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La presenza di Dio

Ultimo Aggiornamento: 12/06/2020 09:44
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10/02/2011 11:02
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Semplicità e grandezza
Gianfranco Ravasi

Noi siamo avvezzi a stimare solo ciò che è confuso./ Con falsa passione nei nodi ingarbugliati/ cerchiamo sottigliezze, ritenendo impossibile/ congiungere nell-anima semplicità e grandezza./ Ma sono meschine, ruvide e smorte le cose complesse;/ e l-anima sottile è semplice come questo filo.

Il filo è quello della ragnatela, che dà il titolo a questa bellissima poesia di Zinaida Gippius (1869-1945), poetessa vissuta prima a S. Pietroburgo e poi a Parigi ove morì in solitudine e miseria. Forte è la tentazione di ritenere l-oscurità segno di profondità, la complessità incomprensibile del pensiero espressione di grandezza mentale.
Pensiamo anche a certi scritti teologici del tutto illeggibili, quasi tronfi del loro esoterismo invalicabile al volgo «che non conosce la Legge ed è maledetto» (Giovanni 7, 49), come arrogantemente replicavano i sacerdoti e i farisei d-un tempo.

Certo, esistono realtà complesse che richiedono scavo e approfondimento, ma il vero genio sa sempre coniugare profondità e limpidezza, "semplicità e grandezza".La questione sollevata dai versi citati tocca anche le vicende personali, Ci sono, infatti, alcuni che aggrovigliano a dismisura i loro problemi rimanendone inesorabilmente invischiati. Si tormentano in scrupoli infondati, complicano le relazioni, ritengono di non essere capiti perché il giudizio oggettivo esterno tenta di dipanare le loro contorsioni.

Ebbene, «l-anima sottile è semplice», la purezza è trasparente, la serenità interiore è solare, la semplicità è divina. Chiedere a Dio un cuore di bambino vuol dire soprattutto questo: avere un-anima nitida e lineare.



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10/02/2011 13:08
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


I tre volti
Gianfranco Ravasi

In ciascuno di noi ci sono tre persone: quella che vedono gli altri; quella che vediamo noi; quella che vede Dio.

Quella che oggi propongo è solo una scheggia di pensiero, offerta da uno straordinario personaggio spagnolo, il filosofo e scrittore Miguel de Unamuno (1864-1936). A Salamanca, qualche tempo fa, visitai la sua residenza ove ancora respirava la sua presenza, il suo sapere e la testimonianza della sua ricerca interiore.
Questa sua riflessione era già stata anticipata in un certo senso da Alessandro Manzoni quando definiva il cuore umano «un guazzabuglio».

In noi si muovono figure persino antitetiche tra loro, come già confessava san Paolo, sentendosi dilaniato: «Nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un'altra legge che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato» (Romani 7, 22-23). C'è un volto che indossiamo il mattino quando usciamo nella vita quotidiana; è il più possibile agghindato e presentabile, consapevoli come siamo che nell'odierna società l'apparire è tutto. Un altro grande spagnolo, il poeta cinquecentesco Góngora, gridava: «Ahi, ambizione umana, cauto pavone dai cento occhi!».

A sera, però, nella solitudine ritrovata, se fissiamo lo sguardo in quel «guazzabuglio» che è la nostra coscienza, vediamo impietosamente la verità di un altro volto, segnato da vergogna, miserie e inganni. Proprio per questo sono pochi quelli che osano affacciarsi sul loro io, guardandosi nello specchio dell'anima. Ecco, allora, il giudizio divino, il cui occhio - come dice la Bibbia - penetra fin nell'oscurità dei reni e delle viscere.

Questo sguardo ci segue, anche se ignorato, ed è là che è riflesso il nostro vero volto.



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10/02/2011 14:34
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Vedere le cose
Gianfranco Ravasi

Sospetto che il bambino colga il suo primo fiore con una percezione della sua bellezza e del suo significato che il futuro botanico non conserverà mai più.

Così annotava nel suo diario, il 5 febbraio 1852, lo scrittore americano Henry David Thoreau. Devo confessare di essere sempre conquistato dal modo di giocare di un bambino: prima che sia pervertito dalla playstation e dai giochi elettronici, egli si accosta a un oggetto con una sorprendente girandola di gesti, di movimenti, di sguardi.
Egli compie veramente l'atto primordiale dell'affacciarsi sul mondo con meraviglia per scoprirne le meraviglie («il mondo perirà per mancanza di meraviglia, non di meraviglie», osservava acutamente lo scrittore inglese Chesterton).

È ciò che noi, frettolosi consumatori di tecnologia, non proviamo più. Siamo forse capaci di «vedere un mondo in un granello di sabbia, e un cielo in un fiore selvaggio, l'infinito in un palmo di mano e l'eternità in un'ora?», come cantava il poeta inglese William Blake? Il botanico non ha più nulla dello stupore del bambino davanti al fiore, alla sua corolla, ai suoi colori. Egli classifica, cataloga, notomizza, disseziona, verifica, esamina, ma non riesce più a godere il fascino della bellezza. Il poeta irlandese contemporaneo - sono i veri poeti i grandi maestri della contemplazione - Seamus Heaney, Nobel 1995, ha intitolato una sua raccolta Seeing Things.

Sì, abbiamo bisogno di ritornare a «vedere le cose», anzi - come sottintende la frase inglese - ad «avere la visione» profonda della realtà, dei volti, degli oggetti, dei segni, dei colori, della vita. E per far questo bisogna sapersi fermare, sostare, stare in silenzio, contemplare.



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10/02/2011 17:26
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Una fiumana umana
Gianfranco Ravasi

Il maggior pericolo non è tanto la tendenza della massa a comprimere la persona, ma la tendenza della persona a precipitarsi ad annegare nella massa.

Se in un pomeriggio di festa come oggi si dovesse contemplare dall'alto piazza Duomo e le vie adiacenti, a Milano, o via del Corso e le traverse che raggiungono piazza di Spagna, a Roma, si avrebbe l'incarnazione della metafora «una fiumana umana».
È, infatti, una sorta di vortice che dilaga in ondate di corpi che si muovono compatti, spinti dalla deriva che lascia ai bordi solo i detriti dei venditori ambulanti o dei mendicanti.

Ancor più impressionante è la metafora del «branco», applicata soprattutto ai giovani, rappresentazione di un «collettivo» che contiene nel suo grembo germi ferini di violenza (chi non ricorda Arancia meccanica?). Una finissima interprete dell'esistenza come Simone Weil, ebrea parigina di straordinaria intelligenza e spiritualità, ci mette impietosamente - nel passo da noi tratto dai suoi Scritti di Londra - di fronte a un'amara verità.
Se è vero che la massa schiaccia e talora annulla la persona, è ancor più vero che sotto quello schiacciasassi molti si distendono quietamente aspettando di essere «spianati» da ogni loro identità o, per stare all'immagine della fiumana, vi accorrono per annegarvisi.

L'avere una convinzione propria e tenerla ben eretta come una fiaccola sopra la marea delle teste «omologate» è un impegno serio e severo. La folla anonima può persino essere un orizzonte sicuro in cui riparare, dissolvendo in essa non solo le proprie paure, ma anche la fede, l'identità e la coerenza.

La massa o la grigia collettività non è mai da scambiare con la comunità viva in cui le diversità creano armonia nell'unità.



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11/02/2011 10:45
 
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La torre di Babele
Gianfranco Ravasi

Non credo all'opinione diffusa che, allo scopo di rendere feconda una discussione, coloro che vi partecipano debbano avere molto in comune. Anzi, credo che più diverso è il loro retroterra, più feconda sarà la discussione.

Non c'è nemmeno bisogno di un linguaggio comune per iniziare: se non ci fosse stata la torre di Babele, avremmo dovuto costruirne una. Oggi ricorriamo a una fonte piuttosto difficile: la citazione è desunta nientemeno che dal Poscritto alla logica della scoperta scientifica del filosofo viennese Karl Popper (1902-1994).
Il senso è, però, limpido: la diversità è necessaria. In realtà la torre di Babele è il simbolo di un'unità obbligata e artificiosa, una globalizzazione forzata.

Infatti, il sogno dell'imperialismo di Babilonia è quello di imporre «un unico labbro», come si dice nell'originale ebraico della Genesi, cioè una sola lingua, una sola cultura, una sola concezione della vita, precettata a tutti.
Il risultato è paradossale e antitetico ed è la confusione, come reazione all'uniformità imposta. L'autentica diversità è, invece, ben altro: è la ricchezza dei colori dell'arcobaleno.

La tradizione giudaica affermava che Dio, quando creò l'umanità, lo fece con un unico conio, eppure ogni persona - a differenza di ciò che accade per le monete - è sempre diversa dall'altra, anche a livello fisico (si pensi solo alle impronte digitali). Unica è la dignità, ossia l'appartenenza all'essere umani, infinita è la pluralità dei volti e delle anime. Il rabbí Giacobbe Isacco di Lublino degli antichi ebrei Chassidim polacchi diceva: «In ogni uomo c'è qualcosa di prezioso che non si trova in nessun altro. Si deve, perciò, rispettare ognuno secondo le virtù che egli solo possiede e che non ha nessun altro».

Ma attenzione: il crinale tra diversità benefica e confusione malefica è sottilissimo-



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11/02/2011 17:41
 
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Il cerchio e i raggi
Gianfranco Ravasi

Pensate a un cerchio tracciato per terra. Il cerchio è il mondo e il centro è Dio. I raggi sono le vie degli uomini: quanto più essi avanzano, tanto più si avvicinano a Dio e più si avvicinano anche tra di loro. E viceversa.

Forse aveva proprio tracciato nella polvere del deserto un cerchio coi raggi l'antico monaco Doroteo di Gaza a cui dobbiamo questa suggestiva parabola "geometrica".
L'idea è semplicissima: quanto più gli uomini si avvicinano a Dio, tanto più diventano solidali tra loro, e quanto più si stringono nell'amore tra loro, tanto più scoprono Dio vicino. Certo, c'è anche il rischio di procedere sui raggi al contrario, ossia verso l'esterno, e allora si spezza l'incontro con Dio e delle persone tra loro.

L'autentica fede è principio di unità, non di divisone e, per dirla con san Giovanni, chi ama il prossimo ama anche Dio e viceversa. La parabola è idealmente ripresa - anche se in un'altra forma simbolica - dal futuro teologo svizzero Hans Urs von Balthasar nel suo volumetto Il chicco di grano (1944). Ascoltiamo il suo racconto.
«Il razzo è come un raggio di fuoco che rapido vola verso il cielo. Raggiunge il centro, scoppia (nell'attimo dell'estasi) e mille scintille discendono rapide verso la terra.
È Dio che ti rimanda, lacerato in mille pezzi, ai tuoi fratelli». La vera esperienza mistica ti proietta, sì, verso l'infinito di Dio, ma non ti lascia sospeso nella luce. Ti rimanda ai fratelli, alla storia, alla terra. Divenuto fuoco, puoi riscaldare; trasformato in scintilla, puoi illuminare; trasfigurato in Dio, diventi un seme di luce che si sfrangia per raggiungere il gelo e le tenebre di tanti uomini e donne.

L'amore per Dio non è tale se non è anche amore per i fratelli.



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11/02/2011 20:15
 
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Le due ali
Gianfranco Ravasi

Carità e verità non sono nemiche; come non lo sono scienza e fede, pensiero umano e pensiero divino; estrema elaborazione critica ed estrema semplicità mistica.

Così scriveva, nella sua Lettera agli Assistenti della Federazione Universitari Cattolici Italiani, il trentunenne Giovanni Battista Montini. Era il 1928 e colui che sarebbe divenuto Paolo VI già intuiva la necessità di un dialogo tra scienza e fede, tra filosofia e mistica, tra verità e amore.
Alle spalle c'era una lunga stagione - che sarebbe continuata negli anni successivi - di duelli tra fede e ragione con una teologia arroccata in autodifesa apologetica e una scienza che bersagliava di frecciate quella che considerava ormai una roccaforte in disarmo.

Montini andava già oltre la "teoria dei due livelli", ossia il rispetto e la non conflittualità tra i due ordini, quelli della ragione scientifica e della ragione teologica. Egli proponeva una sorta di duetto: come accade in musica ove persino due voci agli estremi del registro vocale, come il soprano e il basso, possono coesistere, incontrarsi, dialogare creando armonia, così deve avvenire nel contrappunto tra critica e contemplazione, tra ragione e morale, tra cultura e spiritualità. Come il soprano non deve cercare di abbassare il suo timbro né il basso ricorrere al falsetto, in un accordo che risulterebbe ridicolo, così anche il teologo e lo scienziato devono stare ciascuno coi piedi piantati nel loro territorio, ma devono anche guardare e ascoltare ciò che nell'altro campo si presenta e si afferma.

Il pensiero corre, allora, all'immagine evocata da un altro Papa, Giovanni Paolo II, quando nella sua enciclica emblematicamente intitolata Fides et ratio, rappresentava la fede e la ragione come le due ali per spiccare il grande volo nel cielo della verità.



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12/02/2011 15:40
 
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Il breviario dei re
Gianfranco Ravasi

Dicono che la storia è il breviario dei re. Ma dal modo come i re governano si vede bene che il loro breviario non vale nulla.

Il suo nome completo era Claude-Henry de Rouvroy de Saint-Simon (1760-1825); era un aristocratico ma si incamminò su un percorso filosofico e sociale aperto alle istanze delle classi povere, tant-è vero che il suo pensiero viene catalogato come "socialismo utopico".
Dalla sua Memoria sulla scienza dell-uomo estraiamo questa battuta piuttosto vivace e ironica sulla politica, battuta che è però continuamente confermata dalla realtà.

Anche il nostro poeta Montale, sbeffeggiando il proverbio latino secondo il quale historia est magistra vitae, non esitava a scrivere che «La storia non è magistra / di niente che ci riguardi. / Accorgersene non serve / a farla più vera e più giusta» (così in Satura).Il tema, allora, dai re passa un po- a tutti noi. Dal modo con cui l-umanità si comporta non si riesce a capire quanto le lezioni della storia le siano servite.

Continuiamo a ripetere gli stessi errori, devastiamo questo mondo con la stessa allegria di sempre, riempiamo gli anni di guerre, ripetiamo gli stessi orrori ed errori. Lo storico inglese Edward Gibbon (1737-1794) sosteneva che «La storia è in sostanza poco più della registrazione dei delitti, delle follie e delle sventure dell-umanità». Eppure è possibile una vita diversa, una società più giusta, un mondo in pace.

È il singolo che, per primo, deve scegliere per sé questa via, senza attendere che lo facciano i re.



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12/02/2011 15:58
 
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Quotidianità
Gianfranco Ravasi

Se la vostra quotidianità vi sembrerà povera, non date ad essa la colpa. Accusate invece voi stessi di non essere abbastanza poeti per scoprire tutte le sue ricchezze. Per il Creatore, infatti, niente è povero.

Il poeta austriaco Rainer Maria Rilke è uno degli autori a me molto cari, anche se sono consapevole che non lo si può consigliare come lettura riposante e lieve, essendo ogni suo verso denso, allusivo, persino gravoso. Oggi, però, propongo una sua osservazione più immediata e trasparente: è "prosa" non solo per il genere con cui è scritta, ma anche nel senso più feriale e quotidiano del termine. Ed effettivamente il tema che propone è appunto quello della quotidianità, un vocabolo che deriva dal latino quotidie che significa «ogni giorno».

L'impressione immediata che si associa a questa esperienza è quella dell'abitudine, dello scontato, della routine oppure del trantran, per usare un termine onomatopeico, destinato a illustrare una ripetizione monotona. Certo, alzarsi ogni mattina con la consapevolezza che tutto sarà più o meno uguale al giorno prima, per approdare a sera a un sonno che riporterà la ruota della vita l'indomani al punto di partenza, non è per nulla esaltante. Eppure Rilke ci ricorda che il poeta, cioè chi ha uno sguardo capace di perforare il grigiore della superficie, riesce a intravedere iridescenze colorate anche nell'esistenza più uniforme. Tra le crepe di un muro sbrecciato può sbocciare un fiore; in ogni azione si annida una scintilla che può brillare.

Ma lo scrittore aggiunge una nota ulteriore religiosa: per Dio nulla è povero o misero. Anche il semplice gesto quotidiano fatto con amore, pur nella sua umiltà materiale, può custodire un seme di eternità. Non è forse vero che Cristo ha segnalato che in atti così modesti come curare un malato, saziare un affamato, visitare un carcerato si cela già la ricompensa piena ed eterna?



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12/02/2011 16:53
 
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Il degrado
Gianfranco Ravasi

In generale ho notato che il degrado è molto più rapido del progresso. E per di più, se il progresso ha dei limiti, il degrado è illimitato.

La fiducia nel progresso è stata non di rado sbandierata come un'insegna destinata a illuminare la via della modernità. E questa è una convinzione che ha una sua verità, anche religiosa: la stessa fede biblica è scandita, da un lato, dal messianismo che è attesa di un salvatore e, d'altro lato, dall'escatologia che è speranza in una piena salvezza finale, posta a suggello della storia.

Non si può, però, ignorare che c'è un progresso solo apparente, come ironizzava il filosofo francese Henri Bergson: «L'umanità geme, per metà schiacciata sotto il peso dei progressi che ha fatto». In verità, in molti "progressi" scientifici o sociali si annida una sorta di veleno, un peccato d'origine che li ribalta in degrado spirituale e in degenerazione morale.
Acquista, allora, valore l'osservazione di un autore russo del secolo scorso, Sergej Dovlatov, che si affaccia sul nadir infernale verso cui spesso l'umanità si sente attratta. Questo abisso sembra essere senza fondo, segnato com'è da gironi di perversione sempre più cupi.

Quasi ogni giorno sui giornali si scoprono delitti di volta in volta più efferati; si assiste a una decadenza dello stesso stile di vita; si scoprono forme nuove di avvilimento della dignità umana, di abbrutimento e di abiezione.
Certo, l'uomo è un microcosmo, un piccolo mondo di meraviglie. Ma, come altre volte abbiamo avuto occasione di dire, non aveva torto il Mefistofele del Faust di Goethe che considerava la creatura umana un kleine Narrenwelt, un microcosmo di follia.

Eppure la stessa libertà che ci fa decadere ci può far ascendere verso l'alto; abbrutirsi non è l'unico destino umano, ma anche il riabilitarsi, l'elevarsi, il nobilitarsi.



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12/02/2011 17:24
 
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Tacere
Gianfranco Ravasi

Certamente l'esistenza umana sarebbe molto più felice se negli uomini la capacità di tacere fosse pari a quella di parlare. Ma l'esperienza insegna fin troppo bene che gli uomini non governano nulla con maggior difficoltà che la lingua.

Sarà per un sottile senso di colpa, ma ogni tanto la mia ricerca del tema da proporre ai lettori va a cadere su un argomento già reiterato in questo spazio: l'eccesso di parola che raramente è compensato da un antidoto necessario, il silenzio. Certo, bisogna distinguere tra silenzio e tacere puro e semplice.
Il vero silenzio è un'oasi in cui si entra dopo essersi preparati, per vivere un'esperienza di intimità con se stessi e col trascendente (per il credente, con Dio). Il vero silenzio può essere eloquente all'esterno, come è testimoniato dagli innamorati quando si fissano negli occhi, dicendosi mutamente il loro amore.

Anzi, lo scrittore inglese del Settecento Oliver Goldsmith, nella sua commedia L'uomo di buon carattere, di un personaggio diceva: «Il silenzio è diventato la sua lingua madre». C'è, però, anche un tacere che è fine a se stesso e che rende solo taciturni e inerti, anzi, alcune volte complici. Non è detto che col mero tacere si sia capaci di ascoltare o che si sia in silenzio e contemporaneamente si sia privi di distrazione e di vani pensieri. Educhiamoci, dunque, al vero silenzio, non al mutismo.

Ad ogni buon conto, la citazione di oggi è desunta dall'Etica di un grande filosofo, Baruch Spinoza (1632-1677).



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[Modificato da Bestion. 12/02/2011 17:29]
13/02/2011 11:09
 
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I martiri
Gianfranco Ravasi

Martiri, amici miei, dovete scegliere fra essere dimenticati, scherniti o ridotti a strumenti. Quanto a essere capiti: questo mai.

C'è un indiscutibile fondo di verità in questa considerazione, un po' ironica e un po' amara, proposta dallo scrittore francese Albert Camus (1913-1960) in uno dei racconti del suo libro La caduta. Ne parliamo nella giornata dedicata dalla liturgia alla memoria del martirio di Giovanni Battista.
È, infatti, vero che il buon senso, l'attaccamento alla vita, l'innata tendenza al compromesso fanno sì che i testimoni, pronti a dare la vita per un ideale o una persona, risultino sostanzialmente incompresi e incomprensibili.

Anzi, alla fine nei loro confronti si consuma una sorta di paradosso quando vengono ridotti a una statua, persino ornata e venerata, da portare in giro durante le feste popolari e poi da riporre per il resto dell'anno sull'altare a loro dedicato per essere là dimenticati.
Peggio ancora - e questo accade ai testimoni-martiri (come è noto, si tratta della stessa parola) cronologicamente più vicini a noi - quando il loro gesto viene frainteso e strumentalizzato da correnti o da interessi che nulla o poco hanno da spartire col loro messaggio e la loro azione.

È, allora, necessario riportare il martire al cuore del suo stesso esistere e agire: se è un testimone autentico e non un fanatico, egli è per noi un segno di amore e di fedeltà, di donazione e di coerenza, di libertà e di totalità, non tanto un esempio di eroismo e di coraggio fine a se stesso.



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13/02/2011 13:19
 
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13/02/2011 13:21
 
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13/02/2011 13:24
 
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13/02/2011 13:27
 
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... inizio (1/8)

«Erano nudi ma non ne provavano vergogna»
(Gen 2,25)



“Il Giardino delle Delizie" particolare - Hieronymus Bosch (1480-1505) - Cappella Brancacci, Firenze

«L'originaria assenza della vergogna indicava una particolare
pienezza di coscienza e di esperienza, soprattutto
la pienezza di comprensione del significato
del corpo, legata al fatto che erano nudi»



Pienezza personalistica
dell’innocenza originale

Giovanni Paolo II

1. Che cos’è la vergogna e come spiegare la sua assenza nello stato di innocenza originaria, nella profondità stessa del mistero della creazione dell’uomo come maschio e femmina? Dalle analisi contemporanee della vergogna e in particolare del pudore sessuale si deduce la complessità di questa fondamentale esperienza, nella quale l’uomo si esprime come persona secondo la struttura che gli è propria. Nell’esperienza del pudore, l’essere umano sperimenta il timore nei confronti del "secondo io" (così, ad esempio, la donna di fronte all’uomo), e questo è sostanzialmente timore per il proprio "io". Con il pudore, l’essere umano manifesta quasi "istintivamente" il bisogno dell’affermazione e dell’accettazione di questo "io", secondo il suo giusto valore. Lo esperimenta nello stesso tempo sia dentro se stesso, sia all’esterno, di fronte all’"altro". Si può dunque dire che il pudore è un’esperienza complessa anche nel senso che, quasi allontanando un essere umano dall’altro (la donna dall’uomo), esso cerca nel contempo il loro personale avvicinamento, creandogli una base e un livello idonei.

Per la stessa ragione, esso ha un significato fondamentale quanto alla formazione dell’ethos nell’umana convivenza, e in particolare nella relazione uomo-donna. L’analisi del pudore indica chiaramente quanto profondamente esso sia radicato appunto nelle mutue relazioni, quanto esattamente esprima le regole essenziali alla "comunione delle persone", e parimenti quanto profondamente tocchi la dimensione della "solitudine" originaria dell’uomo. L’apparire della "vergogna" nella successiva narrazione biblica del capitolo 3 della Genesi ha un significato pluridimensionale, e a suo tempo ci converrà riprenderne l’analisi.

Che cosa significa, invece, la sua originaria assenza in Genesi 2,25: "Erano nudi ma non ne provavano vergogna"?

2. Bisogna stabilire, anzitutto, che si tratta, di una vera non-presenza della vergogna, e non di una sua carenza o di un suo sottosviluppo. Non possiamo qui in alcun modo sostenere una "primitivizzazione" del suo significato. Quindi il testo di Genesi 2,25 non soltanto esclude decisamente la possibilità di pensare ad una "mancanza di vergogna", ovverosia alla impudicizia, ma ancor più esclude che la si spieghi mediante l’analogia con alcune esperienze umane positive, come ad esempio quelle dell’età infantile oppure della vita dei cosiddetti popoli primitivi. Tali analogie sono non soltanto insufficienti, ma possono essere addirittura deludenti. Le parole di Genesi 2,25 "non provavano vergogna" non esprimono carenza, ma, al contrario, servono ad indicare una particolare pienezza di coscienza e di esperienza, soprattutto la pienezza di comprensione del significato del corpo, legata al fatto che "erano nudi".

Che così si debba comprendere e interpretare il testo citato, lo testimonia il seguito della narrazione jahvista, in cui l’apparire della vergogna e in particolare del pudore sessuale, è collegato con la perdita di quella pienezza originaria. Presupponendo, quindi, l’esperienza del pudore come esperienza "di confine", dobbiamo domandarci a quale pienezza di coscienza e di esperienza, e in particolare a quale pienezza di comprensione del significato del corpo corrisponda il significato della nudità originaria, di cui parla Genesi 2,25.

3. Per rispondere a questa domanda, è necessario tenere presente il processo analitico finora condotto, che ha la sua base nell’insieme del passo jahvista. In questo contesto, la solitudine originaria dell’uomo si manifesta come "non-identificazione" della propria umanità col mondo degli esseri viventi ("animalia") che lo circondano.

Tale "non-identificazione", in seguito alla creazione dell’uomo come maschio e femmina, cede il posto alla felice scoperta della propria umanità "con l’aiuto" dell’altro essere umano; così l’uomo riconosce e ritrova la propria umanità "con l’aiuto" della donna (Gen 2,25). Questo loro atto, nello stesso tempo, realizza una percezione del mondo, che si attua direttamente attraverso il corpo ("carne dalla mia carne"). Esso è la sorgente diretta e visibile dell’esperienza che giunge a stabilire la loro unità nell’umanità. Non è difficile capire, perciò, che la nudità corrisponde a quella pienezza di coscienza del significato del corpo, derivante dalla tipica percezione dei sensi. Si può pensare a questa pienezza in categorie di verità dell’essere o della realtà, e si può dire che l’uomo e la donna erano originariamente dati l’uno all’altro proprio secondo tale verità, in quanto "erano nudi". Nell’analisi del significato della nudità originaria, non si può assolutamente prescindere da questa dimensione.

Questo partecipare alla percezione del mondo – nel suo aspetto "esteriore" – è un fatto diretto e quasi spontaneo, anteriore a qualsiasi complicazione "critica" della conoscenza e dell’esperienza umana e appare strettamente connesso all’esperienza del significato del corpo umano. Già così si potrebbe percepire l’innocenza originaria della "conoscenza".

4. Tuttavia, non si può individuare il significato della nudità originaria considerando soltanto la partecipazione dell’uomo alla percezione esteriore del mondo; non lo si può stabilire senza scendere nell’intimo dell’uomo. Genesi 2,25 ci introduce proprio a questo livello e vuole che noi lì cerchiamo l’innocenza originaria del conoscere. Infatti, è con la dimensione dell’interiorità umana che bisogna spiegare e misurare quella particolare pienezza della comunicazione interpersonale, grazie alla quale uomo e donna "erano nudi ma non ne provavano vergogna".

Il concetto di "comunicazione", nel nostro linguaggio convenzionale, è stato pressoché alienato dalla sua più profonda, originaria matrice semantica. Esso viene legato soprattutto alla sfera dei mezzi, e cioè, in massima parte, ai prodotti che servono per l’intesa, lo scambio, l’avvicinamento. Invece è lecito supporre che, nel suo significato originario e più profondo, la "comunicazione" era ed è direttamente connessa a soggetti, che "comunicano" appunto in base alla "comune unione" esistente tra di loro, sia per raggiungere sia per esprimere una realtà che è propria e pertinente soltanto alla sfera dei soggetti-persone. In questo modo, il corpo umano acquista un significato completamente nuovo, che non può essere posto sul piano della rimanente percezione "esterna" del mondo. Esso, infatti, esprime la persona nella sua concretezza ontologica ed essenziale, che è qualcosa di più dell’"individuo", e quindi esprime l’"io" umano personale, che fonda dal di dentro la sua percezione "esteriore".

5. Tutta la narrazione biblica e in particolare il testo jahvista, mostra che il corpo attraverso la propria visibilità manifesta l’uomo e, manifestandolo, fa da intermediario, cioè fa sì che uomo e donna, fin dall’inizio, "comunichino" tra loro secondo quella "communio personarum" voluta dal Creatore proprio per loro. Soltanto questa dimensione, a quanto pare, ci permette di comprendere in modo appropriato il significato della nudità originaria. A questo proposito, qualunque criterio "naturalistico" è destinato a fallire, mentre invece il criterio "personalistico" può essere di grande aiuto. Genesi 2,25 parla certamente di qualcosa di straordinario, che sta al di fuori dei limiti del pudore conosciuto per il tramite dell’esperienza umana e che insieme decide della particolare pienezza della comunicazione interpersonale, radicata nel cuore stesso di quella "communio" che viene così rivelata e sviluppata. In tale rapporto, le parole "non provavano vergogna" possono significare ("in sensu obliquo") soltanto un’originale profondità nell’affermare ciò che è inerente alla persona, ciò che è "visibilmente" femminile e maschile, attraverso cui si costituisce l’"intimità personale" della reciproca comunicazione in tutta la sua radicale semplicità e purezza. A questa pienezza di percezione "esteriore", espressa mediante la nudità fisica, corrisponde l’"interiore" pienezza della visione dell’uomo in Dio, cioè secondo la misura dell’"immagine di Dio" (cf. Gen 1,17). Secondo questa misura, l’uomo "è" veramente nudo ("erano nudi" [Gen 2,25]), prima ancora di accorgersene (cf. Gen 3,7-10).

Dovremo ancora completare l’analisi di questo testo così importante durante le meditazioni che seguiranno.



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Continua ... (1/8)


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perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti e di sole?????
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sa dai parliano un po' della donna [SM=x44603] [SM=x44603]i libri ne saranno pieni [SM=x44599] e poi un grande conoscitore come "cus cus" avra' lasciato qualcosa [SM=x44603] [SM=x44603] [SM=x44628] [SM=x44628] [SM=x44628] [SM=x44628] [SM=x44628] [SM=x44628] [SM=x44628] [SM=x44628] [SM=x44628] [SM=x44628] [SM=x44628]
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Re: perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti e di sole?????
Bestion., 13/02/2011 13.27:


... inizio (1/8)


Dovremo ancora completare l’analisi di questo testo così importante durante le meditazioni che seguiranno.





si pero' cambiate pusher [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602]


[Modificato da paul_65 14/02/2011 21:25]

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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!

... segue (2/8)

«... ma dell'albero della conoscenza
del bene e del male non devi mangiare ...
»
(Gen 2,17a)



“Ulisse e le sirene" Herbert James Draper (1909) - Barbican Art Gallery, Londra

«La coscienza del significato del corpo e la coscienza
del significato generatore di esso vengono a contatto,
nell’uomo, con la coscienza della morte, di cui
portano in sé l’inevitabile orizzonte»



Conoscenza-generazione
e prospettiva della morte

Giovanni Paolo II

1. Si avvia verso la fine il ciclo di riflessioni con cui abbiamo cercato di seguire il richiamo di Cristo trasmessoci da Matteo (Mt 19,3-9) e da Marco (Mc 10,1-12): "Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: "Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola?"" (Mt 19,4-5). L’unione coniugale, nel Libro della Genesi, è definita come "conoscenza": "Adamo si unì a Eva, sua moglie, la quale concepì e partorì... e disse: "Ho acquistato un uomo dal Signore"" (Gen 4,1). Abbiamo cercato già nelle nostre precedenti meditazioni di far luce sul contenuto di quella "conoscenza" biblica. Con essa l’uomo, maschio-femmina, non soltanto impone il proprio nome, come ha fatto imponendo i nomi agli altri esseri viventi (animalia) prendendone così possesso, ma "conosce" nel senso di Genesi 4,1 (e di altri passi della Bibbia), e cioè realizza ciò che il nome "uomo" esprime: realizza l’umanità nel nuovo uomo generato. In certo senso, quindi, realizza se stesso, cioè l’uomo-persona.

2. In questo modo, si chiude il ciclo biblico della "conoscenza-generazione". Tale ciclo della "conoscenza" è costituito dall’unione delle persone nell’amore, che permette loro di unirsi così strettamente tra loro, da diventare un’unica carne. Il Libro della Genesi ci rivela pienamente la verità di questo ciclo. L’uomo, maschio e femmina, che, mediante la "conoscenza" di cui parla la Bibbia, concepisce e genera un essere nuovo, simile a lui, al quale può imporre il nome di "uomo" ("ho acquistato un uomo"), prende, per così dire, possesso della stessa umanità, o meglio la riprende in possesso. Tuttavia, ciò avviene in modo diverso da come aveva preso possesso di tutti gli altri esseri viventi (animalia), quando aveva imposto loro il nome. Infatti, allora, egli era diventato il loro signore, aveva cominciato ad attuare il contenuto del mandato del Creatore: "Soggiogate la terra e dominatela" (cf. Gen 1,28).

3. La prima parte, invece, dello stesso mandato: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra" (Gen 1,28) nasconde un altro contenuto e indica un’altra componente. L’uomo e la donna in questa "conoscenza", in cui danno inizio ad un essere simile a loro, del quale possono insieme dire che "è carne della mia carne e osso delle mie ossa" (Gen 2,24), vengono quasi insieme "rapiti", insieme presi ambedue in possesso dall’umanità che essi, nell’unione e nella "conoscenza" reciproca, vogliono esprimere nuovamente, prendere nuovamente in possesso, ricavandola da loro stessi, dalla propria umanità, dalla mirabile maturità maschile e femminile dei loro corpi e in fine - attraverso tutta la sequenza dei concepimenti e delle generazioni umane fin dal principio - dal mistero stesso della Creazione.

4. In questo senso, si può spiegare la "conoscenza" biblica come "possesso". È possibile vedere in essa qualche equivalente biblico dell’"eros"? Si tratta qui di due ambiti concettuali, di due linguaggi: biblico e platonico; soltanto con grande cautela essi possono essere interpretati l’uno con l’altro [1]. Sembra, invece, che nella rivelazione originaria non sia presente l’idea del possesso della donna da parte dell’uomo, o viceversa, come di un oggetto. D’altronde, è però noto che, in base alla peccaminosità contratta dopo il peccato originale, uomo e donna debbono ricostruire, con fatica, il significato del reciproco dono disinteressato. Questo sarà il tema delle nostre ulteriori analisi.

5. La rivelazione del corpo, racchiusa nel Libro della Genesi, particolarmente nel capitolo 3, dimostra con impressionante evidenza che il ciclo della "conoscenza-generazione", così profondamente radicato nella potenzialità del corpo umano, è stato sottoposto, dopo il peccato, alla legge della sofferenza e della morte. Dio-Jahvé dice alla donna: "Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli" (Gen 3,16). L’orizzonte della morte si apre dinanzi all’uomo, insieme alla rivelazione del significato generatore del corpo nell’atto della reciproca "conoscenza" dei coniugi. Ed ecco che il primo uomo, maschio, impone a sua moglie il nome di Eva, "perché essa fu la madre di tutti i viventi" (Gen 3,20), quando già egli aveva sentito le parole della sentenza, che determinava tutta la prospettiva dell’esistenza umana "al di dentro" della conoscenza del bene e del male. Questa prospettiva è confermata dalle parole: "Tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e polvere tornerai!" (Gen 3,19).

Il carattere radicale di tale sentenza è confermato dall’evidenza delle esperienze di tutta la storia terrena dell’uomo. L’orizzonte della morte si estende su tutta la prospettiva della vita umana sulla terra, vita che è stata inserita in quell’originario ciclo biblico della "conoscenza-generazione". L’uomo che ha infranto l’alleanza col suo Creatore, cogliendo il frutto dall’albero della conoscenza del bene e del male, viene da Dio-Jahvé staccato dall’albero della vita: "Ora egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre" (Gen 3,21). In questo modo, la vita data all’uomo nel mistero della creazione non è stata tolta, ma ristretta dal limite dei concepimenti, delle nascite e della morte, e inoltre aggravata dalla prospettiva della peccaminosità ereditaria; però gli viene, in certo senso, nuovamente data come compito nello stesso ciclo sempre ricorrente. La frase: "Adamo si unì a ("conobbe") Eva sua moglie, la quale concepì e partorì" (Gen 4,1), è come un sigillo impresso nella rivelazione originaria del corpo al "principio" stesso della storia dell’uomo sulla terra. Questa storia si forma sempre di nuovo nella sua dimensione più fondamentale quasi dal "principio", mediante la stessa "conoscenza-generazione", di cui parla il Libro della Genesi.

6. E così, ciascun uomo porta in sé il mistero del suo "principio" strettamente legato alla coscienza del significato generatore del corpo. Genesi 4,1-2 sembra tacere sul tema del rapporto che intercorre tra il significato generatore e quello sponsale del corpo. Forse non è ancora né il tempo né il luogo per chiarire questo rapporto, anche se nell’ulteriore analisi ciò sembra indispensabile Occorrerà, allora, porre nuovamente le domande legate all’apparire della vergogna nell’uomo, vergogna della sua mascolinità e della sua femminilità, prima non sperimentata. In questo momento, tuttavia, ciò passa in secondo ordine. In primo piano resta, invece, il fatto che "Adamo si unì a ("conobbe") Eva sua moglie, la quale concepì e partorì". Questa è appunto la soglia della storia dell’uomo. È il suo "principio" sulla terra. Su questa soglia l’uomo, come maschio e femmina, sta con la coscienza del significato generatore del proprio corpo: la mascolinità nasconde in sé il significato della paternità e la femminilità quello della maternità. Nel nome di questo significato, Cristo darà un giorno la categorica risposta alla domanda rivoltagli dai farisei (Mt 19; Mc 10). Noi, invece, penetrando il semplice contenuto di questa risposta, cerchiamo in pari tempo di mettere in luce il contesto di quel "principio", al quale Cristo si è riferito. In esso affonda le radici la teologia del corpo.

7. La coscienza del significato del corpo e la coscienza del significato generatore di esso vengono a contatto, nell’uomo, con la coscienza della morte, di cui portano in sé, per così dire, l’inevitabile orizzonte. Eppure, sempre ritorna nella storia dell’uomo il ciclo conoscenza generazione", in cui la vita lotta, sempre di nuovo, con la inesorabile prospettiva della morte, e sempre la supera. È come se la ragione di questa inarrendevolezza della vita, che si manifesta nella "generazione", fosse sempre la stessa "conoscenza", con la quale l’uomo oltrepassa la solitudine del proprio essere e, anzi, di nuovo si decide ad affermare tale essere in un "altro". Ed ambedue, uomo e donna, lo affermano nel nuovo uomo generato. In questa affermazione, la "conoscenza" biblica sembra acquistare una dimensione ancor maggiore. Sembra, cioè, inserirsi in quella "visione" di Dio stesso, con la quale finisce il primo racconto della creazione dell’uomo circa il "maschio" e la "femmina" fatti "ad immagine di Dio": "Dio vide quanto aveva fatto ed... era cosa molto buona" (Gen 1,31). L’uomo, nonostante tutte le esperienze della propria vita, nonostante le sofferenze, le delusioni di se stesso, la sua peccaminosità, e nonostante, infine, la prospettiva inevitabile della morte, mette tuttavia sempre di nuovo la "conoscenza" all’"inizio" della "generazione"; egli, così, sembra partecipare a quella prima "visione" di Dio stesso: Dio Creatore "vide..., ed ecco era cosa buona". E, sempre di nuovo, egli conferma la verità di queste parole.

[1] Secondo Platone, 1’"eros" è l’amore assetato del Bello trascendente ed esprime l’insaziabilità tendente al suo eterno oggetto; esso, quindi, eleva sempre tutto ciò che è umano verso il divino, che solo è in grado di appagare la nostalgia dell’anima imprigionata nella materia, è un amore che non indietreggia davanti al più grande sforzo, per raggiungere l’estasi dell’unione; quindi è un amore egocentrico, è bramosia, sebbene diretta verso valori sublimi [cf. A. Nygren, Erôs et Agapé, Paris 1951, vol. II, pp. 9-10]. Lungo i secoli, attraverso molte trasformazioni, il significato dell’"eros" è stato abbassato alle connotazioni meramente sessuali. Caratteristico è qui il testo di P. Chauchard, che sembra perfino negare all’"eros" le caratteristiche dell’amore umano. "La cérébralisation de la sexualité ne réside pas dans les trucs techniques ennuyeux, mais dans la pleine reconnaissance de sa spiritualità, du fait qu’Erôs n’est humain qu’animé par Agapé et qu’Agapé exige l’incarnation dans Erôs" [P. Chauchard, Vices des vertus, vertus des vices, Paris 1963, p. 147]. Il paragone della "conoscenza" biblica con 1’"eros" platonico rivela la divergenza di queste due concezioni. La concezione platonica si basa sulla nostalgia del Bello trascendente e sulla fuga dalla materia; la concezione biblica, invece, è diretta verso la realtà concreta, e le è alieno il dualismo dello spirito e della materia come pure la specifica ostilità verso la materia ["E Dio vide che era cosa buona": Gen 1,10.12.18.21.25]. In quanto il concetto platonico di "eros" oltrepassa la portata biblica della "conoscenza" umana, il concetto contemporaneo sembra troppo ristretto La "conoscenza" biblica non si limita a soddisfare l’istinto o il godimento edonistico, ma è un atto pienamente umano, diretto consapevolmente verso la procreazione, ed è anche l’espressione dell’amore interpersonale [cf. Gen 29,20; 1 Sam 1,8; 2 Sam 12,24].



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Continua ... (2/8)


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Re: perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti e di sole???
Bestion., 15/02/2011 12.50:


... segue (2/8)

«... ma dell'albero della conoscenza
del bene e del male non devi mangiare ...
»
(Gen 2,17a)






[SM=x44599] a parte che il mio linguaggio e la mia coltura e' molto terra-terra sinceramente capisco molto poco quello che scrivi [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602]
ma come fate a combattere il demo se non avete mangiato a piene mani [SM=x44613] [SM=x44613] [SM=x44613] [SM=x44613] [SM=x44613] [SM=x44613] [SM=x44613] [SM=x44613] [SM=x44613] [SM=x44613]
bho sara' riferito ad altri [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] sicuramente non all'uomo quello che tu chiami vittorioso [SM=x44598] [SM=x44603] [SM=x44602] [SM=x44602]

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Re: perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti e di sole????
Bestion., 15/02/2011 12.50:


... segue (2/8)

Conoscenza-generazione
e prospettiva della morte

Giovanni Paolo II





ma ste parole sono proprio di "cus cus" ora continua a "cai fa cai fa caifa" [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44603] [SM=x44603] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602]
[SM=x44605] [SM=x44607] bestion sei in sacrestia ad attendere lo spirito lascia perdere fermati a "La Voce" e piu' corretto [SM=x44606] [SM=x44606] [SM=x44603] [SM=x44603] sai e' un po come stare in un parco e sentirlo parlare che poi sia sulla panchina o alle maldive stessa cosa e' [SM=x44600] [SM=x44600] [SM=x44600] ah!!! gia che ciavete tutti lo spirito [SM=x44605] [SM=x44605] pero' ci sarra' chi l'ha visto realmente [SM=x44603] [SM=x44603] [SM=x44617] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] dai che questa fa' ridere [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602]

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16/02/2011 22:16
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!

... segue (3/8)

«Non morirete affatto! Anzi ... diventereste come Dio»
(Gen 3,4-5)



“La tentazione di Adamo ed Eva" Michelangelo Buonarroti (1508-1512) particolare - Cappella Sistina, Città del Vaticano

«Mettendo in dubbio, nel suo cuore, il significato più profondo
della donazione, cioè l’amore come motivo specifico
della creazione e dell’Alleanza originaria, l’uomo
volta le spalle al Dio-Amore, al Padre»



La concupiscenza è il frutto
della rottura dell’alleanza con Dio

Giovanni Paolo II

1. Durante l’ultima nostra riflessione, abbiamo detto che le parole di Cristo nel Discorso della montagna sono in diretto riferimento al "desiderio" che nasce immediatamente nel cuore umano; indirettamente, invece, quelle parole ci orientano a comprendere una verità sull’uomo, che è di importanza universale.

Questa verità sull’uomo "storico", di importanza universale, verso la quale ci indirizzano le parole di Cristo tratte da Matteo 5,27-28, sembra essere espressa nella dottrina biblica sulla triplice concupiscenza. Ci riferiamo qui al conciso enunciato della prima Lettera di S. Giovanni: "Tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza, ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno" (1Gv 2,16-17). È ovvio che per capire queste parole, bisogna tenere gran conto del contesto, in cui sono inserite, cioè il contesto di tutta la "teologia giovannea", su cui si è tanto scritto (1). Tuttavia, le stesse parole s’inseriscono, contemporaneamente, nel contesto di tutta la Bibbia: esse appartengono al complesso della verità rivelata sull’uomo, e sono importanti per la teologia del corpo. Non spiegano la concupiscenza stessa nella sua triplice forma, poiché sembrano presupporre che "la concupiscenza del corpo, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita", siano, in qualche modo, un concetto chiaro e conosciuto. Spiegano, invece, la genesi della triplice concupiscenza, indicando la sua provenienza non "dal Padre", ma "dal mondo".

2. La concupiscenza della carne e, insieme ad essa, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, è "nel mondo" e al tempo stesso "viene dal mondo", non come frutto del mistero della creazione, ma come frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male" (cf. Gen 2,17) nel cuore dell’uomo. Ciò che fruttifica nella triplice concupiscenza non è il "mondo" creato da Dio per l’uomo, la cui "bontà" fondamentale abbiamo più volte letto in Genesi 1: "Dio vide che era cosa buona... era cosa molto buona". Nella triplice concupiscenza fruttifica invece la rottura della prima alleanza con il Creatore, con Dio-Elohim, con Dio-Jahvè. Questa alleanza fu rotta nel cuore dell’uomo. Bisognerebbe fare qui un’accurata analisi degli avvenimenti descritti in Genesi 3,1-6. Tuttavia, ci riferiamo solo in generale al mistero del peccato, agli inizi della storia umana. Infatti, solo come conseguenza del peccato, come frutto della rottura dell’alleanza con Dio nel cuore umano - nell’intimo dell’uomo - il "mondo" del Libro della Genesi è divenuto il "mondo" delle parole giovannee (1Gv 2,15-16): luogo e sorgente di concupiscenza.

Così, dunque, l’enunciato secondo cui la concupiscenza "non viene dal Padre, ma dal mondo", sembra indirizzarci, ancora una volta, verso il biblico "principio". La genesi della triplice concupiscenza, presentata da Giovanni, trova in questo principio la sua prima e fondamentale delucidazione, una spiegazione, che è essenziale per la teologia del corpo. Per intendere quella verità di importanza universale sull’uomo "storico", contenuta nella parole di Cristo durante il discorso della montagna (Mt 5,27-28), dobbiamo ancora una volta tornare al Libro della Genesi, ancora una volta soffermarci "alla soglia" della rivelazione dell’uomo "storico". Ciò è tanto più necessario, in quanto tale soglia della storia della salvezza si dimostra al tempo stesso soglia di autentiche esperienze umane, come costateremo nelle successive analisi. Vi rivivranno gli stessi significati fondamentali, che abbiamo ricavato dalle precedenti analisi, quali elementi costitutivi di una antropologia adeguata e profondo substrato della teologia del corpo.

3. Può sorgere ancora la domanda se sia lecito trasporre i contenuti tipici della "teologia giovannea", racchiusi in tutta la prima lettera (1Gv 2,15-16), sul terreno del Discorso della montagna secondo Matteo, e precisamente dell’affermazione di Cristo tratta da Matteo 5,27-28: "Avete inteso che fu detto: Non commetterete adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore". Riprenderemo questo argomento più volte: ciò nonostante, facciamo riferimento fin d’ora al contesto biblico generale, all’insieme della verità sull’uomo, in essa rivelata ed espressa. Proprio nel nome di questa verità, cerchiamo di capire fino in fondo l’uomo, che Cristo indica nel testo di Matteo 5,27-28: cioè l’uomo che "guarda" la donna "per desiderarla". Un tale sguardo, in definitiva, non si spiega forse col fatto che quell’uomo è appunto un "uomo di desiderio", nel senso della prima Lettera di S. Giovanni, anzi che entrambi, cioè l’uomo che guarda per desiderare e la donna che è oggetto di tale sguardo, si trovano nella dimensione della triplice concupiscenza, che "non viene dal Padre, ma dal mondo"? Occorre, dunque, intendere che cosa sia quella concupiscenza o piuttosto chi sia quel biblico "uomo di desiderio", per scoprire la profondità delle parole di Cristo secondo Matteo 5,27-28, e per spiegare che cosa significhi il loro riferimento, tanto importante per la teologia del corpo, al "cuore" umano.

4. Torniamo di nuovo al racconto jahvista, in cui lo stesso uomo, maschio e femmina, appare all’inizio come uomo di innocenza originaria - prima del peccato originale - e poi come colui che ha perduto questa innocenza, infrangendo l’originaria alleanza col suo Creatore. Non intendiamo qui fare un’analisi completa della tentazione e del peccato, secondo lo stesso testo di Genesi 3,1-5, la relativa dottrina della Chiesa e la teologia. Conviene soltanto osservare che la stessa descrizione biblica sembra mettere particolarmente in evidenza il momento chiave, in cui nel cuore dell’uomo è posto in dubbio il Dono. L’uomo che coglie il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male" fa, al tempo stesso, una scelta fondamentale e la attua contro il volere del Creatore, Dio Jahvè, accettando la motivazione suggeritagli dal tentatore: "Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che, quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male"; secondo antiche traduzioni: "Sarete come dèi, conoscenti del bene e del male" (2). In questa motivazione si racchiude chiaramente la messa in dubbio del Dono e dell’Amore, da cui trae origine la creazione come donazione. Per quanto riguarda l’uomo, egli riceve in dono il "mondo" ed al tempo stesso la "immagine di Dio", cioè l’umanità stessa in tutta la verità della sua duplicità maschile e femminile. È sufficiente leggere accuratamente tutto il brano di Genesi 3,1-5, per individuarvi il mistero dell’uomo che volta le spalle al "Padre" (anche se nel racconto non troviamo tale appellativo di Dio). Mettendo in dubbio, nel suo cuore, il significato più profondo della donazione, cioè l’amore come motivo specifico della creazione e dell’Alleanza originaria (cf. Gen 3,5), l’uomo volta le spalle al Dio-Amore, al "Padre". In certo senso lo rigetta dal suo cuore. Contemporaneamente, quindi, distacca il suo cuore e quasi lo recide da ciò che "viene dal Padre": così, resta in lui ciò che "viene dal mondo".

5. "Allora si aprirono gli occhi di tutte e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture" (Gen 3,6). Questa è la prima frase del racconto jahvista, che si riferisce alla "situazione" dell’uomo dopo il peccato e mostra il nuovo stato della natura umana. Non suggerisce forse anche questa frase l’inizio della "concupiscenza" nel cuore dell’uomo? Per dare una risposta più approfondita a tale domanda, non possiamo soffermarci su quella prima frase, ma occorre rileggere il testo per intero. Tuttavia, qui vale la pena di ricordare ciò che nelle prime analisi è stato detto sul tema della vergogna come esperienza "del limite".(cf. Giovanni Paolo II, Allocutio in Audientia Generali habita, die 12 dec. 1979: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II, 2 [1979] 1378ss) Il Libro della Genesi fa riferimento a questa esperienza per dimostrare il "confine" esistente tra lo stato di innocenza originaria (cf. in particolare Genesi 2,25, al quale abbiamo dedicato molta attenzione nelle precedenti analisi) e lo stato di peccaminosità dell’uomo al "principio" stesso. Mentre Genesi 2,25 sottolinea che "erano nudi... ma non ne provavano vergogna", Genesi 3,6 parla esplicitamente della nascita della vergogna in connessione col peccato. Quella vergogna è quasi la prima sorgente del manifestarsi nell’uomo - in entrambi, uomo e donna - di ciò che "non viene dal Padre, ma dal mondo".



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Continua ... (3/8)


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perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti e di sole?????
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perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti e di sole?????
[SM=x44607] mah!!! bestion fammi capire ma tu ti diverti con 6 messe al giorno preghierine in abbondanza e seghe mentali di cose piu' grandi di te'???????????????????????????????????? [SM=x44607]


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Re: perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti e di sole?????
[SM=x44605] scusa prete ma non hai risposto alla mia domanda [SM=x44599] cmq forse e meglio che tu avverta il tuo grande capo si quello vestito di bianco in cima al monte [SM=x44598] che non ha capito che non deve pregare per la pace deve fare pace [SM=x44601] poi sa lui come fare [SM=x44603] [SM=x44603] si si che lo sa' [SM=x44603] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602]


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