraismo delle sue origini e nella libertà dei suoi percorsi. È significativa questa definizione dell-amore come "orientamento" e non come semplice "stato d-animo". L-amore autentico non è mai quiete paludosa, ma continuo pellegrinaggio verso un oltre, fino a tendere verso l-Oltre per eccellenza, cioè l-Infinito di Dio.

Non per nulla l-immagine che lo stesso Cantico dei cantici usa per descrivere l-amore è "la fiamma divina" (8, 6), cioè un fuoco inestinguibile come quello che sprizzava dal roveto del Sinai ove era simbolo di Dio stesso (Esodo 3, 2). In questa esperienza, però, l-uomo e la donna sono trafitti e bloccati da un chiodo che li vincola alla terra e alla staticità. Sono molteplici gli avversari dell-amore, dall-egoismo alla smania di possesso, dal gelo interiore alla passione cieca. Sono veri e propri "chiodi" che impediscono il volo dell-anima che ama.
Un amore che vivacchia sempre uguale rivela che esso è trafitto da qualche spina capace di impedirgli l-orientamento verso l-alto. Tutto questo vale per l-amore coniugale, per l-amicizia e per la stessa spiritualità. Sant-Agostino nelle sue Confessioni afferma che «l-amore uccide ciò che siamo stati perché si possa essere ciò che non eravamo».

Amando si va sempre oltre il passato per diventare creature nuove che raggiungono le mete considerate impossibili.



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26/01/2011 21:50
 
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L'intelletto
Gianfranco Ravasi

Siamo in un mondo in agonia che Dio sta forse accecando per castigarlo di aver troppo e troppo male usato dell-intelletto, oppure di non averne fatto parte agli infelici.

Uscì nel 1958 e suscitò molte polemiche ecclesiali, ma Esperienze pastorali di don Lorenzo Milani (1923-1967) rimane un testo di grande passione, per la Chiesa e per l-umanità. Ne scorporo una frase che esprime una tesi cara all-autore: prima ancora di condividere il pane coi poveri, con gli emarginati, gli ultimi della società, è necessario spezzare con loro il pane della conoscenza, della formazione, dell-intelletto.

Troppi nella storia si sono accaparrati l-istruzione, le competenze, la scienza per fini egoistici, col desiderio di perpetuare ingiustizie ormai secolari. Dio li ha accecati, dice don Lorenzo, implicitamente evocando il monito severo di Paolo in apertura alla Lettera ai Romani, allorché l-Apostolo denuncia l-uso perverso della ragione, «vaneggiando nei ragionamenti e ottenebrando la mente». Così gli uomini orgogliosi del loro sapere, «mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti» e la condanna divina è quella di «abbandonarli ai desideri del loro cuore», facendo sì che nella loro intelligenza perversa trovassero anche la loro punizione (1, 21-26).
È la storia di una scienza impazzita che giunge sino all-autolesionismo. È la vicenda di una conoscenza negata per interesse a interi popoli, è lo sbocco di un egoismo intellettuale privo di scrupoli e di amore.

Per questo, insegnare, educare, formare in modo serio e aperto a tutti non è solo una missione sociale ma è anche un atto religioso di giustizia e di carità.



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27/01/2011 20:07
 
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Vigna immutabile
Gianfranco Ravasi

Tu verrai al mio Desco/ e io ti benedirò con un pasto gustoso/ al quale l-angelo stesso avrà solo assistito,/ e berrai il Vino della Vigna immutabile/ la cui forza, dolcezza e bontà/ faranno germogliare all-immortalità il tuo sangue.

Abbiamo già incontrato altre volte il poeta Paul Verlaine (1844-1896), un uomo sospeso tra l-abisso del male e il cielo di Dio. Vogliamo celebrare l-odierna solennità del Corpo e del Sangue del Signore con alcuni versi desunti dalla sua raccolta Saggezza. Sono parole intense che ben illustrano i momenti mistici vissuti da quel poeta che scopriva in Dio una "follia di amore".
L-elemento significativo nella sua contemplazione dell-eucaristia è in quel verso finale in cui il nostro sangue, alimentato dal «Vino della Vigna immutabile», viene fatto «germogliare all-immortalità».

È, questo, il messaggio stesso di Cristo, quando all-interno della sinagoga di Cafarnao pronuncia quelle parole che susciteranno scandalo: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell-ultimo giorno» (Giovanni 6, 54).
La comunione tra Dio e la sua creatura fa sì che quest-ultima sia attratta dalla natura stessa divina che è eterna e, così, il fedele passa dalla morte alla vita, dal suo limite temporale all-immortalità e alla perfezione. Per questo, ogni incontro con Cristo nell-eucaristia è l-anticipazione di quel giorno senza tramonto, è la pregustazione di quell-esperienza di infinito che ci attende oltre la soglia della morte.

Il cristiano ripete la certezza che il filosofo Spinoza aveva raggiunto per altra via:
«Sentiamo e sappiamo di essere eterni».



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28/01/2011 14:21
 
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La teologia secondo il Doctor Angelicus


“Trionfo di san Tommaso d'Aquino" - Benozzo Gozzoli (1470-1475) - Louvre, Parigi
«Noi possiamo denominare Dio a partire dalle creature, ma non in modo
tale che il nome che lo significa esprima la sua essenza così com'essa è.
Noi diciamo che Dio non ha nome o sta al di sopra di qualsivoglia
nome dal momento che la sua essenza oltrepassa ciò che di Dio

possiamo comprendere con l'intelletto o significare con la voce»




In adorazione
discorrendo sull'essere

di Inos Biffi

Nelle attuali ricerche o, come si dice, nel dialogo sul monoteismo - riguardo al quale la fede cattolica professa l'esistenza di un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo - è diffusa la discussione sull'essenza di Dio e sulla possibilità di nominarlo e quindi sul valore dei nomi che vengano attribuiti. Quanto alla denominazione di Dio: parrebbe che nessun nome gli convenga e che nessuna idea ci si possa fare di lui, a motivo della sua trascendenza assolutamente inarrivabile e inattingibile e quindi inconcepibile dalla conoscenza umana, pena la sua riduzione ai confini e quindi ai limiti umani. Ed è come dire che di Dio non si può avere nessun concetto e che ogni concetto a suo riguardo sia destinato a essere equivoco: di Dio non si può parlare, ma solo tacere.

Ma, se questo fosse vero, la conseguenza sarebbe un'assoluta teoria dell'ateismo, nel senso che qualsiasi tentativo di raggiungere Dio sarebbe destinato al fallimento, e la stessa Rivelazione risulterebbe vana e impossibile, per l'impotenza e l'improprietà di ogni concetto o "immagine" a riferirsi a Dio. San Tommaso ha riflettuto acutamente e ampiamente sui "Nomi di Dio", sia nel Commento al De divinis nominibus dello Pseudodionigi - uno dei testi più luminosi e vibranti dell'Angelico - sia in altre sue opere, tra cui la vasta e analitica questione 13 della Summa theologiae.

In queste ultime possiamo notare come programmatica, l'affermazione: "Noi possiamo denominare Dio a partire dalle creature, ma non in modo tale che il nome che lo significa (nomen significans ipsum) esprima la sua essenza così com'essa è (exprimat divinam essentiam secundum quod est)" (Summa theologiae, i, 13, 1, c.). Noi diciamo che "Dio non ha nome o sta al di sopra di qualsivoglia nome dal momento che la sua essenza oltrepassa ciò che di Dio possiamo comprendere con l'intelletto o significare con la voce" (Ea ratione dicitur Deus non habere nomen, vel essere supra nominationem, quia essentia eius et supra id quod de Deo intelligimus et voce significamus, ibidem, 1m).
Non ci è noto il modo di essere di Dio, ma solo il suo riflettersi in modo imperfetto nelle creature: "Così com'è, il nostro intelletto, in questa vita, non lo conosce" (intellectus noster non cognoscit eum ut est, secundum hanc vitam, ibidem, 2m). Infatti, "in questa vita noi lo conosciamo secondo quello che di lui si trova rappresentato nelle perfezioni delle creature" (ibidem, c.). L'affermazione è ripetuta: nessun nome è in grado di esprimere perfettamente quello che Dio è (quod est Deus perfecte): "Qualsiasi nome lo significa in modo imperfetto, così come in modo imperfetto egli si trova rappresentato nelle creature" (unumquodque [nomen] imperfecte eum significat, sicut et creaturae imperfecte eum repraesentant, ibidem, 2, 1m).

In altre parole, bisogna distinguere tra "perfezioni significate" (perfectiones ipsae significatae) e "modo di significare" (modus significandi, ibidem, 3, c.). Quanto alle "perfezioni" significate alcuni nomi convengono a Dio in senso proprio, anzi, valgono primariamente per lui - come i nomi indicanti vita, bontà, sapienza, e così via; quanto invece al "modo di significare" non gli convengono in senso proprio: noi conosciamo solo il modo con cui tali perfezioni si ritrovano e si predicano nelle creature, mentre ignoriamo "come" esse si trovino in Dio, come siano in lui la vita, la bontà, la sapienza. In conclusione: noi non siamo in grado di oltrepassare lo schermo, il prisma creaturale per collocarci all'interno di Dio, evadendo lo spazio del mondo creato.

D'altronde in san Tommaso sono chiare due convinzioni.
La prima convinzione è che "di Dio non possiamo sapere quello che è, ma quello che non è; non siamo in grado di riflettere su come Dio sia, ma piuttosto su come non sia" (De Deo scire non possumus quid sit, sed quid non sit; non possumus considerare de Deo quomodo sit, sed potius quomodo non sit, Summa theologiae, i, 3, introduzione). Dio - ed è il pensiero di Agostino nel De verbis Domini (38, 2, 3) - "non può essere alla portata del nostro intelletto, ma il modo più perfetto di conoscerlo nello stato presente sta nel conoscere che egli è superiore a tutto ciò che il nostro intelletto è capace di concepire, per cui ci uniamo a lui come a uno sconosciuto" (Ipse non potest esse pervius intellectui nostro; sed in hoc eum perfectissime cognoscimus in statu viae quod scimus eum esse super omne id quod intellectus noster concipere potest; et sic ei quasi ignoto conjungimur, In iv Sententiarum, 49, 2, 1, 3m). Anche se la Rivelazione ci ha fatto senza dubbio conoscere Dio più pienamente (plenius), manifestandoci perfezioni e proprietà ignote alla "ragione naturale" (ratio naturalis) - si pensi al suo essere uno e trino.
Con tutto questo, la seconda convinzione di san Tommaso è che l'impossibilità di conoscere Dio univocamente, cioè nella sua essenza, non rende equivoco il nostro parlare di lui, ma lo rende analogico, inadeguato sì, ma vero e provveduto di sen- so (analogice, et non equivoce pure, neque univoce, Summa theologiae, i, 13, 5, c).

Lo pensano alcuni filosofi che, dopo aver sostenuto vanamente che il Dottor Angelico includeva Dio nell'àmbito degli enti, adesso fraintendono la dottrina sull'assoluta trascendenza divina, giungendo a concepire l'ineffabilità di Dio come una equivocità e a parlare di non-Essere di Dio. Senza dire che una logica alternativa alla conoscenza analogica dovrebbe essere un completo silenzio su Dio, o una teologia totalmente "negativa". Che Tommaso rifiuta per affermare che "Dio si onora sì con il silenzio, non perché non si dica o non si conosca nulla di lui, ma perché, qualsiasi cosa impariamo o conosciamo di lui, ci rendiamo conto che la nostra intellezione ha fallito" (Deus honoratur silentio, non quod nihil de ipso dicatur vel inquiratur, sed quia quidquid de ipso discamus vel inquiramus, intelligimus nos ab eius comprehensione defecisse, Super Boetium de Trinitate, 2, 1, 6m): Dio sta sempre, inarrivabilmente, di là; imprendibile e impercorribile.

È la prospettiva anselmiana: Dio è il sempre "Oltre", Colui che non è disposto nella serie, neppure come il primo e il più alto, perché sta nella inconcepibilità (quo magis cogitari nequit). La teologia di Tommaso nasce dall'incessante e gioioso desiderio di comprendere Dio: desiderio che tiene vigile e impegnata la ricerca, che la nutre di speranza, in attesa della visione. Un ultimo rilievo sul Nome divino che ha incantato l'Angelico, quello di Essere. In Dio - egli ripete - l'essenza e l'essere coincidono; "la sua essenza è il suo essere (essentia eius est suum esse)", e questo significa che egli è l'Atto puro e Perfezione illimite. Lasciando trasparire una profonda, anche se come sempre contenuta, emozione, Tommaso definirà la coincidenza tra l'essere e l'essenza di Dio una "Verità sublime" (Haec sublimis veritas, Summa contra Gentiles, i, 22, n. 10), ampiamente dimostrata con la ragione e insieme rivelata a Mosè, il quale la imparò da Dio, quando alla sua domanda si sentì rispondere che il suo nome è "Colui che è".
Qualcuno confonde il puro Essere di Dio con la staticità o una distaccata mancanza di sentimenti, per cui sente il bisogno di definirlo come essenzialmente relativo alla creatura, dotato a sua volta di mobili sentimenti, in tal modo concependo Dio a immagine dell'uomo.

È vero invece che, se Dio è l'Essere, non lo è nel modo in cui noi abbiamo l'esperienza dell'essere: egli non "è", come "siamo" noi, bensì è in modo tutto proprio, che lui solo conosce e che a noi sfugge, legati tuttora come siamo alle insuperabili restrizioni di creature. Ma ciò non produce tristezza o risentimento; al contrario genera stupore e incontenibile ammirazione, o una specie di confusione che si risolve in adorazione, che diventa sconfinata e si confonde al pensiero che Dio in ogni istante, dal nostro intimo, ci comunica il dono dell'essere che ci fa esistere. Non è necessario aggiungere la preghiera alla teologia o anche alla filosofia dell'essere: esse sono oranti per natura loro.



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28/01/2011 22:05
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Ignorante e pazzo
Gianfranco Ravasi

Il fedele deve scegliere il Cristo povero piuttosto che la ricchezza, l-obbrobrio col Cristo piuttosto che gli onori, essere considerato ignorante e pazzo per il Cristo, che per primo è stato chiamato tale, piuttosto che essere giudicato in questo mondo saggio e prudente.

Il 31 luglio 1556 moriva a Roma sant-Ignazio di Loyola, il fondatore dei Gesuiti, dopo un-esistenza particolarmente intensa. Essa era iniziata appunto a Loyola, nella regione basca della Spagna, nel 1491; aveva conosciuto anche l-esperienza della guerra come cavaliere e da ferito, ma era approdato a un-illuminazione spirituale che il libro degli Esercizi Spirituali, redatto nel 1541, testimonia in modo altissimo.

È appunto da quest-opera che oggi abbiamo attinto, un-opera che ha impressionato anche tanti spiriti "laici" e che ha formato intere generazioni di credenti.Le righe da noi citate evocano un passo altrettanto radicale di san Paolo che ai Corinzi, tentati dal fascino della cultura greca e dalla sicurezza dei segni miracolosi proposti dal giudaismo, presenta la croce di Cristo, «scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani», eppure «potenza e sapienza di Dio» (I, 1, 22-24).

È per questo che Ignazio, come l-Apostolo, s-avvia sulla strada ardua e stretta della povertà, dell-obbrobrio, della follia respingendo ogni compromesso con la ricchezza, gli onori, l-astuzia del mondo. È ancora Paolo a spezzare per primo il facile equilibrio che si illude di salvare egoismo e amore, distacco e possesso, umiltà e successo:
«Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, ciò che è ignobile, disprezzato e nulla per ridurre a nulla le cose che sono» (I, 1, 27-28).



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30/01/2011 13:34
 
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Parola e silenzio
Gianfranco Ravasi

Restiamo in silenzio!
La parola può grandi cose, ma vi sono cose ancor più grandi! La verità vera fra due esseri umani è inesprimibile. Appena ci mettiamo a parlare le porte si chiudono; la parola serve piuttosto a comunicare fatti irreali, si parla nelle ore in cui non si vive.

È una riflessione necessaria questa che ci viene proposta dallo scrittore austriaco Robert Musil (1880-1942) nel suo celebre romanzo Uomo senza qualità. È necessaria questa considerazione proprio alle soglie delle ferie, quando si entra in un orizzonte diverso e che, purtroppo, si corre il rischio di omologare al resto dell'anno: ad esempio, la Rimini estiva in che cosa si distingue da una fracassona e frenetica città di lavoro?

Nelle righe di Musil ci sono due elementi significativi.Da un lato, si riconosce il mistero di ogni persona: c'è qualcosa nel fondo intimo di noi che rimane inesprimibile. Anzi, il più delle volte queste sono le cose più importanti ed è solo nel silenzio che noi le scopriamo e le comunichiamo. D'altro lato, si ha la convinzione che la parola, dono straordinario dell'umanità, è di sua natura rischiosa: può essere una sosta di nebbia che vela anziché svelare, può essere un veicolo di menzogna più che uno strumento di verità e di comunicazione.

«Il resto è silenzio», dice l'Amleto di Shakespeare, ed è in questo spazio, da noi sempre più ridotto e semplificato, che si nasconde l'energia per vivere e per dire parole che abbiano senso e verità e che non siano soltanto un suono vuoto, destinato a colmare artificiosamente il vuoto interiore.



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30/01/2011 22:11
 
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La lite
Gianfranco Ravasi

Due eremiti vissero insieme per molti anni e non litigarono mai.
Disse un giorno uno all-altro: «Litighiamo anche noi, come fanno gli altri uomini!». E quello rispose: «Come si fa?». Il primo disse: «Ecco, io metto in mezzo una brocca e dico: È mia! E tu dici: È mia! È così che comincia una lite». Misero, dunque, nel mezzo una brocca e uno disse all-altro: «È mia!». E l-altro: «Se è tua, prendila e va- pure!». E, così, non trovarono il modo di litigare.

Dalla raccolta dei detti dei padri del deserto egiziano curata dal francese F. Nau nel 1907 citiamo questa bella parabola che si risolve in una feroce critica della nostra società così litigiosa e prepotente.
La lezione è semplice: alla base dell-odio c-è spesso la smania di possesso, la violenza sboccia dalla rapina, la prevaricazione si alimenta con la pretesa di avere sempre di più. Il distacco, allora, è il grande antidoto, secondo l-insegnamento costante di Cristo che nella ricchezza senza freni vedeva l-incarnazione dell-idolatria.
Certo, il distacco dalle cose e dal denaro è faticoso.

Si legge ancora nei racconti di quegli eremiti: «Un senatore aveva rinunciato al mondo e aveva distribuito i beni ai poveri, ma si era tenuto quanto era necessario per non essere troppo umiliato. San Basilio, allora, gli disse: Hai perduto la dignità di senatore ma non sei diventato monaco».
L-attaccamento era sottilmente rimasto in vita, pronto a crescere.

Eppure è solo per la via del distacco che si prova il sapore della pace e della gioia perché «vi è più gioia nel dare che nel ricevere» (Atti 20, 35).



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31/01/2011 10:52
 
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La forza delle idee
Gianfranco Ravasi

Non ho più idee. Devo averle gettate via insieme alle ideologie.

La citazione da cui partiamo oggi è così breve perché nasce da una vignetta folgorante di Altan, il noto disegnatore che ha creato l'ormai mitico operaio Cipputi e la sua interlocutrice Pimpa. Riesco a comprendere e a condividere la sua amara considerazione perché sono coetaneo di questo vignettista e, quindi, ho anch'io assistito a quello che si usava celebrare come il funerale delle ideologie.
Esse, in verità, si erano ridotte a essere armamentari rigidi, a modelli socio-politici sclerotici e persino a concezioni filosofiche o spirituali frigide e incapaci di illuminare le menti e le coscienze.

Ma prima o poi ci si è accorti che, assieme alle ideologie, si sono sotterrate anche le idee. Non parliamo della politica di oggi che confonde gli slogan col pensiero, ma anche la cultura non scherza, affidata com'è a stanchi luoghi comuni e a stantie ripetizioni. Il grande Pascal non aveva dubbi quando scriveva, nei suoi Pensieri, che «lavorare a pensare bene è il principio della morale». E con acutezza continuava a combattere «due eccessi: escludere la ragione, non ammettere che la ragione».

È, questa, la vera sapienza che non si nutre solo di fredda intelligenza, capace anche di costruire i mostri ideologici, ma si alimenta di una conoscenza saporosa, globale, pronta a inoltrarsi anche nelle regioni ardue delle domande ultime sulla vita e sulla morte, sul dolore e sull'amore, sul vero e sul falso. Le ideologie sono idee fisse e aveva ragione il filosofo dell'Ottocento Kierkegaard quando le comparava ai crampi ai piedi «il cui rimedio migliore è camminarci sopra». Ma senza idee vive e vere si diventa vuoti, incapaci di trovare un senso nella vita, corpi che camminano e non persone che cercano e scoprono, amano e giudicano, vivono e non sopravvivono.

«Si resiste all'invasione degli eserciti - scriveva Victor Hugo - ma non alla forza delle idee».



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31/01/2011 11:59
 
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Come? Perché?
Gianfranco Ravasi

E non cessiamo di interrogarci / ancora e ancora, / finché una manciata di terra / ci chiude la bocca- / Ma questa è una risposta?

Terribili questi versi del Lazzaro di Heinrich Heine (1797-1856), famoso poeta e scrittore tedesco. Nonostante la superficialità che la sommerge nella civiltà contemporanea, l'anima custodisce i fremiti di alcune domande fondamentali: che senso ha la vita? Perché il dolore? E il male? Quale meta ha la nostra storia e questo mondo? Esiste un Dio che ti ascolta? E oltre la morte? Interrogativi che si affollano alla mente e che talora esplodono drammaticamente nei momenti più ardui della vita. Anche per la cultura, la scienza, la società la chiave di volta è il punto di domanda; le scoperte hanno alla radice il «come?» o il «perché?».

Spesso, dunque, troviamo risposte, ma altre volte ci sembra che il nostro interrogarci salga verso l'alto e si spenga, soprattutto quando siamo nel giorno della disperazione. È ciò che afferma Heine, ma anche molti altri nostri compagni di viaggio nel mondo. La manciata di terra gettata sul nostro viso nella sepoltura sembra spegnere per sempre le nostre domande. Ma è proprio così? Già durante la nostra vita, aveva forse ragione lo scrittore inglese Clive Staples Lewis, quando affermava: «Spesso diciamo che Dio non risponde alle nostre domande; in realtà siamo noi che non ascoltiamo le sue risposte».

Inoltre, anche in quell'estremo istante, c'è un orizzonte che si apre oltre la pala del becchino e che è destinato a rivelarci una risposta decisiva. Là, infatti, come diceva il poeta Rainer Maria Rilke, c'è l'altra faccia della vita rispetto a quella rivolta verso di noi ora. Là potremo, allora, avere le parole definitive di Dio in modo diretto, perché lo vedremo faccia a faccia, noi parleremo con lui e lui con noi ed egli ci dirà:

«Interrogami pure e io risponderò, oppure domanderò io e tu ribatterai» (Giobbe 13,22).



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