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La presenza di Dio

Ultimo Aggiornamento: 12/06/2020 09:44
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31/01/2011 16:12
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Il lato misterioso
Gianfranco Ravasi

Essere consci del lato misterioso della vita è il più bel sentimento che ci sia dato provare. Sta alla radice di ogni arte e di ogni scienza vera.

Sono parole del grande scienziato Albert Einstein che ebbe sempre un-attenzione spiccata verso "il lato misterioso" non solo della vita ma anche di tutta la realtà. È forse proprio qui la discriminante tra la scienza vera e la tecnica. Quest-ultima è fermamente convinta di poter risolvere tutti gli interrogativi proprio perché si attesta sulla superficie visibile ove i nodi sono evidenti e l-apparenza chiara.

La scienza, invece, va alla ricerca delle cause profonde e necessariamente incrocia il suo percorso con la filosofia o la teologia.Certo, ognuna di queste discipline ha la sua strada specifica e i suoi strumenti di analisi; ma spesso il desiderio e la meta sono comuni: cercare di spiegare "il lato misterioso" della realtà. E questo "mistero" è particolarmente profondo quando c-è di mezzo la vita, tant-è vero che il poeta tedesco Hölderlin non esitava a definirla "un-immagine della divinità", sulla scia della Genesi che considerava la creatura umana "immagine e somiglianza di Dio".

Proprio per questo l-arte e soprattutto la scienza devono sempre inoltrarsi nel "mistero" della vita con rispetto, senza l-orgoglio del padrone o l-arroganza del conquistatore. Essa fa parte di un progetto grandioso che ci trascende, come diceva lo scrittore russo Vladimir Nabokov:

«La vita umana è una serie di note a piè di pagina di un immenso e oscuro capolavoro» (Fuoco pallido 1962).




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31/01/2011 16:50
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Ottimisti e pessimisti
Gianfranco Ravasi

L'ottimista proclama che viviamo nel migliore dei mondi possibili. Il pessimista teme che possa essere vero.

Devo lo spunto per la riflessione di oggi a un cultore di letteratura inglese che mi ha fatto conoscere Lo stallone d-argento, uno dei 18 romanzi che lo scrittore americano James Branch Cabell (1879-1958) ha tutti ambientati in un mitico Medioevo europeo come una continua saga della stessa famiglia.
Ottimisti e pessimisti sono un po- come gli estremi di uno spettro cromatico: c-è chi vede sempre tutta la realtà sotto colori accesi e affascinanti e vola nell-illusione e c-è chi scopre sempre l-oscuro delle cose e piomba nell-inerzia o, peggio, nella disperazione.

Alcuni anni fa avevo proposto come base di meditazione questa considerazione dello scrittore cattolico inglese Chesterton: «Non possiamo passare sotto silenzio la definizione misteriosa ma suggestiva data, pare, da una bambina: un ottimista è un uomo che vi guarda gli occhi, un pessimista un uomo che vi guarda i piedi».
Si tratta, allora, di operare una correzione di tiro o, meglio, di equilibrio da raggiungere: dagli occhi passare ai piedi e viceversa, così da avere un insieme più coerente della persona. Come si corregge la vista fisica con le lenti, così si dovrebbe ridurre la miopia pessimistica e la presbiopia ottimistica.

Anche nei nostri giorni, spesso deprecati, ci sono tante ragioni per essere fiduciosi, ma ci sono altrettanti motivi per essere sempre vigili e preoccupati.



Fonte -


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31/01/2011 16:58
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti?







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31/01/2011 17:00
 
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31/01/2011 17:04
 
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31/01/2011 17:06
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!

Il Vangelo nella società occidentale scristianizzata


“Cristo Pantocratore" - mosaico bizantino (XII secolo) - abside cattedrale Cefalù, Palermo
«Ciò di cui bisogna prima di tutto prendere atto
è che la crisi dei rapporti fra chiesa e società ha
il suo punto nevralgico nella crisi della fede»



Chiesa, che fare?

di Severino Dianich

1. La chiesa oggi nei paesi di antica tradizione

La situazione che oggi la chiesa sta vivendo nei paesi di antica tradizione cristiana, che poi coincidono con quelli maggiormente determinati dalla cultura moderna e dotati di un sistema democratico di governo, sta registrando non solo un calo della pratica religiosa, ma anche un fenomeno, che si fa sempre più vasto, di vero e proprio abbandono della fede. E’ vero che scegliere il matrimonio civile o la convivenza di fatto, divorziare e risposarsi, sostenere la depenalizzazione dell’aborto, promuovere la ricerca sulle cellule staminali degli embrioni, dissentire sui pronunciamenti del magistero, sono atteggiamenti che di per sé non coincidono con l’abbandono della fede cattolica.

Però questi aspetti del costume dominante, quando coinvolgono il cristiano, mettono in crisi i suoi rapporti con la chiesa e con la fede. In prospettiva, inoltre, è prevedibile che dalle coppie conviventi senza matrimonio, da quelle fondate sul solo matrimonio civile, da quelle costruite dopo la rottura di un precedente matrimonio derivi un calo dei battesimi dei bambini. Se il fenomeno è così diffuso che la maggioranza dei giovani dell’ultima generazione preferisce la convivenza al matrimonio e se, dei matrimoni celebrati in Italia l’anno scorso, solo la metà sono stati celebrati in forma religiosa, e se questo fenomeno trascinerà con sé anche un distacco più deciso dalla chiesa, è possibile prevedere che nei prossimi decenni i battesimi dei bambini diminuiscano a tal punto che i cattolici cessino di essere, anche anagraficamente, la maggioranza del paese.

A tutto questo si aggiungono i recenti scandali, da quello della pedofilia a quelli, ogni tanto ricorrenti, della finanza ecclesiastica, che stanno portando la chiesa verso livelli di consenso e di estimazione sempre più bassi. Lo scollamento, poi, fra chiesa e società civile, è sempre più manifesto sul piano politico, dati i duri scontri che continuamente vengono reiterati fra i pronunciamenti del magistero della chiesa e correnti politiche, dal consenso assai vasto, che progettano leggi che il magistero costantemente condanna. Questo scollamento difficilmente potrebbe essere interpretato con un fenomeno puramente congiunturale, se già nel 1974 la maggioranza degli italiani aveva votato in favore del divorzio e se nel 1981 il 68% degli italiani aveva approvato la legge sulla liberalizzazione dell’aborto. Quanto più, sia il magistero che i mezzi di comunicazione di area cattolica, stanno lottando vigorosamente all’interno del dibattito pubblico, con tutte le pressioni possibili nell’ambito politico, per orientare la legislazione sulla linea della morale cristiana, tanto più cresce l’ostilità verso la chiesa, aumentano gli abbandoni della fede e si diffonde l’idea che il cristianesimo non sia più in grado di dare un contributo positivo allo sviluppo dell’umanità.
La situazione, come è comprensibile, sta portando fra i credenti un diffuso senso di smarrimento. Ne soffrono, ancor più dei vescovi e dei preti che se ne stanno nelle loro chiese e nei loro palazzi, i fedeli laici, i quali nei posti di lavoro, fra gli amici e, non di rado, anche all’interno delle famiglie, sono sottoposti a continue umiliazioni per la loro appartenenza ad una chiesa ritenuta, oltre che incapace di capire l’uomo d’oggi e i suoi problemi, anche inetta ad insegnare agli altri la morale, visto che al suo interno non brilla per coerenza e virtù. Anche i fedeli rispettosi dell’autorità del magistero, si trovano poi sconcertati di fronte a certe prese di posizione radicale, che sembrano prive di pietà verso l’uomo che soffre: vedi quanto successe nel famoso caso Welby.

Io credo, però, che l’interrogativo più importante da porre non sia quello sulla situazione, che è abbondantemente analizzata da opinionisti e sociologi, bensì sulle prospettive. Chiesa, che fare? Questa è la domanda su cui lavorare, illuminati dalla fede e riscaldati dalla speranza, la quale non è altro che l’altra faccia della fede stessa. Chi crede nel vangelo di Gesù Cristo, cioè nella “buona notizia” che egli ha portato agli uomini, non può rinchiudersi in una visione cupa del futuro, ma deve scrutare i segni dei tempi e illuminare il futuro con la parola del Signore. Per questo vorrei porre ad esergo di queste riflessioni ciò che fratel Paolo della comunità dei monaci di Tibhirine, in una situazione infinitamente più tragica di quella nella quale stiamo vivendo, liberi e ben difesi dalle strutture democratiche della nostra società, scriveva pochi giorni prima di essere ucciso: “Che cosa resterà della chiesa in Algeria fra qualche mese, della sua visibilità, delle sue strutture e delle persone che la compongono? Con tutta probabilità, ben poco. Ma credo che il vangelo è seminato e che il grano germoglierà. Lo Spirito lavora nel profondo del cuore degli uomini. Continuiamo ad essere disponibili perché possa agire in noi per mezzo della preghiera e la presenza amabile di tutti i nostri fratelli”.

2. Una cosa da non fare

Domandandoci cosa fare, mi sembra che ci sia una prima cosa da non fare: gridare alla persecuzione e arroccarsi in difesa, sguainando le spade dell’apologetica e cercando di rafforzare il proprio potere nella società. Ci sono cattolici che danno l’impressione di non saper vivere in democrazia. Essi vedono la posizione della chiesa nel mondo costretta nell’alternativa di una chiesa egemonica o una chiesa perseguitata. Nel verificare il rifiuto della sua egemonia, quasi universalmente diffuso nella cultura contemporanea, sembrano quasi volersi rallegrare, per potersi fregiare della parola di Gesù: “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia” (Mt 5,11). In realtà ben altro dovrebbe accadere perché ci meritassimo la beatitudine evangelica. Basti ricordare ancora i trappisti massacrati in Algeria o guardare i villaggi cristiani bruciati in Orissa o le macerie delle chiese del Pakistan per abbassare, con vergogna, il tono dei nostri lamenti. Gesù ha detto di non esser “venuto a metter pace, ma spada” (Mt 10, 34), ma bisognerebbe bene esaminare se nel contendere fra chiesa e società contemporanea le spade si incrociano davvero e sempre per la fede in Gesù. Litigare con i governi per ottenere sgravi fiscali, tanto per portare un esempio, può essere cosa giusta, ma non ci vedo in gioco “il caso serio” della fede. Quanto la drammatica situazione delle chiese oggi realmente perseguitate si impone alla nostra meditazione e all’ammirazione dei fratelli che soffrono, tanto ci dissuade dall’accostare alla loro la nostra situazione, di noi che godiamo della libertà, grazie a quella democrazia, che proprio la modernità, di cui molto ci lamentiamo, ci ha procurato e continua a garantirci.

Ora, ciò che accade in democrazia è che chiunque abbia il diritto di criticare chiunque, chiesa e autorità ecclesiastiche comprese. Le critiche, quindi, anche pubbliche ed anche aspre, che la chiesa subisce fanno parte della condizione di libertà di cui la chiesa, come ogni altra persona o aggregazione sociale, gode per nostra fortuna nella nostra società. Con ciò non ignoro affatto che esse possano essere, e in molti casi lo siano, ingiuste, altre volte malevole, altre volte ancora intenzionate a danneggiare la chiesa in difesa delle proprie posizioni o dei propri interessi. Ciò che alla chiesa, in questa situazione, si impone è prendere parte serenamente al pubblico dibattito, avanzando le proprie ragioni e dando testimonianza al vangelo. Privi della beatitudine dei perseguitati dovremmo cercare quella di coloro “che hanno fame e sete della giustizia” e quella dei miti, che “avranno in eredità la terra”. La fedeltà al vangelo non riguarda solo il contenuto della proposta di Gesù, ma anche lo stile con cui essa viene oggi riproposta. Il vangelo, infatti, non è puramente un insieme di enunciati dei valori umani, né soprattutto un codice di norme di comportamento, ma la “buona notizia” che Dio ama il mondo, anzi che “ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16).

A differenza di quanto accade nella lotta politica fra i partiti, questo comporta per la chiesa l’assunzione, nelle questioni politiche, di atteggiamenti anti-politici: non è vincere il suo scopo, ma convincere. Dalle virtù evangeliche, che non solo i singoli ma anche le istituzioni ecclesiastiche devono testimoniare deriva il dovere di non ritenere a priori malvagio o insensato chi, di fronte ai problemi che insorgono, propone soluzioni che nella chiesa si giudicano immorali e il dovere di mettersi in ascolto delle ragioni dell’altro, supponendo che anch’esse debbano avere una loro plausibilità. Desiderando di meritare anche la beatitudine evangelica dei “puri di cuore” la chiesa, inoltre, dovrebbe sempre essere disposta anche a riconoscere i propri torti. Abbiamo in mano il vangelo non per farne lo strumento di giudizio contro qualcuno, ma prima di tutto per provocare noi stessi e metterci insieme con l’ “avversario” sotto il giudizio di Dio per evitare, come Gesù ci ammonisce, che alla fine il giudice ci dia torto (Mt 5,25; Lc 12,58). I padri del Vaticano II hanno chiaramente invitato i credenti a riconoscere che la chiesa non ha alcun suo percorso privilegiato nella storia, ma “cammina insieme con l'umanità tutta e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena” (GS 40).

3. La crisi dei rapporti con la società civile

A differenza di quanto avveniva nel mondo antico, quando la sacralità e il carattere assoluto del potere venivano a trovarsi messi in causa dalla predicazione del vangelo, per la sua proclamazione dell’unico Dio e del primato della coscienza, il quadro socio-politico odierno è capace di albergare in sé, grazie alla secolarizzazione del potere, qualsiasi proposta religiosa. L’intolleranza verso la fede rimane propria dei regimi dittatoriali e delle società arcaiche. L’ostilità verso la chiesa, che implica inevitabilmente anche la diffidenza verso la sua proposta di fede, viene all’uomo della cultura contemporanea dalla sua gelosa difesa della laicità dello stato, delle libertà individuali e dell’assetto pluralista della società democratica. Si sta verificando così una situazione paradossale, per cui la chiesa viene sospettata di mettere in pericolo alcuni valori, a causa dei quali alle sue origini essa veniva perseguitata.
C’è alle spalle di questa situazione una pesante eredità storica che, né le dichiarazioni conciliari, né le numerose testimonianze della chiesa d’oggi in favore della libertà di coscienza e della democrazia riescono a far dimenticare. Lungo quasi un millennio si è vissuti in Europa con la convinzione che la società civile dovesse ricevere la legittimazione etica del suo ordinamento e della sua legislazione solo dall’istanza della tradizione cristiana e del magistero ecclesiastico. La libertà di coscienza, la libertà di esprimere pubblicamente un’altra fede o una morale diversa erano impedite. Lungo tutto l’Ottocento le cosidette “libertà moderne” sono state oggetto di ripetute condanne da parte del magistero papale e ancora nel 1922 Pio XI nella Ubi arcano sosteneva che da parte della società civile e dello stato doveva essere “riconosciuto alla chiesa di Gesù Cristo il posto che egli stesso le assegnava nella società umana, dandole forma e costituzione di società, e, in ragione del suo fine, perfetta, suprema nell'ordine suo; costituendola depositaria ed interprete del suo pensiero divino, e perciò stesso maestra e guida di tutte le altre società”1. Ancora nel 1950 Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova dal 1946 al 1987, poi cardinale e presidente della CEI dal 1959 al 1965,nonché preconizzato da molti al papato nei due conclavi del 1978, aveva pubblicato un manuale di ecclesiologia nel quale, con forbito stile apologetico, affermava che la chiesa “avanza su tutte le vie del mondo” con la sua “vivacissima azione magisteriale, giurisdizionale, santificatrice, sociale”. Ora, per Giuseppe Siri, il magistero della chiesa, data la sua divina istituzione, gode di un’autorità “che crea dinanzi a Dio l’obbligazione in coscienza di accettarlo”, ma questo non solo nei credenti cattolici, bensì in ogni uomo. Siccome “il magistero - egli scriveva - ha per oggetto anche tutta la legge morale”, la sua autorità “si estende quanto l’azione libera di qualunque uomo. Anche dei non cristiani, poiché essa detiene la prima legge di Dio e la sua infallibile interpretazione; quella legge appunto che vale per tutti gli uomini e che assorbe e canonizza il diritto di natura, al quale sono tenuti pure i non cristiani”2.

Nessuno oggi nella chiesa cattolica, salvo alcune frange di tradizionalisti, sosterrebbe questa tesi. Ricordarla però ci aiuta a comprendere come mai, ogni volta che la chiesa avanza le sue argomentazioni a partire dalla legge naturale, questo provochi il sospetto che essa intenda imporsi, come l’unica maestra di morale per tutti gli uomini. L’intenzione del papa e dei vescovi non è quella di reimporre alla società l’egemonia della chiesa sulla sua cultura e sulla sua attività legislativa, come accadeva in epoca predemocratica: al contrario, avviando la discussione su questo piano, si intende offrire una piattaforma di dialogo, che non sia condizionata dai presupposti della fede, sulla quale, quindi, si possa ragionare con chiunque e pervenire insieme alla chiarezza della verità. Né l’onestà dell’intenzione, però, né la ragionevolezza delle argomentazioni sembrano ottenere il frutto desiderato. Oltre che contro la sfavorevole memoria storica, la proposta di una ricerca razionale dell’oggettività dei valori cozza contro una cultura fortemente impregnata dell’idea che dietro questa oggettività si nasconda una volontà di potenza che pone i valori e intende imporli. Avviene così che la proposta di un terreno di dialogo si trasformi, paradossalmente, in una nuova occasione di conflitto: la dedizione della chiesa al bene comune su questo piano resta comunque infruttuosa, mentre ne deriva una diffusa diffidenza nei confronti della chiesa, che ne compromette la stessa predicazione del vangelo. Quest’ultima, ovviamente, non viene meno, però cade nel disinteresse diffuso, perché i mezzi di comunicazione sociale mettono in risalto solo i pronunciamenti sui quali si accende il conflitto. Il fenomeno non era preoccupante quando interessava minoranze di alcuni intellettuali anticlericali, mentre il costume diffuso al livello popolare era ancora permeato della fede cattolica mentre, in una società che nella sua maggioranza ormai, nonostante i registri di battesimo, non è più solidale con il magistero della chiesa, sta mettendo a rischio la fede dei più deboli. Sono oggi, di fatto, la grande maggioranza di uomini e donne che, pur avendo ricevuto il battesimo e non avendo mai pensato di fare atto di apostasia, restano ai margini della chiesa, sono fortemente influenzati dai mezzi di comunicazione sociale e non godono di raffinati strumenti di discernimento. D’altra parte a questi, come ad ogni uomo, la chiesa è debitrice del dono della fede e non può non domandarsi come fare per diradare la densa nebbia che oggi si interpone fra sé e loro.

4. La prima preoccupazione da coltivare

Non ha molto senso rimproverare alla chiesa di voler influire sulla vita e gli orientamenti della società civile: in democrazia, infatti, questo è diritto e dovere di ogni cittadino e di tutte le comunità, le aggregazioni sociali, le agenzie pubbliche che vi operano. Le questioni, invece, che si possono sollevare vengono dall’interno della chiesa stessa, perché al credente preme salvaguardare quella differenza che corre fra la chiesa e le altre agenzie sociali per cui alla chiesa non interessano i voti, ma le persone. La missione della chiesa, infatti, si allarga alla responsabilità complessiva verso il bene comune, ma tutto si dirama a partire da quello che è il cuore e il nerbo portante della sua missione, il compito di comunicare al mondo la fede. Questo compito, in prima istanza, non interessa i parlamenti ma le persone nella loro coscienza e libertà. Raccogliere consensi e costruire maggioranze è indispensabile se si vuole influire sull’assetto sociale e che anche nella chiesa si operi in questa direzione non trovo indebito. Però sarebbe illusorio pensare che costruire un ordinamento sociale e politico conforme agli ideali cristiani di vita sia la condizione previa per poter comunicare agli uomini la fede. E’ vero piuttosto che i modi con cui la chiesa partecipa nella società al dibattito pubblico e alla ricerca del bene comune allargano o restringono, aprono o chiudono le vie della disponibilità delle persone all’ascolto del cuore del suo messaggio. Chi ha responsabilità pastorali che richiedono frequenti contatti con persone e ambienti in maggioranza lontani dalla chiesa e dalla fede, come sono, per esempio, gli ambienti universitari, può testimoniare il cambiamento che, dopo un periodo di bella apertura al dialogo, è avvenuto in questi ultimi decenni, con una forte crescita della diffidenza verso la proposta cristiana. La buona coscienza sulla correttezza morale e istituzionale dei propri interventi nella vita sociale non basta a risolvere il problema degli effetti negativi che ne sono derivati. Se la preoccupazione per il primato del vangelo valeva nei confronti dei rischi che la teologia della liberazione poteva incontrare nel suo modo di impostare le responsabilità della chiesa di fronte all’ingiustizia sociale, la medesima preoccupazione dovrebbe valere anche nella nostra situazione odierna. Solo una viva preoccupazione per la fede delle persone sarà capace di costruire un nuovo equilibrio dei rapporti della chiesa con la cultura contemporanea, che non le impedisca di manifestare il proprio giudizio morale sui temi che vi si dibattono, ma che allo stesso tempo non sia - né sembri che lo sia - volontà di imporre alla società e alle sue istanze legislative le soluzioni da adottare, invece di proporre a tutti il suo vangelo, con i suoi valori, come fonte di ispirazione per tutti coloro che sono alla ricerca della soluzione più giusta dei problemi del bene comune.

La difficoltà che la chiesa italiana sperimenta nel trovare la via giusta mi sembra, almeno in parte, dovuta al fatto che l’impostazione tradizionale dell’attività pastorale e dell’esercizio di una responsabilità politica della chiesa in Italia sono state, e in gran parte lo sono ancora, fondamentalmente basate sul presupposto che la fede si trasmetta anche oggi di generazione in generazione, che la popolazione sia ancora in massima parte cristiana e cattolica e che il vero problema consista nel far fruttificare al livello sociale e politico una fede che di fatto caratterizzerebbe la stragrande maggioranza dei cittadini italiani. Lungo l’evolversi dell’età moderna, con l’insorgere della controversia fra la chiesa e lo stato laico, questa era stata la base della pretesa della chiesa di determinare sul piano dei valori morali tutta la vita civile e tutta la legislazione. Teologi e canonisti avevano elaborato la teoria giuridica del Diritto pubblico ecclesiastico, normalmente insegnata nelle scuole di teologia, secondo la quale la chiesa ha il diritto di esercitare un potere indiretto sullo stato. Dopo che il magistero aveva riconosciuto il valore positivo dei sistemi democratici di governo3, l’azione della chiesa italiana, invece, si è andata inserendo nel processo democratico confidando, data la convinzione persistente di una popolazione italiana tutta cattolica, di poter comunque essere sorretta dal consenso degli italiani, senza bisogno di ricorrere alla teoria giuridica del potere indiretto sullo stato, che ormai nessuno era più disposto ad accettare. Anche se bisogna ricordare che la dottrina continuò ad essere insegnata nelle scuole di teologia fino agli anni ’60 e così si venivano a giustificare frequenti interferenze della Santa Sede e dell’episcopato nella vita politica, possibili grazie alle maggioranze cattoliche che sedevano al banco di governo della cosa pubblica.

Oggi la laicità dello stato è ritenuta da tutti, laici e cattolici, un valore condiviso e irrinunciabile e sarebbe grave che qualcuno cercasse di restaurare in forme surrettizie il vecchio sistema del potere indiretto. Però anche il presupposto che la chiesa possa contare su un vasto consenso popolare alle direttive del suo magistero è stato demolito dagli eventi ricordati e accaduti nell’ultimo trentennio. Ciò di cui, sia per l’azione pastorale che per l’iniziativa politica della chiesa, bisogna prima di tutto prendere atto è che la crisi dei rapporti fra chiesa e società ha il suo punto nevralgico nella crisi della fede. Solo partendo dal mettere in primo piano, quindi, l’attenzione alle persone, da raggiungere nei loro bisogni interiori e nella loro ricerca del senso, e la cura dell’annuncio del vangelo, la chiesa potrà demolire le barriere fra la sua parola e le coscienze e rapportarsi positivamente con la cultura contemporanea, la vita e gli assetti della società civile. Non perché il vangelo non venga a contestare il costume di vita dominante, ma perché la sua proposta si dirige alla libertà di decisione delle persone e non può appoggiarsi al potere delle istituzioni.

Il primato e l’urgenza dell’evangelizzazione nei paesi di antica tradizione cristiana non erano stati oggetto di particolare attenzione da parte del concilio Vaticano II. Cinquant’anni fa il quadro della realtà era ancora molto diverso. L’attenzione al tema, ovviamente, non poteva mancare, però compare soprattutto in Ad gentes, dove la predicazione del vangelo è considerata come un’opera intesa a “fondare la Chiesa in mezzo ai popoli ed ai gruppi umani che ancora non credono in Cristo” (AG 6). Il nostro problema, invece, si colloca in un ambiente nel quale la chiesa non solo è già fondata, ma anche massiciamente strutturata e presente in maniera imponente, con tutte le sue innumerevoli istituzioni, nella società civile. Qui l’opera dell’evangelizzazione si intreccia in maniera inevitabile con il problema del rapporto della chiesa con la cultura dominante e il quadro sociale e politico e ne resta condizionata. L’opera del concilio, quindi, tesa ad avviare, dopo secoli di conflitto fra chiesa e modernità, un rapporto dialogico con il mondo contemporaneo, se non viene disattesa, ha un’importanza decisiva. I padri conciliari, infatti, hanno spianato la strada del rapporto con gli uomini del nostro tempo, cercando di sgomberare la via della comunicazione della fede dagli ostacoli che la ingombravano: per farlo hanno imposto alla chiesa di enunciare la verità con un rispetto e un amore che “deve estendersi pure a coloro che pensano od operano diversamente da noi nelle cose sociali, politiche e persino religiose”, sicuri che “con quanta maggiore umanità e amore penetreremo nei loro modi di vedere, tanto più facilmente potremo con loro iniziare un dialogo” (GS 28). Per il concilio il superamento della vecchia mentalità, sostenuta dalla nostalgia di una società dipendente nel suo costume e nella sua legislazione dalla chiesa, deve partire dal convincimento che “la forza che la chiesa riesce a immettere nella società umana contemporanea consiste in quella fede e carità effettivamente vissute, e non in una qualche sovranità esteriore esercitata con mezzi puramente umani” (GS 42). A scorrere i documenti si nota la preoccupazione dei padri di evitare tutte quelle controversie che, indipendentemente dal buon diritto che la chiesa avrebbe di sollevarle, possano impedire di fatto alle persone di cogliere il vero interesse della chiesa, che è solo quello di poter compiere la sua missione al servizio della fede e del bene comune: essi impegnano, quindi, la chiesa a rinunziare “all'esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni” (GS 76).

Se in questi ultimi decenni il dialogo con il mondo contemporaneo si è fortemente deteriorato, questo è avvenuto anche perché troppo spesso le indicazioni del concilio non sono state ascoltate e praticate. Così, di fronte all’abbandono della fede di molti, ci si ritrova ad essere meno ascoltati e più incapaci di intessere un colloquio che permetta l’invito a credere. Mentre il missionario che svolge il suo ministero là dove la chiesa non esiste ancora, o non ha ancora, un impianto istituzionale così imponente da condizionare la vita sociale e politica del paese, può parlare cuore a cuore, nei nostri paesi questo è molto più difficile. Il non credente dei paesi di antica tradizione cristiana, per aprirsi all’ascolto del messaggio evangelico deve superare i sospetti che gli vengono dalla storia sulla natura della chiesa, vecchie avversioni e avversioni nuove, provocate dalle sue prese di posizione su problematiche oggi molto sentite, dalle quali egli ricava l’idea che essa intenda tornare ad imporsi alla società, minandone la struttura laica e l’assetto democratico.

La sfida del momento è, quindi, quella di non deresponsabilizzarsi nei confronti dei problemi etici degli attuali orientamenti politici ma, allo stesso tempo, di conservare quello sguardo simpatetico verso il mondo contemporaneo con cui il concilio lo aveva guardato, apprezzandone i valori, oltre che sfidandolo sulle sue devianze, e coltivando la ricerca di un rapporto positivo con l’uomo d’oggi, nel rispetto dei suoi giudizi di coscienza, anche quando non condivisibili, e della sua pretesa di vivere in una società libera e pluralista. E’ questa un’impresa della quale ogni membro della chiesa, e non solo i suoi pastori, si può e si deve far carico, ma soprattutto coloro fra i cattolici, come gli operatori dei mezzi della comunicazione sociale, che hanno voce nel dibattito pubblico.

5. Dire il vangelo nella società secolarizzata

Nella consapevolezza di dover dare il proprio contributo alla soluzione dei problemi etici che la società d’oggi incontra e che questo non può avvenire se non nel confronto con le altre istanze della società, nella chiesa degli ultimi decenni si è preferito, dopo aver guardato inizialmente con diffidenza alle diverse dichiarazioni dei diritti dell’uomo, utilizzare proprio la carta dei diritti umani come terreno di incontro e di dialogo con la cultura laica. La scelta ha la sua ragione nel presupposto che non possa essere la propria fede ad offrire un terreno adeguato al dialogo con coloro che non la condividono. Eppure la parola di Dio risuonante sulle labbra di Gesù fu anche parola pienamente umana, e anche chi non crede nella sua divinità può percepirne e apprezzarne molti valori. Parlare di Gesù e del suo messaggio al mondo non cristiano non significa solamente fare una proposta di fede, ma anche sottoporre alla considerazione e alla valutazione degli uomini la proposta di vita dell’uomo Gesù, la cui vicenda umana rappresenta una pagina della storia di tutti, dei credenti e dei non credenti.

Il rapporto tra fede e valori umani costituisce un intreccio profondo all’interno di ogni spirito umano. Bisognerebbe a questo proposito riprendere in mano le pagine dei grandi teologi del Novecento che hanno preparato il concilio. Karl Rahner intitolava “Uditori della Parola” la sua prima opera, nella quale egli proponeva un’antropologia capace di mostrare quanto natura e grazia fossero profondamente intrecciate nel disegno di Dio sull’uomo. Henri De Lubac, ispirandosi a San Tommaso, scorgeva già nella struttura dell’uomo, così come è stato creato da Dio, una presenza di un “naturale desiderium videndi Deum”. La Gaudium et spes si collocava sulla medesima linea affermando che la storia umana non può essere pensata come fosse dotata di una sua dinamica e di una sua finalità puramente naturale, quasi che la salvezza soprannaturale, annunciata dal vangelo, le potesse sopravvenire solo dall’esterno. Se “il Signore è il fine della storia umana” (GS 45), non c’è problema della storia che non possa essere illuminato dalla sua parola, anche là dove essa non è conosciuta né accolta come parola di Dio. Per coloro che non credono in lui come risorto e Figlio di Dio, egli resta sempre un grande “esperto in umanità” e la sua vicenda di uomo, illuminata dal suo messaggio, conserva per tutti, di fronte ai problemi della vita e della società, una ricchezza di ispirazione e un fascino ineguagliabile.

Ritenere che la chiesa possa dialogare col mondo solo ragionando sulla legge naturale o solo a partire dalla Carta dei diritti dell’uomo significa sottostimare la persona umana, dimenticare che per sua natura ogni uomo ha una capacità recettiva degli stessi ideali evangelici, che anche chi non accederà alla professione di fede in Cristo potrà coltivare e attuare. Che la chiesa debba rassegnarsi a citare i vangeli e ripetere le parole di Gesù solo di fronte ai credenti in Cristo, nelle sue liturgie, nella catechesi, nella pubblicistica teologica e spirituale, e debba inibirsi dal farlo nei dibattiti televisivi, sui giornali, nelle esternazioni pubbliche dei politici che si professano cristiani, (come non ricordare quanto faceva Giorgio La Pira?), quando prende la parola nelle più alte sedi istituzionali della società civile non è una prospettiva accettabile. E’ vero che nei vangeli non troviamo la risposta ad ogni problema etico che insorge, ma è vero che vi troviamo ben di più. Non potremo addurre esplicite citazioni evangeliche per condannare l’aborto, l’eutanasia, la ricerca sulle cellule staminali embrionali, l’ingiustizia della disoccupazione e del rifiuto di accoglienza degli immigrati, ma l’altissima considerazione di Gesù per la persona umana sarà sempre e per chiunque una provocazione capace di risvegliare le coscienze e muoverle alla ricerca delle soluzioni più alte dei problemi che agitano la vita sociale e politica.

Del resto se osserviamo la sorte della teologia nella cultura del Novecento è facile costatare come, fra i teologi, il più ascoltato dai pensatori non credenti non sia stato qualcuno dei grandi apologeti cattolici, ma un personaggio come Carlo Barth, il quale ha sempre preteso di attestare il suo pensiero esclusivamente sulla parola di Dio. Penso che anche oggi la proposta delle grandi ispirazioni evangeliche di vita sarà ben più capace di mettere in questione le numerose derive etiche del mondo di oggi che qualsiasi altro genere di argomentazione. Questo anche perché all’uomo d’oggi cosi geloso delle libertà individuali, essa suonerà chiaramente come una chiamata che non si affida al potere delle strutture e delle leggi, ma solo alle sue libere decisioni.
Una fiducia radicale ed esclusiva della chiesa nella pura e inerme parola del vangelo non può ignorare che in politica non avrebbe senso agire senza perseguire, impiegando onestamente tutte le proprie forze, l’efficienza della propria azione. Mettere insieme i due atteggiamenti, però, è possibile solo che si applichi quella “chiara distinzione” postulata dal concilio “tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della chiesa in comunione con i loro pastori” La chiesa in quanto tale, con in testa i suoi pastori, deve invece restare “il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana”. I singoli fedeli, quindi, mireranno all’efficienza politica della loro azione con tutti i mezzi moralmente leciti e giuridicamente corretti, mentre a “tutti quelli che si dedicano al ministero della parola di Dio” il concilio si raccomanda che “utilizzino le vie e i mezzi propri del Vangelo, i quali differiscono in molti punti dai mezzi propri della città terrestre” (GS 76).

Perché questa distinzione possa funzionare è ovvio che i laici dovrebbero godere di un ampio spazio di manovra, grazie al quale la loro azione non risulti appiattita su una qualche decisione dei loro vescovi, nonostante la loro adesione al loro magistero dottrinale. Oltre a tutto viviamo dentro un quadro politico nel quale, se dall’autorità della chiesa venissero, in occasione delle elezioni, imposizioni restrittive nella scelta degli schieramenti, si giungerebbe facilmente ad una sorta di un nuovo non expedit. Infatti, se bisogna avanzare una riserva etica verso uno schieramento per i suoi programmi in tema di bioetica, bisogna avanzarne un’altra, ugualmente seria, verso l’altro schieramento nei temi della giustizia sociale. Se i primi temi vengono abitualmente definiti come “eticamente sensibili”, non lo sono di meno i secondi. Al cittadino cristiano non resta, quindi, che applicare il criterio del minor male e rispettare gli altri fedeli che “altrettanto sinceramente potranno esprimere un giudizio diverso sulla medesima questione, come succede abbastanza spesso e legittimamente”. Il numero 43 della GS suggerisce anche la via da percorrere per evitare il cortocircuito fra i pronunciamenti del magistero e la vita politica della società civile, quando invita i laici a non pensare “che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a questo li chiami la loro missione; assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del magistero”. Adottando una elastica e variegata articolazione della propria presenza attiva nella società, la chiesa potrà evitare di diventare l’avversario politico di una parte della società. La sua parola, sostenuta dall’entusiasmo per la propria fede, più che dalla fiducia nella sua possibilità di risultare efficiente, potrebbe volare alto e avere via libera per essere ascoltata con interesse da chiunque.

6. Conclusione

In questi ultimi anni non è solo il problema politico a condizionare pesantemente l’opera dell’evangelizzazione. Il coinvolgimento di preti e vescovi nello scandalo della pedofilia, la denuncia di transazioni finanziarie condotte in maniera scorretta o disonesta da istituzioni ecclesiastiche, hanno logorato gravemente l’autorevolezza morale della chiesa, al punto da rendere sempre più controproducente l’assunzione di atteggiamenti - come diceva Pio XI - da “maestra e guida” del mondo. Poiché le umiliazioni le vengono dall’interno, dai suoi membri, la chiesa umiliata è chiamata a diventare una chiesa umile. Mai come oggi la già citata affermazione del Vaticano II, “La chiesa … sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena” (GS 40), la impegna ad abbandonare ogni atteggiamento di superiorità ed a sentirsi solidale nel bene e nel male con tutti gli uomini. “Possano la nostra tristezza e le nostre lacrime – con questa preghiera il papa concludeva la sua lettera alle chiese irlandesi - il nostro sforzo sincero di raddrizzare gli errori del passato, e il nostro fermo proposito di correzione, portare abbondanti frutti di grazia per l’approfondimento della fede… e per la crescita della carità, della giustizia, della gioia e della pace, nell’intera famiglia umana”4. L’umiltà del resto non è che una virtù evangelica e le virtù evangeliche non impegnano solo le persone ma anche le istituzioni.
In questo cammino verso una chiesa umile non trascurerei il problema delle forme esteriori con le quali essa si mostra in pubblico. Immagini di splendore, di ricchezza, di potenza che ne accompagnano l’apparizione sulla scena del mondo, sia nell’apparato liturgico sia in quello degli ambienti, degli abbigliamenti delle persone, degli arredi dei luoghi nei quali si intrecciano le relazioni pubbliche della chiesa, così come oggi si presentano sugli schermi dei mezzi di comunicazione non testimoniano, di fatto, una chiesa umile. Non è giusto liquidare la questione come un problema marginale, anche se tale effettivamente lo è nella sostanza delle cose, perché basta che qualcuno, fosse una sola persona al mondo, vi trovi un ostacolo all’accoglienza del vangelo o un motivo di sfiducia nella chiesa, perché la cosa diventi degna di considerazione e stimoli a cambiare.
E’ vero che, invece di condividere questo percorso, c’è chi sogna di poter ovviare alla crisi presente stringendo le file dei cattolici, per ricostruire un’identità forte e compatta, capace di porre un argine alle derive del mondo d’oggi. Allo stesso tempo, spuntano qua e là forme di rigorismo inusitato. Ci sono parroci che rifiutano con leggerezza l’ammissione ai sacramenti, rompendo i rapporti con cattolici marginali che li chiedono. Si danno casi di esasperazione delle norme canoniche e liturgiche per la celebrazione dei matrimoni quando uno degli sposi non è credente, perdendo così una preziosa occasione di un dialogo sulla fede. Si ascoltano e si leggono esposizioni di imperativi morali e canonici che abbandonano la saggezza di una tradizione, la quale ha sempre elaborato criteri di mediazione fra principi e situazioni concrete, di valutazione del male minore, di interpretazione delle norme alla luce del principio “Favorabilia amplianda et odiosa restringenda”, ecc. Orientamenti di questo genere non ottengono alcun frutto positivo, producono l’allontanamento dalla chiesa, quando non dalla fede, dei deboli e degli incerti e bloccano la ricerca di fede di molti che la desiderano. L’accentuazione degli antagonismi non fa che aumentare le distanze. Per questo vedo con grande preoccupazione, l’ipotesi che nella nuova edizione del messale, nella formula della consacrazione del vino le parole “versato per voi e per tutti” vengano mutate nell’espressione “per voi e per molti”. Un cambiamento di questo genere avrebbe di sicuro una grande risonanza nell’opinione pubblica e verrebbe a confermare che c’è nella chiesa una volontà restrittiva nei confronti dei non credenti, la quale certamente non è in grado di propiziare il loro avvicinamento alla fede.

Invece di nuovi rigorismi i cristiani oggi hanno bisogno di una nuova speranza e loro compito è comunicarla al mondo. Se la situazione non sembra favorirla, questo accade solo perché la si è troppo appoggiata alla presunzione di poter fruire di un certo potere nell’influire sul costume e sull’evoluzione della società contemporanea. Se Paolo poteva dire “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10), vuol dire che si può e si deve guardare al futuro con gioiosa fiducia. I monaci di Tibhirine, in una situazione ben diversamente drammatica, di fronte all’ipotesi che delle strutture della chiesa in Algeria in futuro restasse ben poco, professavano la fede nello Spirito che “lavora nel profondo del cuore degli uomini” e così potevano essere sicuri che se “il vangelo è seminato … il grano germoglierà”. Certamente la nostra chiesa è destinata nel prossimo futuro ad ulteriori spogliazioni. Cadranno molte cose, perderanno smalto o forse spariranno molte istituzioni ecclesiastiche, saremo considerati dal grande mondo ancor meno di quanto lo siamo oggi, ma sono convinto che allora, nella semplicità e nella povertà, si ritroverà più fresco lo slancio del vangelo. Già ne stiamo scorgendo i segni, per esempio, nella invenzione di nuove forme per l’evangelizzazione adatte alla nostra gente, nella incipiente cura dei catecumeni nelle chiese locali, nella crescita del numero di adulti che chiedono il battesimo. La spogliazione a cui la chiesa in futuro sarà esposta, per il calo numerico dei fedeli, la perdita di influenza sulla società, la riduzione delle sue proprietà e dei suoi mezzi di azione, dovrebbe portare con sé un solo rammarico, quello per gli uomini che perdono la fede, perché li amiamo e, se non godono della bellezza della fede, ce ne dispiace moltissimo. Per il resto tutto può essere visto come un’azione provvidenziale del Signore che vuole la sua chiesa umile e povera, come lo fu lui nella sua vita in mezzo agli uomini. Trovo molto significativo il riconoscimento che il Daily Mail del 21 settembre, assieme a molti altri giornali britannici, ha tributato alla predicazione del papa nel Regno Unito, scrivendo che le sue parole “hanno emanato una grande autorevolezza”, perché pronunciate “nel modo più calmo, più mite e meno altisonante possibile”. In maggiore povertà e con più sincera umiltà recupereremo una più ampia libertà e, quindi, l’entusiasmo e l’audacia per andare incontro a tutti, non con l’ansia di doverci scontrare con degli avversari, ma con la parola del vangelo da donare al mondo.



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31/01/2011 21:56
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Autostima
Gianfranco Ravasi

La prova principale della vera grandezza di un uomo consiste nella percezione della propria piccolezza.

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A Londra esiste un intero museo dedicato a Sherlock Holmes, il famoso investigatore nato dalla fantasia dello scrittore scozzese Arthur Conan Doyle (1859-1930). Da uno dei suoi romanzi, Il segno dei quattro, estraiamo questa citazione sul valore della persona.
È noto, infatti, che Holmes spesso risolve i suoi casi attraverso uno scavo intimo nella verità psicologica dei vari personaggi coinvolti nel delitto. La considerazione è semplice: l-uomo interiormente grande (e non quello che è tale per il potere o il successo conquistato: egli di solito smentisce questa regola) è umile, non prevarica, non si pavoneggia, ascolta gli altri e rispetta la dignità di tutti, anche delle persone modeste o misere.La tentazione di far crescere a dismisura la propria autostima è sempre in agguato e, senza cadere nell-eccesso opposto del masochismo, è indispensabile essere sempre pronti a giudicarsi e a vagliare i propri comportamenti.

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Spesso, infatti, non ci si accorge neppure - presi come si è dalla propria glorificazione - di piombare nel ridicolo. Molti di noi avranno conosciuto persone, anche intelligenti, che però sono sempre affamate di lodi, di gratificazioni, di incenso e, così facendo, non s-accorgono neppure più dell-elogio falso e persino ironico.

Come diceva lo scrittore Mario Soldati, «l-umiltà è quella virtù che, quando la si ha, si crede di non averla».



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01/02/2011 11:06
 
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Giusti e peccatori
Gianfranco Ravasi

Ci sono due specie di uomini: giusti che si credono peccatori e peccatori che si credono giusti.

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Oggi è la festa nazionale francese: amo molto la lingua e la letteratura dei nostri cugini d-Oltralpe e per questo mi sono affidato per la nostra riflessione a un loro grande personaggio, il filosofo e scienziato Blaise Pascal, e a un detto dei suoi Pensieri, un-opera che posseggo in decine di edizioni e traduzioni diverse.
In quelle sue parole c-è l-eco della parabola del fariseo e del pubblicano, narrata da Gesù - stando a quanto riferisce Luca - per «coloro che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri» (18, 9-14).Com-è noto, Cristo ribalta le apparenze: il fariseo, perfetto e freddo osservante, colmo di sé e del suo orgoglio, si rivela come peccatore, mentre il pubblicano «torna a casa sua giustificato a differenza dell-altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato». L-opporre a Dio la propria giustizia come causa di salvezza, considerando Dio solo come il notaio che deve sancire ciò che noi sappiamo compiere, collide con tutta la dottrina paolina.

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Ma spesso c-è un aspetto più semplice e più misero: si è subito pronti a ritenersi giusti perché ci si giustifica sempre, cercando di attenuare e scolorire ogni nostra colpa scoprendo costantemente una scusante a ogni nostro errore. Il riconoscimento sereno e limpido di un peccato è un atto spesso difficile e sofferto ma è proprio in esso che si rivela la persona veramente giusta.

Anche perché «non c-è uomo giusto sulla terra che faccia sempre il bene e non pecchi mai» (Qohelet 7, 20).



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01/02/2011 11:18
 
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La cappella del diavolo
Gianfranco Ravasi

Ovunque Dio erige una chiesa,/ sempre il demonio innalza una cappella;/ e se vai a vedere, troverai/ che dal secondo ci sono più fedeli.

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Ogni tanto vado a trovare un vecchio professore, frenetico conservatore, convinto che siamo giunti alle soglie del giudizio finale perché il mondo si è ridotto a essere un-immensa Sodoma e Gomorra. Di solito lascio perdere i testi che mi suggerisce, ma questa volta lo accontento.
La citazione è dello scrittore inglese Daniel Defoe (1660-1731), l-autore di Robinson Crusoe. I versi suggeriti appartengono, però, al poema satirico Il vero inglese.Il mio interlocutore è convinto che le cappelle del demonio siano tutte le discoteche, i locali notturni, i cinema, gli stadi e quant-altro. Ma, al di là degli eccessi, c-è un pensiero che bisognerebbe considerare con qualche attenzione. Spesso le chiese sono deserte o popolate da fedeli un po- distratti e abitudinari.

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Le "cappelle" sataniche, cioè molti luoghi, forse neutri e quotidiani, apparentemente inoffensivi, possono essere invece frequentate da assidui e fervorosi operatori del male. Pensiamo agli ambiti di lavoro ove si ha poco rispetto dell-altro, alle case ove gli scontri sono aspri e la convivenza disumana, a certe sedi di chiacchiere inutili e malevole, a - perché no? - anche alcuni luoghi di divertimento volgare, di corruzione, di spaccio di droga, di sprechi scandalosi.

Già Lutero anticipava la frase di Defoe: «Dove Dio ha costruito una chiesa, il diavolo costruisce anche lui una sua cappella».



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01/02/2011 12:17
 
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Tre tristi sorelle
Gianfranco Ravasi

La vigliaccheria chiede: «È sicuro?». L'opportunità chiede: «È conveniente?». La vanagloria chiede: «È vantaggioso?».

La vera misura di un uomo si vede non nei momenti di comodità o convenienza, ma tutte le volte in cui affronta il rischio o la sfida. Vigliaccheria, Opportunità, Vanagloria: sì, sono tre tristi sorelle che passeggiano per le strade della storia col loro corteo di adepti. Ce lo ricorda nelle righe sopra citate un personaggio che le ha sempre snobbate, Martin Luther King, imboccando invece le vie del coraggio, del rischio, della laboriosa umiltà.
E a lui, assassinato a Memphis nel 1968 a 39 anni, s'adattavano pienamente le parole del Giulio Cesare di Shakespeare: «I vigliacchi muoiono molte volte prima di morire, mentre i coraggiosi provano il gusto della morte una sola volta».

Egli non calcolava il vantaggio personale, l'interesse privato, come gli suggeriva l'Opportunità, né misurava tutto il suo impegno sul successo promesso dalla Vanagloria. Purtroppo, però, dobbiamo riconoscere che lo stile di vita celebrato dalla società contemporanea è tutto racchiuso in quella trilogia.
Ciò che è sicuro, che conviene ed è vantaggioso è l'unità di misura costante adottata a partire dai politici, scendendo giù fino al popolo. Scegliere, invece, la giustizia, l'amore, l'impegno per gli altri è un rischio che si cerca di evitare.

Ed è così che si diventa meschini, gretti, mediocri; si è incapaci di un atto libero e gratuito, al punto tale che, se qualcuno si rivela generoso, viene sospettato di inganno o bollato di ingenuità (forte ma vera è la frase di uno dei "cafoni" del Fontamara di Silone: «Se è gratis, c'è l'inganno!»).
La lezione evangelica del perdere per trovare è aborrita dalle tre sorelle, per esse il dare non è più gioioso del ricevere; ma alla fine, una vita senza rischio o sfida, senza generosità e libertà è simile a un noioso pomeriggio invernale trascorso in casa, lasciando gocciolare le ore.



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01/02/2011 12:51
 
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La gemma e la montatura
Gianfranco Ravasi

La bellezza è come una ricca gemma, per la quale la montatura migliore è la più semplice.

Molti sono convinti che quanto più si è sofisticati, elaborati, ornati tanto più si è prestigiosi, ammirati, belli. In realtà, la qualità più difficile da raggiungere è la semplicità che è essenzialità. Essa colpisce con un solo sguardo e soltanto la persona superficiale la scambia per povertà.
È ciò che suggerisce nei suoi Saggi il filosofo inglese Francesco Bacone (1561-1626): se devo valorizzare una pietra preziosa, la via migliore è quella di affidarla a una cornice sobria, spoglia, capace di sorreggere la gemma ma non di mettersi in competizione con essa.

È, questa, una lezione che vale anche per le relazioni umane: chi è veramente grande di animo non si barda di arroganza, di prosopopea, ma sa mettersi spontaneamente spalla a spalla con gli altri, senza però impedire che la sua ricchezza interiore venga eliminata o nascosta.
Ritroviamo, allora, quella limpidità di pensiero e di tratto che Gesù aveva illustrato nel bambino e nella sua freschezza, nella sua libertà, nello stupore con cui guarda il mondo. Giacomo Leopardi, nei suoi appunti, ci ha lasciato questo "pensiero" suggestivo che ben condensa la nostra riflessione: «È curioso vedere che quasi tutti gli uomini che valgono molto, hanno le maniere semplici; e che quasi sempre le maniere semplici sono prese per indizio di poco valore».

La seconda parte della sua riflessione è l'altra faccia della semplicità: quella dell'essere scambiata spesso per "sempliciona", cioè per banale e rozza.
L'atteggiamento vacuo e ingenuo è, invece, la deformazione del vero volto della semplicità. Si conferma, così, quell'equivoco che è spesso in agguato tutte le volte che dobbiamo giudicare le realtà umane.



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01/02/2011 14:38
 
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Uomini e cani
Gianfranco Ravasi

Quando osservo attentamente le strane abitudini dei cani, mi tocca concludere che l'uomo è un animale più evoluto. Quando osservo le strane abitudini dell'uomo, ti confesso, amico mio, che resto dubbioso.

Sul prato di un parco romano osservo un signore che brandisce un ramo secco; lo scaglia lontano e il suo cane, che ha seguito con occhi mobili il gesto, si precipita a raccoglierlo. E così via, in una sequenza senza variazioni.
Non si può non restare ammirati per tanta devozione, ma anche per la sostanziale stupidità dell'animale. Si può, però, spostare l'attenzione anche sulla vacuità dell'uomo che impone un simile allenamento e si diverte in questo modo così banale. E allora si può raccogliere la provocazione, ben più sostanziosa, del poeta Ezra Pound (1885-1972) nella sua poesia emblematicamente intitolata Meditatio, della quale abbiamo citato un frammento.

L'evoluzione, certo, ha trasferito l'uomo su un livello più alto e l'arte lo testimonia, il pensiero lo conferma, la religione lo manifesta.
Eppure il dubbio che serpeggia nella mente pessimista del poeta tante volte attanaglia un po' anche noi, quando scopriamo certe vergogne compiute dall'uomo o penetriamo nei bassifondi della nostra stessa coscienza ove s'annidano sentimenti infami e desideri innominabili e ove si aprono abissi di assurdità. Uno dei grandi sapienti dell'antichità, Democrito di Abdera (V-IV sec. a C.), diceva che l'uomo è un mikrós kósmos, un microcosmo di sapienza, intelligenza, creatività. Ma aveva ragione anche Goethe quando, nel suo celebre Faust, dichiarava che «l'uomo è un microcosmo di follia».

E il cane, rivolgendo il suo muso umido verso il padrone crudele, sembra sospettarlo.



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02/02/2011 00:05
 
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Fumare in miniera
Gianfranco Ravasi

La nostra democrazia è minata. E i nostri rappresentanti mi fanno l'effetto di minatori incoscienti che si mettono a fumare sigarette in una miniera piena di grisou.

Sarà un genere letterario parlare male dei politici, ma bisogna riconoscere che essi fanno di tutto per meritarselo. Mai come ai nostri giorni è confermato - soprattutto in Italia - il sospetto dello scrittore inglese Robert L. Stevenson (sì, quello del dottor Jekyll e di mister Hyde-), secondo il quale «la politica è l'unica professione per la quale non si considera necessaria nessuna preparazione specifica».
Ma il filosofo Norberto Bobbio (1909-2004), nella lettera da noi citata, indirizzata nel 1964 allo storico Tamburrano, aggiungeva un aspetto ulteriore: il rischio che fa correre a un'intera nazione l'impreparazione, la superficialità, l'incoscienza di una certa classe politica.

E a proposito di fumo, vorrei citare qui le parole sferzanti di Indro Montanelli: «Strano paese il nostro. Colpisce i venditori abusivi di sigarette ma premia i venditori di fumo». E continuava: «Abbiamo un debole per i governanti che dicono quello che pensano. Solo vorremmo che ogni tanto pensassero a quello che dicono». Detto questo, però, desidero affidare a tutti voi una riflessione antitetica, proposta da un politico ben diverso, Giorgio La Pira (1904-1977): «Non si dica quella solita frase poco seria: la politica è una cosa brutta! No: l'impegno politico è un impegno di umanità e di santità; è un impegno che deve poter convogliare verso di sé gli sforzi di una vita tutta tessuta di preghiera e di meditazione, di prudenza, di fortezza, di giustizia e di carità».

E se è vero che ogni nazione ha i governanti che si merita, forse è il caso che l'onestà, il rigore, la preparazione, la serietà, la giustizia si affermino prima di tutto a partire dal basso.



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02/02/2011 11:53
 
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Senza contenuto
Gianfranco Ravasi

La maggior parte delle parole comunemente adoperate dai politici sono sovrattutto notabili per la mancanza di contenuto.

È proprio un politico, che conosco da tempo, a inviarmi questa frase estratta dalle Prediche inutili di un altro famoso uomo politico, Luigi Einaudi (1874-1961), che fu presidente della nostra repubblica oltre che insigne economista.
Questa considerazione è ovvia eppure è sempre necessaria in tempi in cui la comunicazione di massa è egemone e capace di incidere nell-adesione spesso acritica.

Ma la riflessione di Einaudi vale anche se si dovesse cancellare dalla frase il complemento d-agente, cioè "dai politici". Sì, perché «la maggior parte delle parole comunemente adoperate sono notabili per la mancanza di contenuto» nei discorsi della gente di ogni genere e classe sociale. Ritorna, così, un tema mai sufficientemente ribadito, quello del pensare prima di parlare, del ponderare prima di giudicare, del riflettere prima di reagire.

Si narra che Adriano VI, papa di origine fiamminga che resse la Chiesa per un anno e otto mesi nel 1522-23, rispondesse abitualmente a chi gli proponeva una questione da risolvere: videbimus et cogitabimus, cioè "vedremo e rifletteremo". Una risposta sapiente, anche se può avere un risvolto negativo di cui siamo spesso consapevoli, ancora una volta in sede politica e burocratica, cioè l-infinita dilazione delle soluzioni e degli interventi, sotto l-apparente scudo del vaglio dei problemi.

Tuttavia in tempi di frenesia decisionale e di loquacità dirompente un po- di ascesi nel parlare e nel decidere non può che essere auspicata per tutti.



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02/02/2011 12:25
 
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Pranzi e appetito
Gianfranco Ravasi

La società si compone di due grandi classi: quelli che hanno più pranzi che appetito, e quelli che hanno più appetito che pranzi.

Nicolas de Chamfort (1740-1794) fu un autore impietoso e ironico, testimone di un-epoca storica tormentata, quella della Rivoluzione francese che egli prima sostenne e poi criticò (morì suicida per non essere arrestato). Ebbene, sfogliando le sue Massime e pensieri, incrocio a caso la frase che oggi propongo e che è forse ancor più urgente nella nostra società ove al benessere opulento di pochi si oppone la povertà e la fame di tantissimi.

Il tema è spesso riproposto, ci commuove quando assistiamo a servizi televisivi impressionanti su intere nazioni affamate, deprechiamo l-ottusità della politica mondiale e il folle scialo di risorse causato dalla corsa agli armamenti.
Poi si volta pagina e magari il telegiornale ci offre l-ultimo sguaiato servizio sulla moda e sul relativo circo gaudente. D-altronde, che cosa possiamo fare noi, piccoli esseri o pedine di uno scacchiere ben più vasto, di fronte a queste tragedie?

Oltre a far sentire chiara e forte la nostra voce contro la guerra e contro una certa globalizzazione solo di interessi, dobbiamo ricordare una cosa semplice. Le ingiustizie planetarie non devono essere un alibi per esimerci dai piccoli atti di giustizia e di carità nei confronti di chi è accanto a noi e che forse sarebbe contento di possedere anche solo ciò che lasciamo sulle nostre tavole o quello che è per noi del tutto secondario.

Certo è poco, ma è con le piccole cose che si compongono le grandi.



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02/02/2011 17:26
 
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La Storia
Gianfranco Ravasi

Ciò che l'esperienza e la storia insegnano è questo: che uomini e governi non hanno mai imparato nulla dalla storia, né mai agito in base a principi da essa dedotti.

Queste parole del celebre filosofo tedesco Georg W.F. Hegel sono tratte dalle sue Lezioni sulla filosofia della storia. Non male per un pensatore convinto che la storia fosse in un crescendo dinamico ascendente!
Il nostro poeta Montale nella sua raccolta Satura non meno pessimisticamente osservava che il detto latino historia magistra vitae è illusorio: «La storia non è magistra/ di niente che ci riguardi./ Accorgersene non serve/ a farla più vera e più giusta». È indubbio che da secoli l-umanità ripete con caparbietà gli stessi errori, moltiplica con pertinacia gli stessi crimini, perdura in un autolesionismo che nessuna "civiltà" riesce a bloccare.

Mi ricordo che una delle volte in cui sono passato da Ankara e dal sontuoso ed enfatico memoriale dedicato ad Atatürk, il padre della Turchia moderna, una guida mi tradusse una delle frasi di quel mausoleo: «La spada della giustizia colpisce talvolta gli innocenti, ma la spada della storia colpisce i deboli». Quello che per noi sarebbe un atto esecrando, forse veniva proposto come un monito a non essere deboli e vittime ma potenti e vincitori.
La lunga scia di sangue della storia a un cristiano e a un uomo di pace dev-essere, invece, stimolo per non rassegnarsi. Lasciarsi trascinare da quel flusso inarrestabile, abbandonarsi allo scoraggiamento o all-indifferenza non può che continuare a generare mostri.

Il piccolo gesto di amore, di giustizia, di non violenza, di perdono è, sì, una goccia nel mare ma tante gocce possono cambiare il colore del mare.



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02/02/2011 17:58
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


I due deserti
Gianfranco Ravasi

Meravigliosa è la forza dei deserti d-Oriente fatti di pietre, di sabbia e di sole, dove anche l-uomo più gretto capisce la propria pochezza di fronte alla vastità del creato e agli abissi dell-eternità, ma ancor più potente è il deserto delle città fatto di moltitudini, di strepiti, di ruote, d-asfalto, di luci elettriche, e di orologi che vanno tutti insieme e pronunciano tutti nello stesso istante la medesima condanna.

Due deserti antitetici, entrambi affascinanti e impressionanti, stanno dunque davanti a noi. Ce lo ricorda in questa bella descrizione Dino Buzzati (1906-1972) nel racconto L-umiltà. Il primo deserto è, se si vuole, quello biblico, ma è anche la metafora di uno stato esistenziale aperto a tutti.
È il luogo della solitudine in cui scopri te stesso attraverso il silenzio delle cose e l-immensità degli spazi. Penetri nella tua coscienza, nella tua fragilità, nel tuo limite ma avverti anche la presenza dell-Infinito e del divino.L-altro deserto è quello urbano che incontriamo ogni giorno.

Apparentemente siamo all-antipodo perché qui c-è frenesia, strepito, accumulo di cose e di presenze. Eppure ci si può anche qui trovare con se stessi, con la consapevolezza di essere ben poca cosa, un granello nell-ingranaggio della società, immersi in un tempo che è subito consumato. Qui il rischio è opposto: ci si può gettare nell-azione senza sosta e respiro, quasi a colmare il vuoto che si sente affiorare nel cuore.

Il deserto, perciò, comunque esso sia - come ci ricorda la Bibbia - è sede di intimità ma anche luogo di tentazione, è pace ed è morte.



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03/02/2011 00:34
 
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Sulla nave della vita
Gianfranco Ravasi

Su questa immensa nave dove tutti galleggiamo, in un angolo si soffre, in un altro si uccide, poco più in là si balla. Ma l-equipaggio tiene la rotta, anche se nessuno arriva a destinazione.

Così parla con amaro pessimismo uno dei personaggi del romanzo Le ali ai piedi (Mondadori) che la scrittrice Laura Bosio mi ha inviato appena edito. Il libro, che è un finissimo viaggio dentro la vita per approdare alla morte, condotto da due donne, contiene una piccola folla di persone, eventi, luoghi ove si celebra la liturgia dell-esistenza con le sue glorie e le sue miserie, i suoi amori e le sue crudeltà.
Il percorso avanza, pur ripetendosi, ma - secondo la visione di quel personaggio - non conosce una meta, cioè l-approdo in un porto sereno sulla cui riva si stenda una bella città.

Abbiamo voluto evocare quest-immagine della navigazione per raffigurare la vita perché essa ben esprime le sensazioni di molti che lasciano fluire i loro giorni nella consapevolezza che essi non hanno uno sbocco da attendere, una destinazione significativa. È proprio l-antitesi della visione della Bibbia che ha come ultima pagina l-affresco di una Gerusalemme nuova ove si placa la nostra ansia, ove si cancella la desolazione, ove Dio incontra la sua creatura attirandola a sé nell-eternità della sua luce.

Ciò che manca a molti, mentre sono sulla nave della vita, è proprio questa speranza: avere una meta, un senso, una destinazione che dia un significato al lungo navigare e che non sia un naufragio nel nulla.



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03/02/2011 01:18
 
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Il giocatore
Gianfranco Ravasi

Un giocatore perde sempre. Perde denaro, dignità e tempo. E se vince, tesse intorno a sé una tela di ragno.

Si è spesso parlato in questi ultimi tempi di una degenerazione legata alle molteplici forme di gioco legalizzato e no (bingo, slot-machine, scommesse e così via). Si tratta di una vera e propria sindrome che porta la persona a gesti ignominiosi e assurdi: in passato c-erano i suicidi di chi aveva dilapidato tutto ai casinò, ora c-è in agguato l-usura, il furto e altre vergogne pur di soddisfare questa fame inesauribile.

Già nel XII sec. il filosofo ebreo spagnolo Mosè Maimonide, da noi citato, ammoniva che il giocatore in realtà perde sempre: anche nel caso della vincita, quel guadagno è simile a una ragnatela fragile e inconsistente che subito viene disfatta.Lo scrittore Stefano Benni nel suo Bar Sport ironizzava: «Il poker si gioca in quattro, oppure in tre col morto, o anche meglio in tre col pollo».
Purtroppo ciò che rovina il gioco è proprio il denaro, l-ansia di guadagno, l-egoismo di avere sempre più (si pensi al calcio-).

In realtà, come è stato spiegato da studi importanti, il giocare è un-attività fondamentale e creativa: basta ammirare il bambino coinvolto anche nel più semplice dei giochi (purtroppo quelli dei nostri giorni sono giochi sempre più privi di fantasia, solo "tecnologici"). Anche il libro biblico dei Proverbi immagina che la Sapienza divina giochi e danzi nell-opera della creazione (8, 30-31).

La stessa opera d-arte nasce dalla libertà creativa della fantasia e il gioco dell-immaginazione è il più affascinante.



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03/02/2011 01:25
 
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L'ombrello
Gianfranco Ravasi

Piove sul giusto e piove sull-ingiusto; ma sul giusto di più, perché l-ingiusto gli ruba l-ombrello.

Non so chi sia Lord Bowen a cui viene attribuita questa battuta, di classico humour inglese, che trovo su una rivista americana. Certo è che la sua variante della nota frase evangelica («Il Padre vostro celeste fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti», Matteo 5, 45) non è priva di una sua verità.
Ci sono persone sulle quali sembra accanirsi non solo la vita stessa ma anche il prossimo con un gusto quasi sadico. Le loro sono esistenze attraversate dalle prove, senza respiro o tregua.

L-accanimento della sorte si sposa con la prevaricazione e la prepotenza di coloro che li circondano.È, quindi, l-occasione per un esame di coscienza: spesso anche noi sottraiamo l-ombrello (sia pure metaforico) del sostegno, della protezione, del conforto a chi ci è accanto, preoccupati come siamo di non bagnarci noi, evitandoci così ogni difficoltà o disagio.
Pensare solo a se stessi, procedendo impavidi e indifferenti nella vita, può ferire o far cadere quanti stanno ai margini del nostro incedere. Riflettiamo troppo poco sull-alone che possono creare le nostre azioni: non sempre è un-aureola di luce ma talora è quasi una scarica di elettricità quella che emaniamo, seminando forse cattiverie o, per lo meno, freddezza e indifferenza.

Quel Dio che fa sorgere il sole e fa piovere per tutti ci invita a preoccuparci di chi soffre di più il caldo e di chi patisce di più per il freddo.



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03/02/2011 01:55
 
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Il dovere
Gianfranco Ravasi

Dormii e sognai che la vita era bellezza. Mi svegliai, e trovai che la vita era dovere.

Trovo queste righe, attribuite a Ellen Sturgis Hooper (che non conosco neppure per l-opera da cui sono tratte, cioè Life was duty, "la vita era dovere") su un cartoncino di saluti che ricevo dagli Stati Uniti.
Il pensiero è semplice e forse non del tutto vero perché la vita non è solo dovere ma ha anche ampie oasi di bellezza, di serenità, di gioia. Tuttavia è indubbio che l-impegno, spesso faticoso e aspro, è la faccia dominante dell-esistenza e sottrarsi a questa realtà è un atteggiamento infantile e irrealistico.

Ci sono, infatti, persone che non si decidono mai a entrare nella vita con entrambi i piedi: vorrebbero rimanere sospesi nel limbo delle loro attese, dei loro sogni, delle illusioni. Il camminare a testa bassa nella quotidianità, in mezzo al deserto, sotto le intemperie e talora senza respiro richiede certamente coraggio, serietà, fedeltà.
Ma è proprio qui che si misura la vera umanità, la vocazione, la personalità. Il poeta francese Pierre Corneille nella sua tragedia Orazio (1640) ha questo verso: «Fate il vostro dovere e poi lasciate fare agli dèi». Cerchiamo di essere fedeli al nostro impegno, nel terreno ove siamo stati collocati, e poi Dio penserà a sostenerci e anche a sorprenderci.

Le parole che noi dovremmo dire sono quelle che ci ha suggerito Gesù: «Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili; abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Luca 17, 10).



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03/02/2011 10:39
 
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Il prete
Gianfranco Ravasi

Dove è scritto che il prete debba farsi voler bene? A Gesù o non è riuscito o non è importato.

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Questa frase è, certo, paradossale, ma contiene un-anima profonda di verità. L-aveva scritta un prete che non aveva voluto "farsi voler bene" a tutti i costi, don Lorenzo Milani, nella sua opera Esperienze pastorali pubblicata nel 1958.
Cristo stesso era stato definito "segno di contraddizione" e non esitava a dichiarare di essere venuto a portare una spada e la divisione. La sua parola, infatti, non ammetteva il compromesso e penetrava nelle coscienze separando bene e male, verità e menzogna, amore ed egoismo. Per questo attorno a lui s-era creata una cortina gelida di sospetto e di ostilità.

Un altro scrittore cattolico, il francese Georges Bernanos nel suo saggio La grande paura dei benpensanti, osservava che «uno dei principali responsabili, il solo responsabile forse, dell-avvilimento delle anime è il sacerdote mediocre». Se questo è un capo d-accusa per il prete quando non è più "trasparente" rispetto alla luce della Parola e della testimonianza di Cristo, lo è anche per il cristiano che si dissolve nella società in cui entra, scolorendosi e adattandosi.

Detto tutto questo con forza, non bisogna però dimenticare che Gesù amava ed era riamato dai suoi discepoli, dalle donne che lo accompagnavano, dalle folle che lo seguivano. Egli, infatti, aveva anche dolcezza e misericordia per gli ultimi e i poveri: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò- Io sono mite e umile di cuore».



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03/02/2011 14:30
 
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Il riso
Gianfranco Ravasi

I l riso castiga certi difetti pressappoco come la malattia castiga certi eccessi. Nessuno che una volta abbia riso veramente di cuore può essere irrimediabilmente cattivo. È stato detto che il ridere è proprio solo dell-uomo (la iena "ridens" è tutt'altra cosa).

Il filosofo francese Henri Bergson (1859-1941) ha scelto come soggetto di un suo saggio proprio il Riso, per studiare "il significato del comico".
Da questo testo, apparso nel 1899, ho tratto la prima citazione. C-è effettivamente una funzione purificatrice del riso che riesce a smitizzare certe arroganze, a colpire il potere, a demolire i luoghi comuni. È per questo che l-ironia è temuta sempre da chi comanda perché essa sa mostrare quando il re è nudo.
Nel suo Diario minimo Umberto Eco giungeva al punto di formulare questa specie di legge: «Quello che esce indenne dal riso è valido, quello che crolla doveva morire». E così arriviamo alla seconda frase sopra citata.

È di un altro pensatore e scrittore, l-inglese Thomas Carlyle (1795-1881), e la desumiamo da una sorta di romanzo filosofico sarcastico intitolato Sartor resartus. Il riso è anche specchio di bonomia, di serenità, di quiete interiore. Chi non è mai capace di un sorriso, ma è sempre cupo, ingrugnito, ostile, è seriamente malato nell-anima. A questo punto, elogiato il ridere come attività umana benefica, non lasciamo mancare una coda necessaria.

Terribile è, infatti, il riso sguaiato, volgare, aggressivo, stupido: «Come crepitio di pruni sotto una pentola, così è il riso degli stolti», dice Qohelet (7, 6).



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03/02/2011 15:45
 
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Re: perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti e di sole????
carisssssimo bestion [SM=x44597] tanto "pe ride un po!!" [SM=x44598] mah!!! toglimi una curiosita'!!! [SM=x44597] "to pare" si quello che sta in cima alla montagna che veste anche di bianco per farsi meglio riconoscere [SM=x44599] [SM=x44600] che discepolo ha????? un 14" 26" 42" ???? [SM=x44600] [SM=x44600] [SM=x44600]

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non bisogna avere paura di un Popolo che non ha Potere ma di chi detiene il Potere di Quel Popolo
anche perché la MORTE non accetta una lira
03/02/2011 17:43
 
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Il cinico
Gianfranco Ravasi

Che cos'è un cinico? Uno che sa il prezzo di ogni cosa e il valore di nessuna.

Questa famosa battuta, presente nella commedia Il ventaglio di Lady Windermere che Oscar Wilde compose nel 1892, è efficace nel descrivere un atteggiamento che non viene mai meno.
Il cinismo è, infatti, considerato da molti una strada utile per il successo, e l-attrezzatura che richiede per percorrerla è fatta di insensibilità, di indifferenza, di disprezzo, di freddezza. Proseguendo per questa via, si giunge fino al punto di essere impassibili di fronte ai sentimenti, calpestati senza esitazione, divenendo imperturbabili davanti alla sofferenza degli altri.Uno schizzo di cinismo purtroppo contamina tutte le coscienze e spesso si allarga a macchia facendoci non di rado succubi del nostro egoismo e del nostro interesse personale. La china diventa, a questo punto, scivolosa; gli alibi e le scusanti si moltiplicano e il risultato è quello di avere forse risultati concreti utili ma di perdere amicizie, affetti, calore umano.

Ricordo la frase di uno scritto minore di Robert L. Stevenson, l-autore del celebre Dottor Jekyll e Mister Hyde (1886): «Odio il cinismo più del diavolo, a meno che non siano la stes sa cosa».
Ebbene, nell-insensibilità e nel disprezzo egoistico c-è effettivamente una presenza diabolica che dev-essere estirpata con la volontà e con la grazia, cioè con l-impegno personale e l-aiuto divino, così da ritrovare il valore autentico della realtà e la bellezza dell-amore generoso.



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