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La presenza di Dio

Ultimo Aggiornamento: 12/06/2020 09:44
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....poi sono nato fesso
e quindi tiro avanti e non mi svesto dei panni che son solito portare:
ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare e a culo tutto il resto!
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non bisogna avere paura di un Popolo che non ha Potere ma di chi detiene il Potere di Quel Popolo
anche perché la MORTE non accetta una lira
16/09/2011 11:54
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!

«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»
(Salmo 22, 2)





«Questo Salmo ci ha portati sul Golgota,
ai piedi della croce di Gesù, per rivivere
la sua passione e condividere la gioia
feconda della risurrezione»


... bisognava che il Cristo patisse

Benedetto XVI

Oggi vorrei affrontare un Salmo dalle forti implicazioni cristologiche, che continuamente affiora nei racconti della passione di Gesù, con la sua duplice dimensione di umiliazione e di gloria, di morte e di vita. È il Salmo 22, secondo la tradizione ebraica, 21 secondo la tradizione greco-latina, una preghiera accorata e toccante, di una densità umana e una ricchezza teologica che ne fanno uno tra i Salmi più pregati e studiati di tutto il Salterio. Si tratta di una lunga composizione poetica, e noi ci soffermeremo in particolare sulla sua prima parte, incentrata sul lamento, per approfondire alcune dimensioni significative della preghiera di supplica a Dio.

Questo Salmo presenta la figura di un innocente perseguitato e circondato da avversari che ne vogliono la morte; ed egli ricorre a Dio in un lamento doloroso che, nella certezza della fede, si apre misteriosamente alla lode. Nella sua preghiera, la realtà angosciante del presente e la memoria consolante del passato si alternano, in una sofferta presa di coscienza della propria situazione disperata che però non vuole rinunciare alla speranza. Il suo grido iniziale è un appello rivolto a un Dio che appare lontano, che non risponde e sembra averlo abbandonato:

«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Lontane dalla mia salvezza le parole del mio grido.
Mio Dio, grido di giorno e non rispondi;
di notte, e non c’è tregua per me» (vv. 2-3).

Dio tace, e questo silenzio lacera l’animo dell’orante, che incessantemente chiama, ma senza trovare risposta. I giorni e le notti si succedono, in una ricerca instancabile di una parola, di un aiuto che non viene; Dio sembra così distante, così dimentico, così assente. La preghiera chiede ascolto e risposta, sollecita un contatto, cerca una relazione che possa donare conforto e salvezza. Ma se Dio non risponde, il grido di aiuto si perde nel vuoto e la solitudine diventa insostenibile. Eppure, l’orante del nostro Salmo per ben tre volte, nel suo grido, chiama il Signore "mio" Dio, in un estremo atto di fiducia e di fede. Nonostante ogni apparenza, il Salmista non può credere che il legame con il Signore si sia interrotto totalmente; e mentre chiede il perché di un presunto abbandono incomprensibile, afferma che il "suo" Dio non lo può abbandonare.

Come è noto, il grido iniziale del Salmo, «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», è riportato dai Vangeli di Matteo e di Marco come il grido lanciato da Gesù morente sulla croce (cfr Mt 27,46; Mc 15,34). Esso esprime tutta la desolazione del Messia, Figlio di Dio, che sta affrontando il dramma della morte, una realtà totalmente contrapposta al Signore della vita. Abbandonato da quasi tutti i suoi, tradito e rinnegato da discepoli, attorniato da chi lo insulta, Gesù è sotto il peso schiacciante di una missione che deve passare per l’umiliazione e l’annichilimento. Perciò grida al Padre, e la sua sofferenza assume le parole dolenti del Salmo. Ma il suo non è un grido disperato, come non lo era quello del Salmista, che nella sua supplica percorre un cammino tormentato sfociando però infine in una prospettiva di lode, nella fiducia della vittoria divina. E poiché nell’uso ebraico citare l’inizio di un Salmo implicava un riferimento all’intero poema, la preghiera straziante di Gesù, pur mantenendo la sua carica di indicibile sofferenza, si apre alla certezza della gloria. «Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?», dirà il Risorto ai discepoli di Emmaus (Lc 24,26). Nella sua passione, in obbedienza al Padre, il Signore Gesù attraversa l’abbandono e la morte per giungere alla vita e donarla a tutti i credenti.

A questo grido iniziale di supplica, nel nostro Salmo 22, fa seguito, in doloroso contrasto, il ricordo del passato:

«In te confidarono i nostri padri,
confidarono e tu li liberasti;
a te gridarono e furono salvati,
in te confidarono e non rimasero delusi» (vv. 5-6).

Quel Dio che oggi al Salmista appare così lontano, è però il Signore misericordioso che Israele ha sempre sperimentato nella sua storia. Il popolo a cui l’orante appartiene è stato oggetto dell’amore di Dio e può testimoniarne la sua fedeltà. A cominciare dai Patriarchi, e poi in Egitto e nel lungo peregrinare nel deserto, nella permanenza nella terra promessa a contatto con popolazioni aggressive e nemiche, fino al buio dell’esilio, tutta la storia biblica è stata una storia di grida di aiuto da parte del popolo e di risposte salvifiche da parte di Dio. E il Salmista fa riferimento all’incrollabile fede dei suoi padri, che "confidarono" - per tre volte questa parola viene ripetuta - senza mai rimanere delusi. Ora tuttavia, sembra che questa catena di invocazioni fiduciose e risposte divine si sia interrotta; la situazione del Salmista sembra smentire tutta la storia della salvezza, rendendo ancor più dolorosa la realtà presente.

Ma Dio non può smentirsi, ed ecco allora che la preghiera torna a descrivere la situazione penosa dell’orante, per indurre il Signore ad avere pietà e intervenire, come aveva sempre fatto in passato. Il Salmista si definisce «verme e non un uomo, rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente» (v. 7), viene schernito, dileggiato (cfr v. 8) e ferito proprio nella fede: «Si rivolga al Signore; lui lo liberi, lo porti in salvo, se davvero lo ama» (v. 9), dicono. Sotto i colpi beffardi dell’ironia e dello spregio, sembra quasi che il perseguitato perda i propri connotati umani, come il Servo sofferente tratteggiato nel Libro di Isaia (cfr Is 52,14; 53,2b-3). E come il giusto oppresso del Libro della Sapienza (cfr 2,12-20), come Gesù sul Calvario (cfr Mt 27,39-43), il Salmista vede messo in questione il suo rapporto con il suo Signore, nella sottolineatura crudele e sarcastica di ciò che lo sta facendo soffrire: il silenzio di Dio, la sua apparente assenza. Eppure Dio è stato presente nell’esistenza dell’orante con una vicinanza e una tenerezza incontestabili. Il Salmista lo ricorda al Signore: «Sei proprio tu che mi hai tratto dal grembo, mi hai affidato al seno di mia madre. Al mio nascere, a te fui consegnato» (vv. 10-11a). Il Signore è il Dio della vita, che fa nascere e accoglie il neonato e se ne prende cura con affetto di padre. E se prima si era fatta memoria della fedeltà di Dio nella storia del popolo, ora l’orante rievoca la propria storia personale di rapporto con il Signore, risalendo al momento particolarmente significativo dell’inizio della sua vita. E lì, nonostante la desolazione del presente, il Salmista riconosce una vicinanza e un amore divini così radicali da poter ora esclamare, in una confessione piena di fede e generatrice di speranza: «dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio» (v. 11b).

Il lamento diventa ora supplica accorata: «Non stare lontano da me, perché l’angoscia è vicina e non c’è chi mi aiuti» (v. 12). L’unica vicinanza che il Salmista percepisce e che lo spaventa è quella dei nemici. E’ dunque necessario che Dio si faccia vicino e soccorra, perché i nemici circondano l’orante, lo accerchiano, e sono come tori poderosi, come leoni che spalancano le fauci per ruggire e sbranare (cfr vv. 13-14). L’angoscia altera la percezione del pericolo, ingrandendolo. Gli avversari appaiono invincibili, sono diventati animali feroci e pericolosissimi, mentre il Salmista è come un piccolo verme, impotente, senza difesa alcuna. Ma queste immagini usate nel Salmo servono anche a dire che quando l’uomo diventa brutale e aggredisce il fratello, qualcosa di animalesco prende il sopravvento in lui, sembra perdere ogni sembianza umana; la violenza ha sempre in sé qualcosa di bestiale e solo l’intervento salvifico di Dio può restituire l’uomo alla sua umanità. Ora, per il Salmista, oggetto di tanta feroce aggressione, sembra non esserci più scampo, e la morte inizia ad impossessarsi di lui: «Io sono come acqua versata, sono slogate tutte le mie ossa […] arido come un coccio è il mio vigore, la mia lingua si è incollata al palato […] si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte» (vv. 15.16.19). Con immagini drammatiche, che ritroviamo nei racconti della passione di Cristo, si descrive il disfacimento del corpo del condannato, l’arsura insopportabile che tormenta il morente e che trova eco nella richiesta di Gesù «Ho sete» (cfr Gv 19,28), per giungere al gesto definitivo degli aguzzini che, come i soldati sotto la croce, si spartiscono le vesti della vittima, considerata già morta (cfr Mt 27,35; Mc 15,24; Lc 23,34; Gv 19,23-24).

Ecco allora, impellente, di nuovo la richiesta di soccorso: «Ma tu, Signore, non stare lontano, mia forza, vieni presto in mio aiuto […] Salvami» (vv. 20.22a). È questo un grido che dischiude i cieli, perché proclama una fede, una certezza che va al di là di ogni dubbio, di ogni buio e di ogni desolazione. E il lamento si trasforma, lascia il posto alla lode nell’accoglienza della salvezza: «Tu mi hai risposto. Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea» (vv. 22c-23). Così, il Salmo si apre al rendimento di grazie, al grande inno finale che coinvolge tutto il popolo, i fedeli del Signore, l’assemblea liturgica, le generazioni future (cfr vv. 24-32). Il Signore è accorso in aiuto, ha salvato il povero e gli ha mostrato il suo volto di misericordia. Morte e vita si sono incrociate in un mistero inseparabile, e la vita ha trionfato, il Dio della salvezza si è mostrato Signore incontrastato, che tutti i confini della terra celebreranno e davanti al quale tutte le famiglie dei popoli si prostreranno. È la vittoria della fede, che può trasformare la morte in dono della vita, l’abisso del dolore in fonte di speranza.

Fratelli e sorelle carissimi, questo Salmo ci ha portati sul Golgota, ai piedi della croce di Gesù, per rivivere la sua passione e condividere la gioia feconda della risurrezione. Lasciamoci dunque invadere dalla luce del mistero pasquale anche nell'apparente assenza di Dio, anche nel silenzio di Dio, e, come i discepoli di Emmaus, impariamo a discernere la vera realtà al di là delle apparenze, riconoscendo il cammino dell’esaltazione proprio nell’umiliazione, e il pieno manifestarsi della vita nella morte, nella croce. Così, riponendo tutta la nostra fiducia e la nostra speranza in Dio Padre, in ogni angoscia Lo potremo pregare anche noi con fede, e il nostro grido di aiuto si trasformerà in canto di lode. Grazie.



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Bestion., 16/09/2011 11.54:


«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»
(Salmo 22, 2)




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anche perché la MORTE non accetta una lira
16/09/2011 23:03
 
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16/09/2011 23:04
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Cosa dire di fronte alla sofferenza-croce


“Crocifissione" - Jacopo Robusti detto il Tintoretto (1581) - Museo Eremitani, Padova

«Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio
sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce
proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento,
i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più»

(Benedetto XVI)



Perché c'è il male?

da I tre sentieri

Dinanzi alle catastrofi molti credenti restano interdetti. Non sanno rispondere a se stessi e a maggior ragione non sanno rispondere agli altri. Vediamo allora come va affrontato il discorso. Elenchiamo tre possibili risposte. La prima è errata. La seconda è insufficiente. La terza è quella corretta. Iniziamo dalla prima.

1.La sofferenza è sempre frutto degli errori umani. Una simile affermazione è sbagliata. Se è vero che la sofferenza è entrata nel mondo in conseguenza del peccato originale, è pur vero che non si può assolutizzare questa convinzione per le singole sofferenze. Così come non si può escludere Dio dalle origini delle singole sofferenze. Bisogna infatti tener presente che se è vero che tutto ciò che accade non necessariamente è voluto da Dio, è pur vero che tutto ciò che accade è necessariamente permesso da Dio. All’indomani dello tsunami del 2005, in televisione, un anziano cardinale, alla domanda se quella immane tragedia fosse potuta essere un castigo divino, rispose categoricamente di ‘no’, ma che tutto doveva essere spiegato con i movimenti tipici dello Terra. Ora, oltre al fatto che Dio può anche castigare, va detto che Dio stesso non era certo “distratto” nel momento in cui accadeva quella immane tragedia.

2.Dinanzi alla sofferenza è possibile solo il silenzio. Spesso si afferma che dinanzi alla sofferenza non bisogna parlare, non bisogna spiegare, ma solo fare silenzio: piangere con chi piange. Certamente la sofferenza si configura come un mistero. Ma attenzione: si configura come un mistero in merito alle singole risposte, non certo alla Risposta. Più semplicemente: quando accade una tragedia, sfugge certamente il singolo significato, ma non il Significato con la “S ” maiuscola, ovvero il fatto che comunque quella sofferenza trova un senso in Dio e nella sua permissione.

3.Contemplare e rispondere: la dimensione dell’eterno. La posizione giusta è invece un’altra. E’ prima di tutto quella di contemplare il Crocifisso: capire quanto, nel Cristianesimo, Dio non si limita a consolare sulla sofferenza, ma Egli stesso ne fa vera esperienza. Dio poteva scegliere un’altra strada, ma ha scelto la sofferenza. E l’ha scelta non solo per le sue creature, ma anche per Sé. Egli stesso si è messo a capo e ha preso la Croce: “Chi vuol seguirmi, rinneghi se stesso (via purgativa), prenda la sua croce (via illuminativa) e mi segua (via unitiva).” (Matteo 16,24) Attenzione però: questo contemplare deve essere accompagnato anche da una spiegazione. L’intelligenza esige argomenti, e fin dove è possibile non si può trascurare questa esigenza. Non basta dire: dinanzi alla sofferenza si può solo far silenzio. Qui entra in gioco la cosiddetta Teologia della Croce e –diciamolo francamente- viene chiamato in causa anche il fallimento dell’annuncio cristiano che si è imposto negli ultimi tempi.
Bisogna infatti recuperare la prospettiva dell’eternità come prospettiva dominante, ovvero il fatto che il cristiano deve convincersi che questa vita è solo un passaggio ed una “preparazione” per ciò che sarà davvero la vera vita, quella del Paradiso che consisterà nel “possesso” di Dio. Insomma, guardare le cose sub species aeternitatis, cioè nella prospettiva dell’eternità. Dio, quando permette la sofferenza degli innocenti, è perché sa che quella sofferenza non solo è un’occasione per la salvezza propria e degli altri, ma è anche un “nulla” rispetto all’immensa gioia del Paradiso. Ciò che invece si è fatto strada negli ultimi tempi è una vera “paganizzazione” dell’annuncio cristiano, laddove le reali preoccupazioni sembrano essere quelle terrene e sociali…quasi a convincersi che, tutto sommato, l’unica nostra possibilità di gioia è su questa terra.
Benedetto XVI, nella sua Lettera ai Vescovi in merito al ritiro della scomunica ai vescovi ordinati da mons.Marcel Lefebvre, del 10.3.2009, ha scritto queste testuali parole: “Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più.” Dunque, il vero problema non è l’inquinamento atmosferico, né tantomeno la guerra o altro: ma la perdita di Dio e della Vita di Dio, cioè della Grazia.

In conclusione vanno tenute in considerazione tre cose.
A) Vivere nella prospettiva dell’eternità non vuol dire dimenticarsi di lavorare per il miglioramento di questa vita e per il servizio ai fratelli. Il servizio acquista senso proprio nella consapevolezza di rendere conto a Dio. Se tutto finisce con la morte, l’uomo inevitabilmente tende all’egoismo: a che pro sacrificarsi? Meglio gestire la propria vita nel perseguimento del potere, piuttosto che in quello del servizio.

B) Vivere nella prospettiva dell’eternità non vuol dire non apprezzare la bellezza della vita terrena. Anzi, proprio quando pretendiamo convincerci che questa vita è “tutto”, essa diventa un inferno: nella constatazione del contrasto insanabile tra il desiderio di perenne felicità, che ci portiamo nel cuore, e la precarietà inevitabile che la vita terrena ci offre. Colui che ateo teoricamente (non crede in Dio) o praticamente (crede in Dio, ma agisce come se Dio non ci fosse) non può mai avere la gioia. Se infatti sta vivendo un qualcosa di bello, già lo preoccupa la possibilità di perdere ciò che sta vivendo; e questa stessa preoccupazione lo inquieta. Se invece sta vivendo un disagio, tende a disperarsi, perché è costretto a soffrire senza alcuna speranza che quella sofferenza abbia un senso e possa essere convertita in gioia eterna.

C) Un annuncio cristiano che dimentichi tutto questo, perché –si ritiene- possa dare un’immagine di Dio troppo severa, finisce paradossalmente con l’ammettere davvero una possibile “cattiveria” di Dio. Se infatti il messaggio che implicitamente si trasmette è quello per cui la vera felicità è su questa terra, verrebbe allora da chiedersi: perché Dio permette che muoia un bambino e che, per esempio, rimanga in vita un delinquente? Leggiamo questo passo del Vangelo: “(…)quei diciotto, sopra i quali rovinò la Torre di Siloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo.” (Luca 13, 4-5) Gesù dice chiaramente che chi è vittima di una catastrofe non necessariamente è più peccatore degli altri; ma è come se aggiungesse: voi, adesso vi preoccupate di stabilire se coloro che sono morti nel crollo della Torre di Siloe fossero o meno peccatori, ma non pensate che esiste una morte molto peggiore di questa, che è – appunto - la morte eterna.



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Bestion., 16/09/2011 23.04:



Cosa dire di fronte alla sofferenza-croce




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Tacere
Gianfranco Ravasi

Certamente l'esistenza umana sarebbe molto più felice se negli uomini la capacità di tacere fosse pari a quella di parlare. Ma l'esperienza insegna fin troppo bene che gli uomini non governano nulla con maggior difficoltà che la lingua.

Sarà per un sottile senso di colpa, ma ogni tanto la mia ricerca del tema da proporre ai lettori va a cadere su un argomento già reiterato in questo spazio: l'eccesso di parola che raramente è compensato da un antidoto necessario, il silenzio. Certo, bisogna distinguere tra silenzio e tacere puro e semplice.
Il vero silenzio è un'oasi in cui si entra dopo essersi preparati, per vivere un'esperienza di intimità con se stessi e col trascendente (per il credente, con Dio). Il vero silenzio può essere eloquente all'esterno, come è testimoniato dagli innamorati quando si fissano negli occhi, dicendosi mutamente il loro amore.

Anzi, lo scrittore inglese del Settecento Oliver Goldsmith, nella sua commedia L'uomo di buon carattere, di un personaggio diceva: «Il silenzio è diventato la sua lingua madre». C'è, però, anche un tacere che è fine a se stesso e che rende solo taciturni e inerti, anzi, alcune volte complici. Non è detto che col mero tacere si sia capaci di ascoltare o che si sia in silenzio e contemporaneamente si sia privi di distrazione e di vani pensieri. Educhiamoci, dunque, al vero silenzio, non al mutismo.

Ad ogni buon conto, la citazione di oggi è desunta dall'Etica di un grande filosofo, Baruch Spinoza (1632-1677).



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Bestion., 17/09/2011 11.36:


Tacere



[SM=x44599] [SM=x44600] no no proprio chiudere [SM=x44603] [SM=x44600] sai quei negozzi che espongono il cartello "chiuso" con tanto di saracinesca[SM=x44598] [SM=x44599] [SM=x44600] [SM=x44600] [SM=x44600]
[SM=x44606] [SM=x44606] [SM=x44613] poi per mantenere la casetta ci pensera' l' Uomo [SM=x44598] [SM=x44599] [SM=x44600] [SM=x44600]
[SM=x44599] [SM=x44645]

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17/09/2011 17:25
 
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«Con oppressione e ingiusta sentenza
fu tolto di mezzo»
(Is 53, 8)


«Io, quando sarò elevato da terra,
attirerò tutti a me»
(Gv 12, 32)



«Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui
Disse allora Gesù ai Dodici: "Forse anche voi volete andarvene?"
Gli rispose Simon Pietro: "Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna;
noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio"»
(Gv 6, 66-58)



«Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: "È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?". Rispose la donna al serpente: "Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete"» (Gen 3,1-3).
E ancora:
«Allora il diavolo lo condusse [Gesù] con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio e gli disse: "Se sei Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo, ed essi ti sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede". Gesù gli rispose: "Sta scritto anche: Non tentare il Signore Dio tuo"». (Mt 4, 5-7)

Forse ti chiederai cosa c’entrano questi due brani delle Sacre Scritture con le tue domande. Cioè, che relazione dovrebbe esserci tra la citazione della Genesi, il passo del Vangelo e i fatti tragici successi col recente terremoto nell’isola haitiana, già colpita anni fa dall’uragano Jeanne, o lo tsunami che nello stesso periodo devastò le coste meridionali dell’Asia, provocando morti e distruzione. Queste apocalissi causano sgomento a tutti e motivano i tuoi quesiti: «Come mi spieghi una catastrofe come quella di Haiti …?». Di seguito spieghi meglio i tuoi dubbi, chiamando in causa Dio e i credenti: «… perchè "l'agire" del vostro Dio certe volte è così difficile da comprendere anche per voi credenti?». Se osservi, vedrai che i personaggi ricorrenti sono tre e sempre i medesimi: Dio, l’Uomo e Satana. Noterai anche che i leitmotiv nei casi su esposti, sono il dubbio e la incredulità. Ti accorgerai infine che quel dubbio implicito e progressivo, conduce a risultati contrapposti

Nel primo caso, infatti, non sembra che Eva assecondi quel dubbio velato con cui l’infido serpente cominciava a sedurla. Tra l’altro, il serpente, ossia Lucifero, non è un’entità simile a Dio - il concetto è manicheo ed eretico per la Chiesa - bensì, secondo l’esegesi biblica e la teologica dogmatica, è una creatura angelica ribellatasi al suo Creatore per invitta superbia (Is 14, 11-15). Comunque, dopo le insistenti menzogne del “buffone”, la donna cede alle sue lusinghe, con le conseguenze che ben si sanno (Gen 3, 6) e di cui il Signore aveva anzitempo avvisato Adamo degli eventuali irreparabili danni (Gen 2, 16-17).

Nel secondo caso, invece, quel dubbio perfido insinuato con malizia dal diavolo – “per davvero Dio, interverrà con i suoi angeli su chi si getta nel vuoto?” – è prontamente respinto dal Messia prima ancora che questo gli potesse fuorviare la sua lucidissima ragione e anzitutto la sua virtuosa fede. Quella stessa fede iniziale dei progenitori, donata da Dio anche agli uomini d’ogni tempo e luogo, e resa perfetta dall’uomo Gesù, al quale questa fede gli sarebbe stata duramente provata con la sua passione-morte. Come annota bene l’evangelista san Luca (Lc 4, 13), le tentazioni esperite da Gesù nel deserto dapprima della sua manifestazione pubblica, erano solo figura della prova suprema alla quale Egli si sottopose liberamente nella sua “ora” decisiva. È il vaglio della fede, setacciata da Satana nei termini tollerati dall’Altissimo (Gb 2, 2-7), in cui pure il Cristo fu vagliato, sia nell’arco della sua vita terrena e quando si lasciò uccidere sul patibolo della croce (Mc 8, 31).

Intanto, pure qui bisogna sfatare l'ottuso dubbio secondo cui il grido straziante dell’inchiodato sulla croce, confermerebbe che anche la sorte del vero Giusto è disattesa. Quello di Gesù sarebbe quindi soltanto il gemito dello sconfitto, del disperato che alla fine lamenta rabbioso la sua protesta proprio contro il Signore: «Dio mio Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27, 46b). Sarebbe il pianto inconsolabile del fallito che ormai ha perso tutto e che nulla può più sperare da qualcuno; né dai suoi "amici" disillusi, che allora lo lasciano in balia del Fato, né dal suo “misericordioso” Dio, che lo ha inviato e dato a tutti (Gv 3, 16). Tuttavia, è in quel momento di estrema solitudine, nel giardino del Getsèmani – di cui era figura l’altro giardino dell'Eden, dove si trovava la coppia genesiaca -, che Gesù accetta e beve il calice amaro della sofferenza (Mc 14, 36). E invero è nella croce, proprio dal bere di quel calice pieno d’ira e di vino drogato che è nella mano del Signore e di cui fino alla feccia ne dovranno sorbire e ne berranno tutti gli empi della terra (Sal 75, 9), che il Cristo agonizzante trova ancora l'occasione favorevole di manifestare fiducia filiale e speranza incondizionata verso il Padre suo, a cui si affida (Lc 23, 46; Sal 31, 6) con la lode e la preghiera del Salmo 22. E ciò perché ha visto che il suo è il Dio che, nella semina dell'annuncio e nel raccolto dei frutti, lo aveva sempre accompagnato con amore paterno, con la potenza di segni e di miracoli, con il portento delle guarigioni e delle resurrezioni. Ora quella dell’amico Lazzaro, ora di resuscitare il giovinetto figlio unico di una povera vedova, ora fu di sanare lebbrosi, ciechi, paralitici. Era anche di comandare alla natura, chetando tempeste, mutare l’acqua in vino, moltiplicare pani, raccogliere pesce in sovrabbondanza dove non ce n'era, e altri fatti straordinari. Nonostante tutto però, agli occhi curiosi della gente sembrava che «“l’azione”» divina verso Gesù fosse estranea e totalmente impotente di fronte a quel suo momento di paura, di sofferenza e di grande bisogno.

Così come sembra che tuttora il Padreterno sia ignaro e assente dinanzi alle calamità naturali che si abbattono sulla collettività, o alle morti insensate dei buoni, dei bambini, degli innocenti; o sia insensibile davanti alle malattie incurabili, alle epidemie inarrestabili, alle tragedie che rovinano i singoli e sterminano le masse. Un Dio che appunto, davanti a tutto ciò che ripresenta l’insignificanza del dolore e della morte, è disattento a quell’angoscia sofferta dai sopravissuti, al loro intensificato smarrimento e terrore.
Da questa prospettiva, allora sì, che l’urlo tetro e desolante del Munch, l’opposto della ferma speranza gridata dall'Appeso, equivale stavolta a quello del disperato che è stato abbandonato anche dalla ragione illuminista. È il grido rabbioso dei filantropi scandalizzati, dei soliti perbenisti maliziosi. Questa disperazione diventa smorfia mefistofelica urlata nell’auto convincimento: «Gott ist Tot!» (”La gaia Scienza” - libro III, 108 - F. Nietzsche) degli scettici, dei cultori del sospetto, degli increduli chiusi nell'inerzia o al massimo, spinti dal passatempo alla curiosità, piuttosto che motivati dal cercare il significato e la verifica dei fatti e delle cose. A farla breve, per costoro, dunque, dio è lontanissimo, apatico e talmente “morto” da non essere mai esistito. O tutt’al’più è uno degli dèi, retaggio delle mitologie mesopotamiche assiro babilonese o dell’immaginario epico delle culture, ellenica, romanica ed etrusca. È una divinità mischiata fra i tanti dèi riccioluti e sdolcinati, di dee strabelle e invidiose, di Zeus accigliati, di Veneri voluttuose, di Diane adultere, di Apolli, Cassandre e Cupidi annoiati, di Muse e Dive canterine. È fra quelli che sono spaparanzati in comodi sofà, intontiti di aromi e ciprie nel loro azzurro Olimpo, con tanto di aurei allori, cetre, uve, vini, vasche, saune e, molti, moltissimi asciugamani. È uno tra quegli "Dèi" ancestrali sempre di moda e tuttora rissosi, che nel frattempo, incuranti delle sorti dei loro semidei subalterni e dei problemi "reali" dei loro sudditi: o di ciclopi che non vedono bene e di giganti che non trovano un letto a misura per distendersi, o di prodi che hanno elmi con visiere troppo anguste, di corazze troppo fragili, di lance sbilanciate e di scudi difettosi, o di valorosi immortali che hanno il punto debole nel calcagno e, infine del minuto popolino che intanto soffre di stenti per fame, di miseria per carestie, di paura per cataclismi, poiché Plutone, Vulcano, Saturno e Nettuno si sono infuriati di brutto; questi "Dèi" – dicevo - tediati e cinici di tutto ciò che avviene sotto di loro, hanno l'unico impegno di accapigliarsi fra loro per via di corna, di tradimenti, di gelosie, di incesti, di omosessualità, di pederastie, questo è mio, no, questo è tuo ... e quant’altro di passionale, di melenso e di depravato.

Ma Dio non è come quelli . Dio non si è fatto "creare" dall'uomo. Dio si è fatto anche carne e ossa, ma non è come quelli "lì". Dio, invece, è presente dall'eterno. Egli è ancora Bontà e Giustizia che, vedendo lo strazio di Gesù, si commuove e lacrima perché, nel grido soffertissimo del suo prediletto Figlio, sente anche tutta la disperazione patita dall'uomo di sempre. Dal peccatore che vuole di proposito brancolare nella sua tenebra, sprofondarsi nel suo abisso infernale (Lc 1, 51b), appestarsi nel marciume della sua malvagità (Mc 7, 21-23). E l’excursus, mister ateo, te lo puoi trovare da solo; basta guardare i telegiornali e i quotidiani di giornata per vedere i casi più eclatanti, vecchi e nuovi, a livello sociale: guerre, gulag, deportazioni, genocidi, shoah varie, carestie, terrorismo, mafie, delinquenze organizzate; fino ai casi singolari con feroci serial killer, stupratori, omosessuali, pedofili, torturatori, sequestratori, assassini, corruttori, ricattatori, e via discorrendo, senza parlare degli innumerevoli mali morali.

Nonostante l’inesorabile imperversare del Male, che la gnosi dualistica fa coincidere a un demiurgo assoluto e antitetico al Bene, soltanto Dio è l’Eterno, l’Assoluto, il Non-creato. Egli è quel «Io-Sono», rivelato all'amico Mosè (Es 2, 14). Colui che tutto crea, che tutto fa sussistere e al quale tutto a Lui è subordinato per la sua maggiore e immutabile gloria. Egli è la Provvidenza che di tutto s’interessa; dalle cose infinitesimali a quelle smisurate, superlative e anzitutto vede e provvede dei mali che colpiscono, opprimono e rendono schiavo l’uomo (Es 2, 23-25; 3, 7-9); si cura anche dei mali di quanti si tormentano nelle loro incertezze e nelle loro incredulità. Egli è il Terribile (Sal 76, 8-13) che si preoccupa pure di “voi” agnostici, di voialtri scaltri macchinatori del dubbio letale. Di quel "dubbio" che è mortifero, perchè di esso avete lasciato sviluppare in voi profonde radici e con esso siete diventati recidivi, ossia atei. È sempre quel Dio che mai si è disinteressato del dramma del suo Unigenito, né attualmente è indifferente alle tante ineluttabili tragedie in cui si trova l’uomo. O nelle quali sciagure egli, l'uomo, che è tra i più eccelsi esseri del creato (Salmo 8; Sap 2, 23), si va continuamente a cacciare per propria indolenza e concupiscenza (Gc 1, 14-15), quindi, con propria libera volontà. Il Salmo 22, gridato sulla croce da Gesù e incominciato con una domanda angosciante a causa del male che Egli ha caricato su di sé (Is 53, 4), finisce pertanto con l’inno alla gioia; nella lode decantata all’unisono dal Figlio verso il Padre, dal Padre verso il Figlio, dall’uomo ravveduto verso il suo Creatore: «Ecco l'opera del Signore!» (Sal 22, 32b). È la vera Pasqua di Gesù! Quella di cui, col passaggio nel Mar Rosso, ne fu immagine di liberazione dalla schiavitù del Faraone per l’antico Popolo eletto. È la pasqua definitiva del vero Antesignano, con la riconoscenza della sua Esaltazione e la magnificenza della sua Gloria, delle quali nessuno immaginava potessero passare attraverso quell’immane dolore (Is 53, 1) sofferto in vita e inasprito poi sulla croce. Tranne però quella fede provata che fu sempre genuina e serena, e vissuta costantemente da Cristo Gesù. Tranne l’amore eterno di Cristo al Padre e l’amore smisurato di Gesù all’umanità della quale, ne assunse la condizione decaduta, maledetta e peccaminosa, senza che in Lui ci fosse il peccato, ma tutti i suoi devastanti effetti (Eb 2, 9-10). Tant’è che Egli soltanto, mediante la croce e in obbedienza al Padre, volle scendere nel punto più basso di kenosis, di umiliazione, di massimo annichilimento (Fil 2, 6-8), in quel buio completo, nella desolazione in cui si trova il peccatore; cioè, in quell’inferno da dove Egli volle e poté, con un così potente “legno”, distruggere quegli effetti di sofferenza e di morte eterne che il peccato aveva prodotto (Rm 6, 23). Ciò è quello che per grazia avvenne in Lui, il Crocefisso, il primo tra i risorti. E di riflesso è anche quello che Egli, con il Padre suo, volle avvenisse pure a vantaggio immediato e futuro dei credenti (Ef 2, 13-16). Il riferimento è dunque a quella opera di Salvezza per i “molti” compiuta dal Padre in sintonia con il Figlio nello Spirito, e della quale in tanti si chiedono in "cosa" consista e, sopratutto, "perché" e in che "modo" tale Redenzione si realizzi anche in loro.

Questa premessa - che svilupperò ancora –, essenziale per capire bene il contenuto di una domanda decisiva nella quale tutti, volenti o nolenti, sono coinvolti, è anche il presupposto per soddisfare meglio la tua richiesta e toglierti ancora un pochino di curiosità sul perché Dio sembrerebbe permettere le ecatombe. È una domanda dunque della quale, a differenza degli atei che la ritengono inutile poiché hanno cacciato Dio dalla loro esistenza tanto dall’auto-convincersi che Egli non esista, se ne chiede invece il significato anche l’agnostico occasionale e opportunista. Quel non ostinato, almeno fintanto fa del suo lecito dubbio una ricerca, cioè l’anticamera della verità, piuttosto che un fine a se stesso o di cui servirsi come unico criterio non posposto alla propria retta ragione e alla sua potenziale fede. E la domanda è: perché lo scandalo della croce? Perché Dio lo permette? Perché permette la leucemia ai bambini; perché quella giovane coppia è deceduta in un incidente lasciando orfani tre piccoli ragazzini? Perché permette le disgrazie, le inondazioni, le eruzioni, i cataclismi, quanto di mortale e distruttivo per l'umanità? Perché Dio compie e permette tutto questo disastro contro l’uomo? Perché l'infamia della croce dolorosa? Tante sono le risposte possibili a questa importante domanda, risolutiva per l’uomo e per il mondo. E nel corso dei secoli, la Santa Madre Chiesa Cattolica, con la vita e la testimonianza dei suoi Santi, ne ha date parecchie di risposte, ricche di multiformi aspetti ma sempre riducibili nella sostanza a una sola risposta. Il contenuto di questa soluzione è rivelato e compreso alla luce del Cristo, «luce per illuminare le genti» (Lc 2, 32), e unico Salvatore dell’umanità.

Per lo stolto, quel presuntuoso che già nel Libro della Sapienza equivale a empio (Sap 1, 16; 2, 1ss), è un paradosso impensabile e tanto più inaccettabile che il Dio d’infinita onniscienza e onnipotenza, fra i tanti modi di poter salvare l’uomo, l’abbia fatto con l’insipienza della croce (1Cor 1, 22-23). Uno dei più deplorevoli scandali. Una mostruosità mediante la quale il demonio terrorizza e schiavizza tutti (Eb 2, 14-15). Iniziando da Giuda Iscariota, il quale ebbe l’immodestia di credere che per realizzare le promesse messianiche, non dovesse anch'egli passare per la via angusta e per la porta stretta (Mt 7, 13-14). Come insegnato nella metafora del chicco (Gv 12, 24) o nell’ossimoro, di perdere per ritrovare (Lc 17, 33). Ossia, di attestare con lo specifico di più parabole che, se non si “passa” da una condizione relativa e provvisoria a quella assoluta e definitiva, l’uomo rimane solo, irrealizzato nella sua desolazione. Procedendo quindi con Pilato che, malgrado avesse di fronte a sé la verità, non volle né riconoscerla né cercarla (Gv 18, 37-38) ma a essa preferire l’asservimento al dio Potere-Politica. E continuando, ad esempio, con quegli ambigui soloni che eccedono a etiche e leggi discutibili, se non inique. Che fra le tante loro prevaricazioni, autorizzano la strage degli innocenti legalizzando l’aborto procurato e da compiersi in qualsiasi caso, quand'anche non minacci la salute della madre e il feto sia sanissimo; quindi con tale logica alimentare pure lo sviamento dei giovani. O di altri illeciti compiuti da questi subdoli giudici (Lc 18, 2) a riguardo della bioetica, come il legalizzare direttamente, col no ni/si, l’eutanasia che è poi puntualmente eseguita dai patetici estimatori del pro-death; da quegli acculturati sempre depressi che abbozzano rari sorrisi tra il disperato e il melanconico; da quei senzadio o con un dio allocco. In definitiva dai soliti laicisti i quali, con la parvenza al disinteressato e nobile altruismo, ma che in realtà non volendo continuare oltre la quindicina d’anni di sopportare l’assistenza alla propria figlia, curata nel frattempo in cliniche religiose private e con amore filiale dalle suore, allora, con l’aggiunto pretesto di garantire a tutti gli ammalati, il vivere dignitoso, sopprimono la loro stessa figlia, la assassinano legalmente. E con la medesima liceità e facilità, questi stessi scoraggiati al non sopportare oltremisura la propria croce, uccidono i loro più cari congiunti. Oppure è la croce di quanti che, in nome della propria indipendenza e rifacendosi al distorto diritto di credersi padroni assoluti della propria vita, praticano il suicidio legalizzato e compiuto da terzi, quindi, pure assistito. Tutti costoro, perciò, si servono dei suddetti e di altri ingannevoli palliativi per alienarsi dalla croce personale. Non di quella che da esterrefatti vedono negli eventi catastrofici e nelle disgrazie altrui, ma di quella propria. Vuoi dall’incapacità di accettare la condizione della figlia in coma irreversibile e comunque ancora più bisognosa di amore e di vicinanza dei propri cari; o vuoi dal non accudire amorevolmente per tutta la vita, il proprio pargoletto nato spastico, sennò con un congenito disturbo autistico; o vuoi dal non decidersi di tagliare senza indugio (Mc 9, 43-47) la propria pervertita relazione omosessuale, convissuta prima e dopo aver abbandonato moglie e figli. Anzi, per loro la croce è un peso insopportabile, da non accettarlo quale simbolo, quale marchio-doc che caratterizza la cultura cristiana europea e in particolar modo quella storia secolare di tradizione cattolica italiana. E in senso prettamente religioso-laico, è per loro un fatto così terrificante dal quale scappano al punto di non appendere l’immagine del crocefisso nelle pareti delle proprie case o di strapparlo, in forza dei soprusi della loro falsa laicità, dai luoghi pubblici, dalle aule scolastiche, dalle mense, dai tribunali, e finanche dagli ospedali. Per quanto però fuggano atterriti e il più lontano possibile, questa loro croce li segue implacabilmente per rammentargli l'effettiva realtà della loro condizione.

E in effetti, da che mondo è mondo, i poveri sono sempre esistiti e, con tutta probabilità, continueranno a esserci. Da non confonderli con quelli altrettanto poveri ma inquadrati nel più complesso fenomeno del pauperismo - disgrazia o cataclisma "sociale" causata dal disinteresse delle società emancipate e non dalla natura, né tantomeno dal Creatore -, che è sempre un dramma umano di cui l’uomo deve farsi carico per superarlo e vincerlo. Questi senzatetto, che ramingano nelle nostre città con cartoni e cianfrusaglie varie, e verso i quali anche gli ottimisti, anziani e giovani, incrociandoli provano una ripulsa spontanea, non cattiva, per cui si sentono a disagio e tentano possibilmente di schivarli, poiché, specie i barboni più ortodossi, puzzano d‘alcool, sono lerci, pieni di croste, con facce alterate, unghie deformate. Questi barboni che tanti cittadini, grazie al veicolare mediatico, hanno ora imparato a chiamarli con l’elegante nome di clochard, sono il segno tangibile della condizione decaduta nella quale vive l’uomo (”Summa Theologiae” Cap. II, Quad. 29, Art. 39 – san Tommaso d’Aquino). E questa precarietà, è atavica in qualunque persona e per tutti in generale; alla faccia della globalizzazione e dell’autodeterminazione. Aldilà che ci siano meno o più benestanti, se profumano, se fanno shopping, se vestano firmati, se consumino e spendano per il superfluo. Nonostante tutto, gli accattoni, i pezzenti, questi Poveri, ricordano puntualmente a quanti incontrano, qual è per davvero la condizione di miseria e d'indigenza sia di coloro dai quali ricevono l’elemosina anche generosa, sia di quelli lesti a scansarli. Questi emarginati rievocano pure a tutti costoro, e indifferentemente dallo strato sociale cui appartengono o dalla quantità e qualità di benessere in cui si trovano, quanto a loro volta abbisognano di tutto e di tutti (Ap 3, 15-19). E il tanto sebbene questi agiati siano gradevoli alla vista, siano persone per bene, ma che in fondo si distinguono, appunto, soltanto per l'apparenza diversa. E questo “segno” è uno dei tanti beni della Provvidenza, valido per la Società intera e per ogni singola persona.
Ma la croce è anche la realtà che impaurisce i discepoli al seguito di Gesù e che sconvolge perfino i fedelissimi Apostoli, quegli intimi che fin dall’inizio condivisero vita e messaggio del loro Maestro. Quegli stessi Apostoli e fedeli discepoli che però in seguito, dopo gli eventi pasquali del Cristo e l'effusione in loro dello Spirito Consolatore, abbracciarono risoluti la croce; il primo degli apostoli, Pietro, per grazia ricevuta amava tanto Gesù e tanto si sentiva indegno di Lui, da farsi addirittura crocifiggere a testa in giù. E quanti martiri coadiutori delle sofferenze di Gesù, portarono ognuno lungo il corso dei secoli, la propria irrinunciabile croce, non patita solo con una morte cruenta! Gesù Cristo-Dio avrebbe potuto, ancorché uomo per sua incarnazione, operare la salvezza in tanti modi. Volle invece realizzarla anzitutto riconoscendo alla Giustizia divina, la pena al peccato (“Cur Deus Homo?” Libro I, Cap.11 – sant’Anselmo d’Aosta), col mezzo della croce. La croce di Cristo difatti non è, come scorrettamente intende qualche teologo fautore della "Teologia della Croce (Vicaria)", o come presumono alcuni religiosi pietisti, un fatto fortuito del destino o la rivalsa del Dio vendicativo al quale è stato offeso l’onore e defraudata la gloria; quei titoli divini che erano da riparare e da restituire (”De Civitate Dei” Libro XIII, Cap.14 – sant’Agostino; idem, sant'Anselmo). In pratica, si pensa a un debito da saldare, il ”do ut des”, un riscatto che Dio, con la croce del Figlio doveva pagare al Diavolo, per cui tutto si sarebbe riequilibrato e andato a buon fine: al buffone un lauto compenso e al Padrone assoluto ed esigente, ripristinata la sua lesa maestà. E l'unico a rimetterci sarebbe il povero cristo, allo stesso modo con cui ci rimettono, in vita, in ferite, in danni e perdite varie tutti quei poveri cristi colpiti da un terremoto o da altre sventure. E la croce non è neanche, come affermato da taluni teologi progressisti nella "Teologia della Liberazione" - quale supporto ideologico per spodestare, anche con le rivoluzioni e le azioni violente, i regimi dispotici, dittatoriali, eccetera -, la fine logica di una tragedia subita dal Messia per il violento ostracismo dei suoi potenti avversari religiosi e politici (dottori della legge, scribi, anziani, capi del popolo, Prefetto romano, plebaglia, carnefici), sebbene questi scellerati siano gli attori e per loro parte, anche i diretti responsabili, i rei di un assassinio premeditato e, mediante falsi testimoni (Mt 26, 59-60), meticolosamente legalizzato.

La croce è tutt’altro. Come insegna in maniera indefettibile il dogma e la dottrina nella millenaria Tradizione Apostolica di Santa romana Chiesa, che seppe sintetizzare, mediante l’assistenza dello Spirito Santo, con i Concili e il Magistero petrino ex cathedra, congiunto a quello episcopale, i misteri dell’Incarnazione e della Pasqua come unico evento, distinto ma inscindibile, del Mistero di Salvezza operato da Gesù Cristo. Questo è dunque l’evento cruciale che tocca direttamente l’uomo nella sua universalità, ed è quindi il Mistero - insondabile per i profani - accettato e attuato liberamente da Gesù quale momento tragico e, allo stesso tempo, glorioso (Gb 17, 1-2) dentro di cui, senza alternativa alcuna, Egli doveva necessariamente passare con la sua incarnazione-pasqua. Nella Chiesa primitiva, i mistagoghi della patristica Orientale (con i santi, Girolamo, Atanasio, Gregorio Nazianzeno, Cirillo, Basilio e Metodio …) evidenziavano ai neofiti cristiani l’evento croce-morte quale motivo senza di cui la Incarnazione di Dio-Figlio, non avrebbe avuto alcun senso. Il postulato era: Cristo è nato per morire liberamente sulla croce. Pure la semasiologia cultuale catechetica sviluppata dai pedagoghi Padri della Chiesa Occidentale, riprese gli stessi assiomi ma ne focalizzò anzitutto l’aspetto pasquale, di morte-resurrezione. Così è da sant’Agostino e sant'Ambrogio, a sant’Anselmo con la scolastica aristotelica; da san Tommaso, alle disquisizioni tomiste e filosofiche del tardo medioevo. Dalle ermeneutiche della teologia classica rinascimentale, fino alle dispute della Controriforma; dai Gesuiti, ai vari dottori della Chiesa romana, di cui sono i tomi del cardinale italiano Bellarmino e dell'anglosassone cardinale Newman, alla teodicea culminata in Leibniz; dalla critica kantiana, alla dialettica trascendentale del XIX secolo di filosofi italiani, tedeschi, francesi e ispanici, per arrivare alle attuali teologie contemporanee di vari pensatori cattolici e protestanti occidentali. E qui l’asserto era: Cristo è risorto perché nato e morto di croce. La croce, dunque, è strettamente legata alla risurrezione e viceversa. La sintesi è: la morte di croce sta alla resurrezione, come la risurrezione sta alla qualità della passione e al tipo di morte. E l’inciso, abbassamento-innalzamento, altresì il "Mistero della Redenzione", da far sì che la croce dia sostanza all'incarnazione e agli eventi pasquali operati da Dio/Gesù/Cristo, consiste non tanto perché Gesù è anche solidale con ogni uomo sofferente al quale spetta, credente o no, la propria personale croce, ma quanto per dare pieno compimento alle Scritture. In esse, infatti, è specificata quell’ubbidienza che tutti devono alla volontà dell’Eterno, ma di cui tutti in Adamo ne hanno mancato e ne continuano a fare difetto. Con la sua personale ininterrotta ubbidienza, Gesù Cristo ha voluto precedere tutti (Gv 4, 34; 5, 30; 6, 38-40) affinché rimediare alla disubbidienza di ognuno (Eb 2, 14-18) e perché tutti da Lui la imparassero (Eb 5, 8-9) a propria salvezza. Anche Dio-Padre Onnipotente, assieme a Dio-Figlio Onnipotente, nell'unità di Dio-Spirito Santo Onnipotente, attende l’uomo sempre e soltanto sulla Croce; così già indicarono tutti i vetusti Patriarchi (Gen 22, 1-3) e gli antichi Profeti (Is 53, 10). Lì, nella croce del Verbo incarnato, quella parte del Mistero inesplicabile sulla Trinità, Dio, l'Invisibile all'uomo caduco (Es 33,20; Mc 13, 32), si rende visibile e operante nel Cristo, onde salvare già adesso in maniera tangibile e definitiva.

Ecco finalmente l’ottica da cui posso ora valutare il terzo caso, e rispondere così alla tua domanda «seria», non «provocatoria o schernitrice» che ti sei posto e che mi hai chiesto. Anche se a questo punto potresti lagnarti del mio troppo dilungarmi nei preamboli, col rischio che esca dal tema e perda di vista il succo di quanto mi hai chiesto, oltre che annoiarti. Nondimeno, proprio perché la tua richiesta è rivolta a me e non ad altri, trovo indispensabile di doverti approfondire vari punti e nel modo e nella quantità che ritengo più idonee. Ciò dal fatto che, quanto più ci addentriamo nella comprensione del mistero cristiano (Dio incarnato, sua pasqua nella passione-morte risurrezione), tanto più si può comprendere meglio la realtà in cui viviamo. Compreso il senso dei fatti tragici, delle calamità naturali e dei disastri dei quali stiamo trattando; senza pretendere per questo di volerteli collocare nel suo ordine e significato ultimo. Per quanto l’uomo - quell’eroe tra il celtico e l'ariano, il “plus man” o ”Uber-Mensch” (”Così parlò Zarathustra” – F. Nietzsche) -, si sforzi di esplorare l’intrinseco delle cose, di afferrare e possedere il significato di se stesso e dell’esistenza, tuttavia, e nonostante il suo lungo cammino filosofico e scientifico, si trova sempre davanti all’invalicabile, a qualcosa d’indefinito e molto più grande di lui. Che oltrepassa la sua immanenza e lo trascende. E questo, benché l'uomo sia credente o no. Pertanto, se la cosa t’interessa per davvero, cioè di sentirla almeno dal mio punto di vista, allora continua a pazientare e a leggermi accuratamente, accantonando, almeno per il momento, pregiudizi e dubbi gratuiti.
I più ferventi cristiani, così come i credenti, inclusi tutti gli uomini e te, sono assoggettati alla tentazione. Essa è la prova necessaria per raffinare quanti accettano il dono della Fede e per separare i troppi (Dio volesse, non ce ne fosse neanche uno!) che questo dono lo rifiutano drasticamente (Lc 12, 49-51). Così è per la loro Speranza; così è per la loro Carità. Anche i cattolici, dunque, non sono ancora liberi di sentirsi attirati da quel dubbio mortifero insinuato sistematicamente dal Buffone, il “Principe di questo mondo” (Gv 12, 31), come lo definisce Cristo, cioè Sátanas, l'Avversario, il bugiardo per eccellenza (Gv 8, 44b). E la colpa che viene da questo dubbio pertinace bisbigliato malignamente dall' Accusatore, è di convincere che Dio sia un menefreghista, che egli non agisca bene o comunque che in Lui, Giudice-Misericordia, non ci siano né giustizia né amore. Specialmente quando sembra non curarsi o permettere catastrofi naturali, disgrazie immani, croci smisurate, malattie terminali e devastanti, sofferenze interminabili per i moribondi, patimenti e morti di ragazzine/i solari, di piccini/e, di bambine/i puri, puliti, semplici ... e avanti così, esemplificando sui drammi singoli o sulle abnormi tragedie collettive. Il fine diabolico e ultimo del buffone, pertanto, è di far leva proprio su questi fatti tragici della natura, o di minacciare croci personali e dolorosissime, oppure, di contro, convincere che per ognuno siano soltanto situazioni immaginarie o comunque transitorie e superabili con la tecnologia, con le nuove scoperte scientifiche e i progressi della medicina. Il tutto e quant'altro di simile, è per indurre a credere che Dio se ne freghi di tutto e di tutti per il semplice fatto che Egli non c'è assolutamente, non è mai esistito. Questa è invece soltanto un’invenzione dei preti - pure omosessuali adescatori e violentatori di bambini e adolescenti, o bisessuali pure frequentatori di mogli altrui e di prostitute. Che quindi, soltanto i più furbi sono gli unici che possono ora fare il meglio per sé, dove dopo il trapasso ci saranno il nulla e l'oblio ... tant'è così, come sragionano gli iniqui (Sap 2, 1-5).

Quantunque nessuno sappia quali sono i disegni, le vie imperscrutabili del Padreterno, né capisca gli scopi ultimi per cui Egli permette gli innumerevoli mali sopra citati, i fedeli cattolici, contrariamente a molti altri, non dubitano mai del suo Creatore. Anche i grandi Santi, spesso illuminati sui segreti più arcani di Dio, erano non poche volte assaliti dal dubbio. Un dubbio non pertinace, ma comunque sempre martellante (a tal proposito ti consiglio la lettura degli scritti di alcuni mistici cristiani, tra cui: santa Caterina di Siena, san Giovanni della Croce, il santo curato d’Ars, santa Chiara, sant’Ambrogio, santa Teresa di Lisieux, il beato Giovanni Paolo II, il mio benamato e preferito sant’Agostino, e via dicendo). E il loro dubitare non era tanto di mettere in discussione l’onnipotenza di Dio e la sua effettiva azione nei confronti delle situazioni problematiche dell'umanità, quanto al non sentirsi essi stessi peccatori, quindi umili. Ovverossia, al non possedere ancora la certezza, la piena consapevolezza della propria piccineria; di essere infimi, persone spoglie, nude (Gen 3, 10), bisognose di tutto; di non avere nulla in sé che fosse di loro proprietà, se non soltanto del Creatore. Il dubbio dei Santi, proprio perchè più di altri approfondivano nella preghiera, nei digiuni, nella penitenza il senso, l'orrore, il mistero del peccato e si sentivano vuoti, era anche di non rispettare, o meglio, come accentuato più volte nella Sacra Scrittura, di non avere sufficiente timor di Dio (Sal 34,12; Pr 2, 5; Qo 12, 13; Sir 1,12; eccetera), di amarlo sempre troppo poco. Perciò, nel cammino perseverante di quella Fede infusa nel Battesimo, per grazia dello Spirito Santo e per mezzo della sua Santa Chiesa Cattolica, il cristiano, con l’intelletto e con la propria vita, crede e testimonia fermamente quanto professa durante ogni Messa domenicale, mediante la proclamazione del Credo Apostolico. Crede certa la bontà del Signore, il suo retto operare, la sua infinita giustizia, il suo volerci bene in maniera incommensurabile. Il cattolico crede sempre alla tenerezza di Dio, non dubita mai della sua vicinanza (Salmo 91) perché sa, ha visto e tocca con mano che Dio è solo Amore (1Gv 4, 16). Ancora meglio il cattolico sa che soltanto Dio gli è Padre e Pastore, anche e soprattutto quando, pur da credente che procede spedito nella fede, ma per sua debolezza e per sua inclinazione cede al peccato, ricadesse e dovesse ancora camminare per una valle oscura (Sal 23, 4) o si ritrovasse nelle tenebre e nell'ombra della morte (Lc 1, 79). Ben per questo, Cristo Gesù, il Kyrios, conferì ai suoi Apostoli il potere di legare e sciogliere mediante il Sacramento della Confessione Riconciliazione.

Pertanto non è di questa fattispecie di credenti che maturano nella fede, e non è neppure nello specifico dei cattolici in genere, il dubitare sull’efficace “azione” di Dio, o comunque Egli la voglia svolgere. I cattolici si configurano nella stessa fede che continuano a imparare e a chiedere alla scuola del loro Maestro Gesù, e sull'esempio di Abramo (Rm 4, 3) e di Giobbe, piuttosto che, come la moglie di quest’ultimo (Gb 2, 9-10), assillarsi con dubbi colpevoli e incertezze disperate; o diffidare come fanno tant'altri credenti fasulli. Se la Provvidenza divina è sempre indecifrabile per l’umana ragione, è pur certo che l’Onnipotente sa trarre il migliore bene anche dal peggiore dei mali: ad esempio dai terremoti, dagli tsunami, dalle eruzioni, dalle inondazioni o da altri cataclismi naturali che devastano zone abitate o super popolate causando morte, feriti, spavento irrefrenabile, distruzione di beni e cose. Invero e spesso, è proprio da questi tragici eventi che quantomeno si accende e si allarga poi notevolmente la solidarietà, l’interesse verso i colpiti, verso i poveri, verso coloro dei quali, se non prima della “disgrazia” repentina a loro successa, non ci si voleva accorgere. E guarda caso è proprio lì, in quegli stupendi posti che il Signore vuole che si guardi con più cura e con più provvida solerzia. Lì, oggi, proprio a Haiti, dove il mare è azzurro, le spiagge bianche, la flora verdeggiante, dove la natura e gli animali sfoggiano il meglio di se stessi. Lì, nei Caraibi, in Indonesia, nei favolosi paradisi naturali dell’Africa, dell'Amazzonia, in quei posti commercializzati, in quei punti del pianeta dove da una parte ci sono alberghi a dieci stelle accessibili soltanto a pochi facoltosi, ma dall’altra e purtroppo una marea di indigenti, di miserabili che vegetano in baraccopoli, in strutture fatiscenti, nella sporcizia, soggetti a pestilenze, eccetera.

Se dunque anche tu, mister dubbioso incentivato al non credere, vuoi davvero trovare dei colpevoli, questi cercali sempre nell’Uomo, non nella Natura, né tantomeno sulla presunta inefficienza del Signore. Difatti quel Creatore, di cui voi prima dubitate e in cui poi non volete credere, quando decise di creare l’uomo a sua immagine e somiglianza, lo mise anche nella condizione di badare a se stesso, di essere in sintonia con la Natura, con gli Animali e con le cose. Così te lo spiega esplicitamente lo stesso Iddio nel libro della Genesi ispirato ai suoi santi Profeti d’un tempo: «Dio li benedisse [il maschio e la femmina] e disse loro: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra"» (Gen 1, 28). Perciò all’uomo è dato, credente o no che sia, di costruire prima le abitazioni antisismiche, le strutture solide, di investire sulla prevenzione anti-questo e anti-quello, sulla sicurezza, sull’integrità dell’ambiente, e poi di fabbricare luoghi sportivi, per il divertimento, per le vacanze, di quant’altro di bello seppur non vitale, e così via. Non è insomma di spendere enormi capitali per armamenti, o finanziare guerre e rivoluzioni al fine d'imporre, con le nuove forme di colonialismo, le proprie “democrazie” secondo quegli schemi che, pur funzionanti nelle società occidentali, non sono invece adattabili in quelle orientali, che hanno ben altre filosofie e mentalità; che possiedono il loro umanesimo, le loro specifiche e pregevolissime culture, tradizioni e storia.
Non è nemmeno di sborsare cifre esorbitanti per lo sport dei pochi privilegiati, per le F1 e altre discipline, da intendere di quell’arte dei giochi e dello sport genuini oramai reminescenze del passato, di cui ora si è fatto solo lucroso commercio, pagando così somme stratosferiche a tennisti e a calciatori, a motociclisti, agli sportivi dei quali alcuni poi evadono il fisco. O d’investire sulla pubblicità per accumulare col consumismo altro capitale, ma stavolta speculato sulla vita, giacché a chi aveva qualcosa, è stata tolta pure quella e tutto il resto. Certo, molte di queste cose sono buone e certune validissime, poiché il divertimento e lo svago fanno parte del buon vivere, ma tutto ciò è sempre secondario se non c’è quell’essenziale di cui ancora la stragrande maggioranza dei popoli manca. O peggio, e come ben si vede, gli si fa mancare. L’uomo è quindi chiamato anzitutto a non tralasciare l’indispensabile né tantomeno di spesarlo sui fabbisogni essenziali dei molti, ma di convogliare denaro e beni per le necessità almeno primarie dei poveri, per il superamento del pauperismo, di quella maggioranza dei tanti infelici affamati di pane e acqua che i troppi incuranti, col loro rispettivo grado d’irresponsabilità, hanno relegato nel terzo e nel quarto mondo. Si tratta di costruire quella società che il grande intellettuale Papa Montini chiamò: Civiltà dell’amore (Vaticano – UG, 31 dicembre 1975). E a titolo di cronaca, Haiti è la nazione più povera dell’America Latina, dove, fino a poco tempo fa, oltre che l’imperversare degli elementi della natura, c’è stata la guerra civile con violente sommosse e massacri. Il tanto è per ricordare e inserire tra i cataclismi “civili”, le dozzine di guerre dimenticate.



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17/09/2011 17:26
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!

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La differenza causa-effetto di un terremoto che avviene sotto l’oceano o nel deserto, e uno di stessa intensità ma che accada in zone popolate da tante persone, è madornale, è sproporzionata. Difatti ambedue sono terremoti catastrofici; solo che il secondo diventa un’immane tragedia umana, poiché miete morte nella popolazione, oltre che distruggere le strutture di metropoli, città e paesi. Così è per i maremoti che si abbattono su isole e penisole di vasto insediamento urbano; o per i cicloni, o per la furia (prevista) dell’uragano katrina che devasta e uccide poi a New Orleans. Tutti questi eventi macroscopici che scombussolano la natura, non fanno alcun danno mirato all’uomo se avvengono in alto mare, o in qualche remota zona della Siberia o in una inabitata foresta tropicale. La stessa differenza poi, è fra dramma e tragedia lì dove, nel secondo caso, si può dirlo di un fatto tragico perché provoca conseguenze irreparabili con la morte di parecchie persone; il primo caso invece é un fatto drammatico, se la furia di un tornado distrugge barche a vela, yacht, ma ci sia solo qualche ferito seppur grave ma non in fin di vita. Ergo. Il Creatore non c’entra niente. Nemmeno c’entra la Natura, la quale segue le normali leggi per l’equilibrio del pianeta e dell’ecosistema. Asseconda quelle stesse leggi che spesso anche i più rinomati uomini di scienza non rispettano con la dovuta attenzione, anzi, le prevaricano con l’uso distorto di marchingegni, di cui gli esperimenti con ordigni atomici o di modificare i meccanismi naturali della vita. Male, dunque non sono i terremoti né altri cataclismi, ma lo divengono se si abbattono in luoghi abitati. E tanto più sono causa di male per l’uomo nella misura in cui quegli stessi luoghi urbanizzati, non sono anche da lui “custoditi” a dovere. Male non è il nucleare e nemmeno le tante altre energie del cosmo di cui ancora non immaginiamo l’esistenza, ma è l'abuso che di esse fa l'uomo tecnologico, o perché guerrafondaio, o perché manipolatore della vita, eccetera. È bene se in campo medico gli oncologi fanno della ricerca nanogenetica lo strumento per curare il cancro e altro di ancora incurabile. È male se per questo fine, un pinco pallino famoso, qual è il professor Veronesi, non rispetta il codice deontologico che, metti caso, obbliga limiti precisi sulla sperimentazione delle cellule staminali. Limiti non variabili dalla discrezionalità del giudice ma oggettivati e imposti dalla Natura stessa, per cui al giudice spetterà soltanto di applicare l’oggettività di quelle leggi emanate da chi di competenza. O male ancora peggiore è quando questi senili professori, sfruttando la loro popolarità anziché argomentare su consulenze inerenti alla propria professione, rilasciano interviste o fanno dibattiti di tutt’altro genere. Specialmente facendo una spocchiosa ingerenza sui temi di carattere religioso filosofico, più con l’ostentazione di insegnare finte etiche e false morali laiciste, piuttosto che imparare loro dall’Etica e dalla Morale autentiche, e di starsene cheti fra i tanti altri modesti opinionisti. Il riferimento è ai miscredenti e ai credenti, a quei noti atei e no, tra i quali il matematico Odifreddi, con le sue fantomatiche esternazioni su Dio, il Cristianesimo eccetera, o l’astrofisica Hack, o i fisici Zichichi, Rubbia e altri autorevoli scienziati. Bene invece, ad esempio, gli interventi e le opinioni del professor Cacciari nel campo etico religioso, poiché, sebbene egli sia un non-credente, è uno tra i più competenti di 'Storia delle Religioni' e filosofo di primordine.

Non è quindi la natura, non è la scienza, ma è ancora il “quando”, il "dove" e il “come” l’uomo si pone di fronte alla natura e alla scienza, specialmente riguardo alle catastrofi naturali. Perciò, quanto al dopo gli eventi disastrosi, si tratta almeno di installare in fretta gli ospedali da campo, le tendopoli, le roulotte per dare i primi soccorsi ai superstiti. E a più largo respiro, si tratta anche di fabbricare qualche dozzina in meno di supercaccia d’ultima generazione, gli F-35 Lightning da milioni di $. E finalmente si tratta anche che, gli avanguardisti della scienza, dall’ingegneria alla medicina, abbiano da curare qualche loro interesse pecuniario in meno, cioè, sia da certuni chirurghi estetisti o sia dai tal altri oncologi, di possedere qualche clinica di lusso in meno. In controparte, quindi, è di mandare più centinaia di bulldozer e di ruspe per affrettarsi a togliere le tonnellate di macerie evitando, con le epidemie, anche gli sciacallaggi. Si tratta poi, visto che queste zone sono ad alto rischio di eventi distruttivi, di progettare e creare al più presto le relative sovrastrutture; allarmi adatti per evacuazioni anticipate, rifugi, e via così. Si pensi alla faglia di Sant'Andrea ubicata in California e che interessa proprio la popolatissima metropoli di San Francisco e città, paesi limitrofi; c’è da chiedersi quando e come gli addetti ai lavori abbiano realmente provveduto sul proposito della già preventivata possibilità di eventi catastrofici di proporzioni madornali.
Altrettanta incongruenza si può notare di un aereo che scompare a Ustica, con la (quasi) certezza che ci sia stato il grossolano errore del “fuoco amico", ma ben taciuto o coperto da varie inchieste o protratte per parecchi decenni. Ossia, di insabbiare quei casi scomodi che farebbero saltare troppe poltrone. E quante “disgrazie” ed eventi catastrofici causati con questo losco andazzo! Da Piazza Fontana al clamoroso attentato delle Torri Gemelle, dove magari non si vuole ancora dare certezza al mondo che, quel capoccia delinquente di al-Qaeda è già morto e putrefatto da molto tempo; dove invece c’è chi vuole farlo credere ancora vivo e vegeto, o che sia pressoché impossibile localizzarlo, catturarlo e condannarlo. Dove, comunque, si tiene sempre accesa la memoria delle sue farneticazioni, di mantenere altissime la tensione e la paura del terrorismo locale e mondiale, per coprire ben altri interessi di potere … e così via. Stessa cosa è di un aereo russo o cileno che esplode in quota o in fase d'atterraggio, ma di cui poi si riscontra la sua cattiva manutenzione o addirittura, che era ormai un mezzo obsoleto.

Tutti questi casi non si riducono dunque, a “incidenti” occasionali ma sono fatti spesso prevedibili, tanto più oggi con l’ausilio della ricerca scientifica e degli illimitati mezzi tecnologici, dei quali però non si sono attivate le dovute precauzioni per la mancanza di un minimo interesse a quelle elementari regole e norme che l’uomo dovrebbe rispettare, anziché speculare sui costi, o chissà su quali altre ragioni. La responsabilità che ha l’uomo verso se stesso, verso gli altri suoi simili, verso tutti gli esseri viventi e verso il creato, è enorme. Se da una parte il suo mancato rispetto delle leggi sociali gli causerà giuste condanne, altrettanto è certa l’inevitabile conseguenza di danno, qualora egli non rispetti le leggi della Natura. La Trinità ci ha fatti davvero talmente grandi - tanto dall'aver premesso, prima di crearci: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza» (Gen 1, 26a) – da allertare l’uomo che, se avesse peccato sarebbe certamente morto. E il fatto di morire, come l'essere stato creato, fu per l’uomo un successivo dono, affinchè egli non vivesse eternamente, come gli era stato destinato (Sap 2, 23). Sarebbe stata per lui una vita vissuta nel dolore perpetuo, nella disperazione (Lc 1, 51b) se appunto, con libero arbitrio, non avesse prima deliberatamente deciso, con piena facoltà di intendere e volere, di rifiutare il suo Creatore. Di rifiutare Gesù Cristo, che nella pienezza dei tempi, venne nel mondo per salvarlo dalla seconda morte – causa del peccato imperdonabile (Mt 12,31). E non è un caso che, se la morte prima annunciata nei primi passi della Genesi (Gen 2, 17), il primo Libro del Vecchio Testamento, la morte seconda sia invece annunciata nei passi finali dell’ultimo Libro del Nuovo Testamento, l’Apocalisse: «Poi la morte e gli inferi furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la seconda morte, lo stagno di fuoco. E chi non era scritto nel libro della vita, fu gettato nello stagno di fuoco» (Ap 20, 14-15). Non è un caso, infatti, ma c’è un legame di continuità tra il primo e il secondo annuncio, giacché, quanto più il primo avviso di morte prima si è dimostrato vero e tremendo perché fino adesso la morte e la sofferenza dominano indisturbate, tanto più è vero e tremendo l’annuncio di seconda morte e di disperazione che regneranno invece in eterno negli inferi.

Ma restando ancora sul pratico, terra-terra, cioè, come ben sai vedere anche tu, mister, la casistica è abbondante, sia di eventi catastrofici su larga scala, che di sciagure circoscritte a pochi o a singole persone, ma comunque tragiche; e quello che più conta, è che esse coinvolgono e riguardano giustappunto tutti. Ergo. Il Creatore non c’entra niente. Sia se si tratta di catastrofi enormi o di piccole malesorti - come le morti provocate dalla distruzione di una palazzina per l’esplosione da gas di un condotto difettoso - che in ogni caso toccano direttamente i popoli e i singoli; eventi che procurano paura, sgomento, rabbia e proteste delle quali si chiedono i motivi di quelle cause-effetti non perseguiti a dovere per l’irresponsabilità, non solo degli addetti ai lavori, ma anche dei molti non preposti. Anche di chi, per pigrizia, non fa la differenziazione rifiuti al dispetto di un’ordinanza comunale del paese in cui abita. Il punto insomma è di trovarsi sempre di fronte all’incuria umana, tant’è di costruire abitazioni dove non si può, inquinare dove non si deve, disboscare smodatamente dove poi non si ripianta, togliere dove già manca o non aggiungere dove si dovrebbe. E ancora: la peste, il colera, il vaiolo, la lebbra, che in passato hanno mietuto milioni di morti, erano epidemie “normali” sin dall’antichità fino agli albori del XX secolo e, di solito, la causa determinante era la sporcizia. Sconfitte queste calamità, ma non vinte del tutto - basti ricordare certe regioni terzomondiste dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina -, grazie al progresso tecnologico, ecco l'era dell'Industria e della produzione a catena, ma che a loro volta cambiano nome alla sporcizia. Quel nuovo sudiciume, e causa rinnovata di altrettante sciagure (Seveso, Chernobyl) e di cataclismi ben più tremendi: smog, gas tossici e radioattivi, amianto, inquinamenti atmosferici e acustici, scioglimento dei ghiacci perenni, innalzamento dei mari (Venesssia mia, ciao! Con un progetto imponente – Mo.s.e. - nato negli anni '70 e di cui spesi miliardi, ma ancora un’opera tutta da realizzare), squilibrio dell’effetto serra, buco dell’ozono e via con disastri apocalittici, da quelli più o meno contenuti a quelli incontrollabili. Tutto ciò è per dire che le tante disgrazie "naturali" divengono catastrofiche per la popolazione in quelle zone a rischio di cui non sono studiate a fondo le cause, né tantomeno prese le dovute precauzioni di difesa.

Ergo. Il Creatore non c’entra niente, anzi: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno. Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. Allora Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro.» (Gen 1, 31; 2, 1-2).
Il Signore Iddio, dunque, dopo aver compiuto assai bene tutte le cose, cessa il “suo” lavoro e si riposa (Sal 95, 11b); quindi affida all’uomo, la custodia di quanto Egli ha creato di bello e di buono. La responsabilità di quanto succede di brutto e di male perciò, è, per l'ennesima volta, da imputare ancora all’uomo; ed è anche per questo che l’illuminato Apostolo delle genti afferma: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.» (Rm 8, 19-21). Questa intuizione di Paolo, ossia, la rivelazione dello Spirito Paràclito per il quale: «La creazione … è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa», è fondamentale per capire un po’ meglio anche quanto tu mi hai chiesto. Un orologio funziona bene quando è custodito con cura: oliandolo, spolverandolo e caricandolo e, fintanto non è scaravento per terra. E se non funziona più, la colpa non è dell’orologio ma del suo custode. Così è per il creato.
Certo che, ogniqualvolta l’uomo scaglia per terra il creato, rovinandolo, lo fa anzitutto per istigazione del Serpente buffone; ma di quest’atto, una volta compiuto, la responsabile diretta ne è infine soltanto la volontà del “custode” del cosmo, cioè sempre l’uomo. Gli scandali, come ho già detto altrove, avvengono per necessità, e di sicuro sono motivo di caduta per chi li subisce – quanti serial killer hanno alla base della loro feroce pazzia, soprusi e violenze subite da bambini. Essi scandali probabilmente accadono per vagliare la fede di ognuno – sia di chi li causa che di chi da questi ne è colpito -, e affinchè anche il ”Mistero d’Iniquità” abbia il suo compimento (2Ts, 2, 7). Ma “guai” per coloro dai quali gli scandali avvengono (Lc 17, 1-2). Il Vangelo, tuttavia (visto, che proprio voi non-credenti e dubbiosi ostinati, siete i primi a farne costante riferimento), va preso nella sua interezza e non soltanto per ciò che di più aggrada. Difatti, uno degli effetti più rovinosi del peccato, è far sì che il peccatore, ateo o sedicente cattolico che sia, abbia l’inclinazione di giudicare gli altri suoi simili, i loro difetti, le loro incoerenze e i loro peccati, poiché egli guarda a costoro, non come a fratelli propri, ma sempre come ad antagonisti, a rivali dai quali bisogna difendersi. Il Signore, però, non comanda di giudicare e di condannare il prossimo, ma di amarlo come se stessi (Mt 19, 19) e, piuttosto, che ognuno guardi dentro se stesso, poiché è da lì che esce ogni cattiveria e malvagità (Mc 7, 20-23) a sola propria rovina; agli altri, invece, ci pensa unicamente il giudizio del solo Giudice. Siccome poi tutti siamo peccatori, dal più miscredente al più alto prelato, Gesù dice a quelli che credono di non esserlo e condannano gli altri: «"Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori."» (Mc 2, 17; Mt 9, 12). E ancora: siccome il Signore ama tutti i peccatori compresi coloro che si ritengono giusti e immuni dal peccare, conoscendo perfettamente come sono fatti (Gv 2, 25) e quanto qualsiasi persona sia incapace di amare se stessa e il suo prossimo, invita ognuno a imparare da Lui: «"Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime."» (Mt 11, 28-30). Quand’anche Gesù suggerisca al peccatore di fare e di osservare quello che i preposti all’insegnamento (sacerdoti, scribi e farisei) pensano bene in teoria, ma non fanno con le loro effettive opere (Mt 23, 3), tuttavia comanda sempre di guardare a Lui; poiché soltanto in Cristo e con Gesù si può “osservare” e ”fare” bene quello che all’uomo gli è impossibile operare con le sole sue forze; cioè, di amare per davvero se stessi e il proprio prossimo con le virtù della Fede, della Speranza e, soprattutto con quella decisiva della Carità (1Cor 13, 1-13).
È dunque il Peccato commesso deliberatamente per volontà dell’uomo e dalle strutture di peccato da lui create, che anche tutta la creazione ne subisce la sicura corruzione. È il modo “peccaminoso” di gestire, di custodire male, di scaraventare per terra la creazione, da far sì che anche in essa si rompano quei suoi indispensabili meccanismi che la rendono integra e ben funzionante. Ma come dice ancora il Vangelo di Paolo di Tarso, sia benedetto nei secoli eterni il Signore nostro Gesù Cristo che, con il Padre e lo Spirito, ha voluto e potuto liberare dalla schiavitù e redimere, assieme all’uomo, tutta la Creazione! L’uomo, dunque, la creatura benedetta dal suo Creatore, è il custode primo della Natura e dei beni consegnateli; mai è il padrone di essa, della quale invece, ne è sempre e soltanto signore indiscusso il suo Creatore. Dio, L’Onnipotente, quello dei cristiani, che è anche il “nostro” di noi cattolici, che assieme a tutti e a te, miscredente, siamo “figli di Dio” amatissimi.

Nello specifico poi, il nostro Dio, a differenza di tutti gli altri credenti di altre religioni, è Gesù Cristo il quale, assumendo la nostra condizione umana, si è assoggettato alle leggi naturali e universali con i limiti imposti a questa nostra esistenza. Acciocché, anche per Lui fu di nascere, crescere, aver fame, sete, stanchezza, sonno, avere i sentimenti, odiare il male, amare il bene, gioire, soffrire e infine, come tutti, morire. Noi cattolici, quindi, non abbiamo nulla a che fare, da spartire e da pretendere verso un onnipotente che sia a nostra disposizione. O meglio, di un deus ex machina, simile a quello delle tragedie greche, pronto a sostituirsi all’uomo per realizzare quanto non è possibile alla migliore scienza e tecnologia umana – non essere colpito dai cataclismi, da disgrazie, guarire da malattie incurabili, non perdere i propri cari, restare sempre giovani, creare la vita, resuscitare o non morire, eccetera. Perciò, sul tuo interrogativo di cui nel primo aspetto hai motivato - «come mi spieghi una catastrofe …?» -, ti ho spiegato le ragioni per cui il Signore Iddio non ha un suo coinvolgimento o responsabilità diretta o indiretta. Sarebbe come dire che se l’uomo potesse costruire insediamenti umani, non solo su Marte ma addirittura sul Sole, ma, se non avesse la tecnologia opportuna, si colpevolizzasse questa stella incandescente perché, ancor prima che l’astronauta arrivasse sulla sua superficie, sarebbe senz’altro disintegrato con la sua astronave. O, per fare un altro esempio ancora più semplice: nessun cattolico praticante, per quanto fedele e di buone intenzioni, potrebbe realizzare con la semplice pronuncia o con l’alchimia di strane formule esoteriche, la transustanziazione del pane e del vino. Di modo che essi divengano il corpo e il sangue del Signore nostro Gesù Cristo, se il cattolico dapprima non fosse sacerdote e, secondo il comando di Gesù (Lc 22, 19-20), non usasse correttamente lo strumento della consacrazione, affinché quelle due specie diventassero Eucarestia. E ancora, per rispondere poi sul secondo aspetto della tua domanda, ti ho ben motivato che non esiste un sotteso dubbio, come da te presupposto, da parte di noi credenti di «comprendere» una qualche difficoltà dell’ «“agire”» del nostro Dio. Allora, quel presunto difettoso agire di un dio distratto, è piuttosto un "vostro" problema causato dall’ostinato mormorare, aggravato dalla durezza del vostro dubbio e non da una presunta incertezza dei credenti. È un tormento di voi non-credenti, di voi dubbiosi, sebbene non tutti siate agnostici pertinaci ma temporanei. Poiché, sebbene come tutti siate assaliti dalla tentazione al dubbio, nessuno v’impedisce che abbiate pure la propensione di tenere salda la vostra onesta coscienza per cercare davvero la Verità e il Dio a voi ancora Sconosciuto (At 17, 22-27).

Infine, affinché nemmeno io sia frainteso o abbia involontariamente stimolato sospetti inesistenti che potrebbero rafforzare ancor meglio i tuoi dubbi, ti suggerisco di leggere con attenzione altri due brani evangelici. Essi partono dall’ipotesi errata che il Terribile, non solo permetta, ma anticipi le peggiori sciagure come castighi meritati agli uomini per la loro cattiveria. Sebbene le domande degli interlocutori si somiglino, le risposte del Signore si differenziano e sono sorprendenti. Il primo brano è dall’evangelista san Giovanni: «Passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: "Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?". Rispose Gesù: "Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio.”» (Gv 9, 1-3). Ancora una volta, l’amore di Gesù verso il suo prossimo è anticonformista, fuori da ogni schema ma in perfetta linea con l’annuncio di quella “Lieta Novella” per la quale Egli sacrificò la propria vita e per cui il Padre lo aveva inviato nel mondo. E cioè, che Dio vuole bene a ogni uomo, ama tutti senza distinzione alcuna; se credenti (oggi, i cattolici o d’altre confessioni o religioni) o increduli (pagani, atei, agnostici) se giusti o peccatori, poiché, come scriveva san Paolo all’amico Timoteo, Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati» (1Tim 2,4).
Nel secondo pezzo tratto dal Vangelo di san Luca, si racconta invece di taluni che vanno da Gesù per chiedergli delucidazioni sulla morte improvvisa e capitata per disgrazia ad alcune persone. La risposta di Gesù è ancora più sorprendente. Intanto, rigetta categoricamente la mentalità per cui la giustizia divina sarebbe tanto più valevole, quanto più applica alla lettera e fino all’esasperazione i divieti, le trasgressioni, le norme, le regole, i cavilli della Legge e quanto più colpiva i rei e i peccatori, specialmente quelli pubblici e di cattiva fama. Con ciò non significava, sebbene la perentorietà di Gesù Cristo verso i suoi contestatori, che Egli rigettasse la legge. Anzi, pure di uno iota legislativo, Gesù ne restituì il valore assoluto, insostituibile e sopratutto diede pieno compimento alla Legge stessa (Mt 5, 17-18). Più volte Gesù, dunque, contestò ai suoi oppositori, dottori della legge e scribi, il loro modo di interpretare la Thorah (Lc 11, 46), facendone un carico pesantissimo verso tutti gli altri, verso i poveri, specialmente contro i peccatori pubblici. Come, cioè, i detentori della Legge, ne snaturarono il suo senso trascurandone, di fatto, il motivo per cui essa fu data. Con il secondo aspetto della sua risposta poi, Gesù rigetta anzitutto lo spurio di far equivalere, disgrazia-catastrofe, a punizione-castigo. Ergo. Il Creatore non c’entra niente. Non c'entra sulle cause-effetto delle calamità, delle sventure, di croci personali. Esse avvengono e ci sono. Punto. Quel che conta, di fronte a questi fatti, è come si comporta l’uomo. Questo, sempre a mio personale parere, è il nocciolo del successivo episodio evangelico: «In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù rispose: "Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte?
No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo.
O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme?
No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo"»
(Lc 13, 1-5).

Perché, vedi mister incredulo, c’è questo «oggi» (Sal 95, 8) in cui il libro della propria vita è aperto e nel quale si continua a scrivere. Ci sarà, anche, il «Dies irae» – dal quale quell'austero e impressionante inno gregoriano di un frate contemporaneo di san Francesco, e usato tuttora nella liturgia di requiem ‘Missa pro defunctis’ di rito tridentino –, in cui verrà letto quanto è stato scritto nel proprio libro della vita; di modo che ognuno, dopo essere stato valutato (giudicato) riceverà, o la felicità o la infelicità eterne, nella misura che il Signore deciderà (Mt 25, 32-45). Da quell’ultimo giorno perciò, quanti destinati alla felicità perenne, nella quale non andranno persi ma si attualizzeranno pure quei momenti felici intuiti nel carpe diem esistenziale (lo stupendo film drammatico del 1989, ”L'attimo fuggente”, con la sublime interpretazione di Robin Williams), mai più saranno tentati né indotti dal dubbio pertinace al peccato mortale, poiché queste due brutte cose saranno eliminate per sempre. Inoltre, per quanti invece saranno destinati all’infelicità definitiva, non esisterà più neppure quella netta distinzione tra Peccato e Peccatore, che finora permette al Signore, mediante la sua Santa Chiesa Cattolica, di detestare sempre il peccato, ma di pazientare con il peccatore (1Pt 3, 20; 2Pt 3, 15a), quindi di ammonirlo e di perdonarlo. Ciò succederà perché, dopo la fugacità di questo «oggi», sia i peccatori che il peccato, combaceranno perfettamente per via di quella loro personale e imperdonabile colpa di avere scelto, col proprio libero arbitrio, di farsi un tutt’uno con il peccato e con se stessi.

A volte, spronati dall’inventiva e senza aspettare le vacanze, bisognerebbe cercare di estraniarsi dal frastuono dei rumori e delle preoccupazioni, che aggiungono altra distrazione ai nostri doverosi impegni con la famiglia, il lavoro e la società. E così si troverebbero silenzio e calma anche dentro di noi. Per questo sono dell'opinione che ognuno, proprio traendo spunto dai fatti catastrofici più spaventosi e spropositati, dalle sciagure singole alle proprie croci personali, potrebbe sostare un po' tranquillo in un punto alto della propria città. E se fosse possibile andare in una terrazza sulla cima del nuovo grattacielo - quel quasi un kilometro d'altezza - a Dubai. Ciò sarebbe meglio che isolarsi in cima a una bella montagna delle Alpi o del Nepal su qualche sommità nella catena dell’Himalaya e, forse, con un saggio sherpa. L’incognita di quest’ultima scelta, infatti, potrebbe essere quella, dopo l’ammirazione di paesaggi incantevoli e il transeunte di pace e serenità (Mc 9, 5), di accomodarsi in una condizione illusoria , irreale, utopica e lontanissima, appunto, dalla realtà concreta. Per questo è preferibile trovarsi o in quell’altissimo grattacielo degli Emirati Arabi, oppure in altri a Manhattan (per chi non può, basterebbe anche il campanile del proprio paese o, se ancora troppo piccolo, fare una telefonata in meno dal proprio cellulare e con l’acquisto di un biglietto da 3€ spostarsi nella più grande città vicina) dove avere una visione più ampia e tangibile di se stessi, degli altri, degli animali, delle cose vive e del resto. Soprattutto, è di capire il coinvolgimento personale nel complesso movimento della Città umana. È smettere di camminare guardando solo le proprie scarpe; di interrompere le piccole beghe tra condomini, di superare la vicendevole indifferenza tra pedoni e di comprendere e vincere le tensioni tra i membri della stessa comunità.
O ancora, è di non lasciarsi più vincolare dagli show politici di questo o quell’altro programma tv, con tanto di baruffe tra partiti, o di affannarsi a favorire l’uno o l’altro contrapposto politico durante i loro melliflui dibattiti e le loro furibonde lotte per garantirsi ognuno, o di maggioranza o di opposizione, il proprio prestigio e i bottoni di comando. Di non inveire da cialtroni e con prepotenza contro quei giornalisti, politologi, o cittadini comuni (compresi gli appassionati di web, facebook, forum, blog, chat) che con critica obiettiva riconoscono i meriti dell’uno o dell’altro governo e non per questo sono di parte, né significa che votino per i partiti di maggioranza che lo sostengono. Né tantomeno hanno un culto della personalità per l’uno o l’altro leader di maggioranza o di ministro del governo o di altri carismatici dell’opposizione. Così anche di non aggredire oltremisura i vaticanisti o i cittadini comuni (compresi idem) che apprezzano gli interventi qualificati dei Vescovi e del Pontefice sui temi caldi della bioetica, della famiglia, della morale, e non per questo accusarli con brutale violenza d’integralismo, d’essere retrogradi conservatori, eccetera. Di non farsi manipolare più dalle scene ridicole, quando non stomachevoli, di questi o altri personaggi che vorrebbero essere autorevoli rappresentanti delle istituzioni o del giornalismo, ma che spesso si dimostrano burattini oppressi e pilotati dall'invidia che, magari, si regalano valium e vini rossi doc, con lo scambio di altrettante reciproche ingiurie e meschinità varie.
Insomma si tratta di staccarsi da quelle che restano piccinerie, seppure fatte da cittadini comuni o da personaggi molto noti. Ciò per recuperare il senso delle cose vere, il valore degli obiettivi più importanti, la sintesi del proprio ruolo, sebbene fosse ignoto tra gli ignoti ma senz’altro incisivo al bene collettivo e individuale. Si tratta perciò di riacquistare quello che per i migliori filosofi era essenziale o ciò che per il Signore nostro Gesù Cristo è decisivo compiere adesso per il bene attuale e per il buon fine ultimo (Mt 6, 24-34). È quindi, sempre approfittando della riflessione indagatrice e scrupolosa sulle immani catastrofi successe a kilometri di distanza o di una disgrazia capitata al vicino di porta, di scendere poi dal grattacielo, da quell’altezza atipica, per stare con i piedi ben piantati per terra; per ritornare di nuovo nella realtà e guardarla bene in faccia con rinnovato spirito e vigore.

C’è sempre quella domanda sottesa, mister non-credente, che le comprende tutte e della quale pure tu avrai capito l’importanza: come affrontare la propria croce? Non quella altrui, ma quella personale, quindi: come ti poni tu di fronte alla tua croce? E la risposta te la puoi dare solamente tu, e penso che, una volta individuata, dovresti almeno farne confidenza con chi ti è intimo e ti vuole bene; che poi l’amico, l'amica, la consorte, la morosa o chicchessia, potendola comprendere, sia capace di parteciparla e di condividerla con te ... sempre per il fatto, che ti vuole bene. Siccome, appunto, tutti possiedono la croce, bisogna vedere la reazione di ognuno con la propria. Specie quando questa croce si manifesta più evidente del solito, in maniera repentina e inaspettata, pesantissima e insopportabile. Magari con la perdita improvvisa di un proprio caro, o il sentirsi riconfermare dall’oncologo quella risposta sconvolgente già preventivata dal proprio medico della mutua. Che cioè, il tumore da lui diagnosticato è veramente incurabile e che la propria dipartita è prevista al massimo entro due mesi, con tanto di dolori fisici e psicologici, con una sofferenza spaventosa e interminabile. Sennonché, le possibilità di scelta davanti alla propria croce, sono e restano sempre soltanto due: o la si accetta con fede e razionalità, oppure, la si rifiuta con rassegnazione e disperazione.

L’uomo di retta coscienza e che abbia mente lucida e libera, ha la potenzialità di ragionare correttamente e perciò anche la capacità di capire il senso e di valutare la giusta gerarchia delle cose. Può anche succedere però che lo stesso uomo, pur avendo vive tali positività, si procuri una falsa coscienza, quindi, con la sua disonesta capacità, inverta l’ordine del vero e distorca il significato autentico delle cose. Di modo che, chiama bene ciò che è male, e male ciò che invece è bene; dire falso ciò che è vero e dichiarare verità ciò che è bugia. Ovvero, fare gli sporcaccioni tra uomini o tra donne, cioè praticare l’omosessualità è legge naturale e non una depravazione contro-natura; eliminare in ogni caso la vita nascente è legge naturale e non un abominio contro-natura; uccidere un malato terminale è una legittimità compiuta in nome della pietà umana e non un assassinio contro-natura; suicidarsi è un diritto sacrosanto e non un abuso contro-natura; che il forte prevarichi sul debole è legge naturale e non una violenza contro-natura, eccetera. Anche queste inversioni delle cose sono il frutto del peccato. E la piena o minore consapevolezza della propria colpa, non impedisce che per via di questa disonesta coscienza l’errore raggiunga il culmine del suo dannoso effetto.
Per esempio: di solito si pensa che la disperazione nasca dall’irreparabilità causata da una disgrazia. Invero, succede il contrario. È l’occasione di una disgrazia che fa emergere con prepotenza la disperazione, la quale è presente, ma è anche celata nell’inconscio già dapprima di un evento tragico. Il problema vero, quindi, non è la disgrazia, ma la disperazione insediatasi nel profondo e di cui, la causa prima e ultima, è il peccato.
A conferma di questo stravolgimento della verità, si trova un archetipo ben delineato nella Genesi: 3, 8-11. Non perché era nudo, Adamo disse al Signore di aver paura di Lui e perciò di nascondersi dalla sua presenza. Bensì, ebbe paura e si nascose perché sapeva di essere in colpa, avendo disubbidito al comando del suo Creatore. È assodato che il progenitore non disse subito il falso a proposito della sua nudità. Difatti era sempre stato nudo, come lo era la propria moglie, e non provava né vergogna né paura quando il Signore Dio aveva la consuetudine di intrattenersi a dialogare con loro. Tuttavia, evitò di spiegare a sé e a Dio il motivo vero della sua paura e vergogna, che subentrarono subito dopo la trasgressione. E così, anche la menzogna cominciò a infiltrarsi nella coscienza umana. Ma gli effetti del peccato sono ancora peggiori ed equivalgono a quel morire progressivo e inarrestabile che raggiunge il suo apice nella morte eterna (Gen 2, 17). Nella paura eterna. Nella sofferenza eterna. Nella disperazione eterna. E, infatti, un altro passo verso la disperazione, Adamo lo fece anche quando insinuò che, in fondo, fu per colpa di Dio, il quale gli pose la donna accanto, che mangiò del frutto proibito e cominciò ad avere una graduale paura, una continua angoscia e un'interrotta disperazione. Così fece Eva che a sua volta si giustificò del peccato commesso scaricando la propria colpa, non su di sé, ma tutta sul serpente Buffone (Gen 3, 13). Invero anche lei non dichiarò la verità tralasciando il motivo primo che la spinse a mangiare del frutto proibito: conoscere il bene e il male, diventare saggia, essere in pratica come Dio.

Ad ogni modo, ringraziando il Signore, le forme e i tempi della fede e della razionalità, sono diversi; altrettanto differenti e inaspettati sono anche gli aiuti che Egli dà (Sal 91, 14-15). Le forme e i tempi della disperazione per la propria croce poi, sono ugualmente abbondanti senza che tuttavia ne cambino la sostanza; vanno da una leggera nevrosi, alla depressione massima, dal diventare rimbambiti prima del tempo, all’impazzire del tutto, dal drogarsi in vari modi o all’auto emarginarsi in diverse maniere. Se difatti ti capita l’occasione, mister non-credente, prova a parlare con alcuni barboni, ascoltando con pazienza le loro storie, e ti accorgerai che molti di loro sono diventati tali proprio perché scappano dalle proprie pesanti croci. E infine, si arriva al suicidio diretto; togliersi la vita in maniera più, o meno cruenta, anche alla veneranda età di novantacinque anni. Oppure è di spararsi in testa o di gettarsi dal ventesimo piano per la perdita del posto di lavoro, o per la bocciatura; o è d’impiccarsi, dopo aver fatto una strage dei propri bambini e della moglie magari per le infedeltà di quest'ultima. Eccetera. Se poi in qualcuno di costoro la paura ha il sopravvento o si è guastato anche il freno della vergogna, allora si fanno coraggio e corrono dai giudici-salvavita per farsi legalizzare la buona morte tramite la scappatoia del suicidio assistito.
Chiedo venia per la dura realtà di questi ultimi esempi, che penso siano utili a tutti e anche a te. E, sebbene ti sembrino forse tutt’altro che vantaggiosi, accetta comunque la mia franchezza.

In conclusione. Le esperienze-riflessioni fin qui esposte, oltre a quelle che si potrebbero ancora aggiungere, saranno comunque insufficienti per la comprensione di quel fattore essenziale che, in ogni caso, è e rimarrà sempre inesplicabile. In altre parole: anche la sofferenza-male è, alla fine, mistero insondabile. E lo è soprattutto, non tanto perché si deve di necessità subire l’azione incontrollabile e devastante della sofferenza-male, ma piuttosto dal fatto che Dio li permetta. In ultima analisi, giusto a riferimento della tua domanda, ci si trova davanti a quello che sembra il maggiore paradosso del Padreterno, nel momento in cui Egli permette l’imprevisto di eventi catastrofici o disgrazie individuali da cui è pressoché impossibile difendersi; che appunto provocano morte e dolore irrimediabile, ora ai singoli e ora alla collettività.
Cosicché, se da un lato a ognuno, credente o no che sia, sfugge tuttora il motivo ultimo del male-sofferenza e la sapiente volontà del Creatore, essendo esse mistero di fede; da altro versante un tale mistero, ben prima di sfociare in smarrimento e disperazione, diventa lo scandalo più obbrobrioso e più incomprensibile. Anzitutto laddove c’è chi, saldo nel suo ostinato dubbio, non vuole credere in Dio né tantomeno sperare nella sua bontà. Quando cioè, Dio-Padre è misurato soltanto con la logica circoscritta dell’umana ragione, anche se essa appartiene al migliore pensatore o all’indagatore più attento e perspicace (1Cor 1, 18-25).



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Bestion., 17/09/2011 17.25:



«Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui
Disse allora Gesù ai Dodici: "Forse anche voi volete andarvene?"
Gli rispose Simon Pietro: "Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna;
noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio"»
(Gv 6, 66-58)





[SM=x44599] [SM=x44600] chissa con che voce li sentiva [SM=x44599] [SM=x44600]

cmq bestion non volermene [SM=x44641] [SM=x44641] [SM=x44641] [SM=x44641] ma non sono molto abituato a leggere [SM=x44600] e molto meglio un granello di senapa [SM=x44598] [SM=x44599] [SM=x44600] e tanta terra [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44599]
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[SM=x44608] [SM=x44613] [SM=x44613] bestion io ci ho provato [SM=x44597] ma sono arrivato fino a:

Bestion., 17/09/2011 17.25:


«Allora il diavolo lo condusse [Gesù] con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio e gli disse: "Se sei Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo, ed essi ti sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede". Gesù gli rispose: "Sta scritto anche: Non tentare il Signore Dio tuo"». (Mt 4, 5-7)



[SM=x44599] [SM=x44600] [SM=x44605] [SM=x44606] [SM=x44606] ma sei sicuro che non voglia dire "guarda che te la rigira come vuole lui" [SM=x44603] [SM=x44603] [SM=x44603] [SM=x44613] [SM=x44613] [SM=x44613]
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[SM=x44614] [SM=x44614] [SM=x44614] [SM=x44614] concludiamo la serata [SM=x44599] [SM=x44600] guarda bestion che sono rarissimi i contadini che si danno la zappa sui piedi [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598] [SM=x44598]

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non bisogna avere paura di un Popolo che non ha Potere ma di chi detiene il Potere di Quel Popolo
anche perché la MORTE non accetta una lira
18/09/2011 11:06
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!

«Per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità.
Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce»

(Gv 18, 37b)


“La corona di spine" - Dirk van Baburen (1623) - Catharijneconvent, Utrecht

«Solo mediante la fede nel Crocifisso, in Colui che è privato
di ogni potere terreno e così innalzato, appare anche la nuova
comunità, il nuovo modo in cui Dio domina nel mondo»


Come e perché conoscere
Gesù di Nazaret

Mariano Crociata

Senza voler essere un formale atto di magistero (cfr. Gesù di Nazaret. Dall'ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, I, p. 20), la seconda parte del Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI si conferma come una felice e matura sintesi di una lunga e feconda riflessione teologica portata fin dentro l'esercizio del ministero petrino. I criteri che essa presuppone trovano espressione esemplare nell'Intervento del Papa nel corso della XII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, il 14 ottobre 2008. In esso affermava la necessità del metodo storico-critico che riposa sul mistero stesso dell'incarnazione. "Il fatto storico - diceva - è una dimensione costitutiva della fede cristiana. La storia della salvezza non è una mitologia, ma una vera storia ed è perciò da studiare con i metodi della seria ricerca storica". Essa ha di peculiare che si tratta di una storia aperta all'azione divina, la quale si rende operante nel processo di formazione della stessa sacra Scrittura. Nella sua qualità di parola umana e Parola divina allo stesso tempo, la Bibbia richiede di essere "letta e interpretata con lo stesso Spirito con il quale fu scritta" (Dei Verbum, n. 12), in tal modo "seguendo una regola fondamentale di ogni interpretazione di un testo letterario" (Benedetto XVI, Intervento, cit.). I tre elementi metodologici che devono guidare l'interpretazione sono, perciò, l'unità di tutta la Scrittura, che dà origine all'esegesi canonica, la viva tradizione della Chiesa, l'analogia della fede ovvero la coerenza organica di tutti i contenuti della fede. L'assenza di qualcuno di questi elementi rende la Scrittura "un libro solo del passato" e vede affermarsi una ermeneutica secolarizzata che si basa sulla "convinzione che il Divino non appare nella storia umana", creando anche "un profondo fossato tra esegesi scientifica e lectio divina" (ib.).

L'opera che presentiamo in linea di principio afferma e realizza il superamento della separazione tra esegesi scientifica ed ermeneutica della fede o interpretazione credente della sacra Scrittura, per pervenire così ad una compiuta esegesi teologica. In questa prospettiva l'Autore si confronta con la più aggiornata ricerca esegetica e teologica contemporanea, ma attinge anche a tutta la tradizione con una particolare attenzione ai Padri della Chiesa.
La ragione di fondo della elaborazione di tale sintesi è da ricercare innanzitutto nell'esigenza di conoscere quello che Benedetto XVI chiama il "Gesù reale" (Gesù di Nazaret, II, p. 8), espressione che si intende bene se la si confronta e la si distingue dalla formula del "Gesù storico", con cui la ricerca si riferisce al Gesù conosciuto in base alle risultanze dell'applicazione ai testi scritturistici del metodo storico-critico. Conoscere il Gesù reale non può prescindere dalla dimensione costitutiva della sua identità e della sua esperienza, e cioè dal suo rapporto personale e unico con Dio, il Padre. Questo rapporto si può discernere solo nella luce della fede; all'infuori di tale prospettiva difficilmente prenderebbe senso; ma, d'altra parte, esso costituisce la dimensione originaria e generativa della persona di Gesù e di tutta la sua vicenda storica, così che il prescinderne precluderebbe irrimediabilmente la possibilità di accedere alla realtà storica dell'uomo di Nazaret. Le riserve che possono essere avanzate, a questo riguardo, si dissolvono di fronte alla considerazione che la fede non si dà senza la ragione, né tanto meno si oppone alla ragione, ma piuttosto costituisce l'orizzonte più vasto entro il quale essa può liberamente e criticamente esercitarsi nella penetrazione del mistero della realtà.

L'altra faccia di questa considerazione riguarda il nostro approccio a Gesù di Nazaret. La domanda su "come" conoscerlo si intreccia con l'altra sul "perché" conoscerlo. Se la fede è condizione imprescindibile della conoscenza della sua realtà storica e personale, allora non può esserci conoscenza di lui senza rapporto con lui, analogamente a come solo la comunione con lui ha permesso ai suoi discepoli di aprire un accesso alla sua realtà e di renderne testimonianza.
Chiunque può conoscere Gesù di Nazaret, ma lo incontra e lo conosce realmente solo chi perviene al segreto sorgivo della sua persona di Figlio eterno del Padre e come tale entra in relazione di fede e di amore con lui, sperimentando "l'intima amicizia con Gesù, da cui tutto dipende" (I, p. 8). Nell'orizzonte della fede la conoscenza storica su Gesù di Nazaret non perde in nulla di onestà intellettuale e di rigore critico, ma si consolida e si allarga all'identità e all'incontro personale che nessuna acribia storiografica da sola potrebbe assicurare.
Uno sguardo al pontificato di Benedetto XVI dall'ottica di questo suo libro, conferma un'intuizione che si è fatta strada fin dalla sua prima enciclica, Deus caritas est. Un messaggio passa attraverso la scelta e lo sviluppo dei temi adottati; messaggio che segnala l'urgenza, per la Chiesa di questo tempo, di ripartire dall'essenziale, dal centro della fede, e dall'intero, dalla salvaguardia e dalla trasmissione dell'integro patrimonio della fede ricevuta; nell'enciclica era Dio amore, qui è Gesù di Nazaret, Figlio eterno e salvatore, di cui questa seconda parte dell'opera mette in luce la centralità del mistero pasquale. A lui siamo invitati a volgere con rinnovata attenzione lo sguardo (Guardare Cristo è il titolo di un corso di esercizi spirituali tenuto da Joseph Ratzinger nel 1986 e successivamente pubblicato da Jaca Book nel 1989), noi vescovi e presbiteri, i credenti tutti, voi cultori di studi in una università cattolica dal riferimento a Cristo fin nella denominazione.

A voi torna come compito il messaggio di quest'opera del Papa: da un pensiero fecondato dalla presenza di Cristo far nascere una cultura e una competenza scientifica capaci di rinnovare l'umano nell'orizzonte del suo ritrovato rapporto con Dio.
Questa seconda parte del Gesù di Nazaret ripercorre gli eventi degli ultimi giorni dell'esistenza terrena di Gesù fino alla risurrezione e all'ascensione seguendo passo passo il filo neotestamentario nei suoi molteplici intrecci interni e con l'Antico Testamento, attraverso una lettura penetrante che dal testo scende dentro gli eventi stessi e il loro significato. Una impressione fin dall'inizio si conferma nel lettore: nei particolari e nell'insieme, il testo scritturistico si illumina di una chiarezza che rende la spiegazione convincente e perfino appagante, perfettamente rispondente alle attese di intelligibilità. È l'effetto che suscita un opus rotundum, un'opera proporzionata e compiuta nella articolazione complessiva, nei contenuti e nella cura dei particolari.

Essa ci chiede innanzitutto di entrare sempre più profondamente nella contemplazione e nella assimilazione del mistero di Cristo, in una conoscenza amorosa e in una relazione d'amore intelligente con Lui così come ci viene presentato. In questo senso le due categorie che vengono introdotte per spiegare la lavanda dei piedi, e cioè sacramentum ed exemplum, assumono un valore paradigmatico in riferimento a tutto l'agire di Gesù Cristo nel suo mistero pasquale.
Ascoltiamo cosa scrive il Papa al riguardo: "Con sacramentum [i Padri] non intendono qui un determinato singolo sacramento, ma l'intero mistero di Cristo - della sua vita e della sua morte - nel quale Egli viene incontro a noi esseri umani, mediante il suo Spirito entra in noi e ci trasforma. Ma proprio perché questo sacramentum veramente "purifica" l'uomo, lo rinnova dal di dentro, esso diventa anche la dinamica di una nuova esistenza. La richiesta di fare ciò che ha fatto Gesù non è un'appendice morale al mistero (...). Questa richiesta deriva dalla dinamica intrinseca del dono, col quale il Signore ci rende uomini nuovi e ci accoglie in ciò che è suo. Questa [è la] dinamica essenziale del dono, per la quale Egli stesso ora opera in noi e il nostro operare diventa una cosa sola con il suo (...): l'agire di Gesù diventa nostro, perché è Lui stesso che agisce in noi" (II, p. 75).

Uno dei riflessi che viene spontaneo cogliere da questo rinnovato sguardo a Cristo è senza dubbio quello che risveglia l'appello alla responsabilità cristiana nel nostro tempo e, in essa, al nostro compito pastorale. Tra altri possibili, provo a evidenziare tre spunti in tal senso.
Innanzitutto la dimensione escatologica della vita cristiana, a partire dalla risurrezione che la dischiude, a proposito della quale leggiamo che "l'essenza della risurrezione sta proprio nel fatto che essa infrange la storia e inaugura una nuova dimensione" (II, p. 304). L'Ascensione di Gesù comporta che "mediante il battesimo, (...) nella nostra vera esistenza siamo già "lassù" (cfr. Colossesi, 3, 1 ss). Se ci inoltriamo nell'essenza della nostra esistenza cristiana, allora tocchiamo il Risorto: lì siamo pienamente noi stessi" (ibidem, p. 317). Questa condizione nuova conferisce un carattere peculiare all'attesa del ritorno del Signore in questo, che può essere qualificato come "tempo intermedio" (ibidem, p. 319). "Nella preghiera cristiana per il ritorno di Gesù è sempre contenuta anche l'esperienza della presenza. (...) Egli è adesso presso di noi" (ibidem, p. 320). Anzi bisogna parlare, con san Bernardo, di un adventus medius, di una venuta tra la prima e l'ultima, e quindi di una "escatologia del presente, [...poiché] il tempo intermedio non è vuoto (...). Questa presenza anticipatrice fa senz'altro parte dell'escatologia cristiana, dell'esistenza cristiana" (ibidem, p. 322). Ad essa può essere utilmente collegato il tema del tempo dei pagani come tempo della Chiesa, il cui preannuncio "e il compito da ciò derivante è un punto centrale del messaggio escatologico di Gesù" (ibidem, p. 56).

In un orizzonte escatologico così inteso, che ingloba il tempo dell'esistenza cristiana, si affacciano, tra gli altri, due compiti che il sacramentum e l'exemplum posti dal Cristo rendono possibili e richiedono. Il primo rimanda alla nostra dimensione personale ed emerge nella preghiera di Gesù nel Getsemani. Qui egli fa esperienza di quell'intimo conflitto tra volontà umana e volontà divina che affligge la condizione umana dopo il peccato. Ma egli supera in se stesso tale conflitto poiché la volontà della sua persona divina accoglie in sé la volontà della natura umana. "E questo è possibile senza distruzione dell'elemento essenzialmente umano perché, a partire dalla creazione, la volontà umana è orientata verso quella divina. Nell'aderire alla volontà divina la volontà umana trova il suo compimento e non la sua distruzione" (ibidem, p. 181). E anche se, dopo il peccato, l'orientamento alla cooperazione si è trasformato in opposizione, Gesù riporta l'uomo alla sua condizione originaria e alla sua grandezza. "L'ostinazione di tutti noi, l'intera opposizione contro Dio è presente e Gesù, lottando, trascina la natura recalcitrante in alto verso la sua vera essenza" (ibidem). La delineazione di un secondo compito scaturisce dal processo di Gesù e dalla motivazione della sua condanna a morte. Nel processo emerge infatti una preoccupazione politica all'origine del procedimento contro Gesù da parte di un'aristocrazia sacerdotale e dei farisei, congiunti in questa circostanza. Tale preoccupazione mostra, nondimeno, un misconoscimento di ciò che in Gesù era essenziale e nuovo: "Con il suo annuncio Gesù ha realizzato un distacco della dimensione religiosa da quella politica, un distacco che ha cambiato il mondo e che veramente appartiene all'essenza della sua nuova via" (ibidem., p. 191). Nello svolgimento dei fatti emerge un disegno divino che, oltre le motivazioni che hanno portato alla condanna a morte di Gesù, si compie servendosi di decisioni umane. In questo modo si mostra come solo attraverso la croce poteva avvenire la separazione di politica e fede.

Solo attraverso la perdita veramente assoluta di ogni potere esteriore, attraverso lo spogliamento radicale della croce, la novità diventava realtà. Solo mediante la fede nel Crocifisso, in Colui che è privato di ogni potere terreno e così innalzato, appare anche la nuova comunità, il nuovo modo in cui Dio domina nel mondo (ibidem., p. 193).
Di fronte a Pilato Gesù rivendica la sua regalità, ma secondo un concetto assolutamente nuovo, strutturalmente legato al potere della verità. Dio è misura dell'essere. In questo senso, la verità è il vero "re" che a tutte le cose dà la loro luce e la loro grandezza.



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Bestion., 18/09/2011 11.06:


«Per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità.
Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce»

(Gv 18, 37b)




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[SM=x44599] [SM=x44600] (poi ogni uno fa quello che vuole) [SM=x44599] [SM=x44600] [SM=x44598] ma non trovi che la cultura abbia un forte potere anastetizzante?????? [SM=x44600] [SM=x44600]
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non bisogna avere paura di un Popolo che non ha Potere ma di chi detiene il Potere di Quel Popolo
anche perché la MORTE non accetta una lira
18/09/2011 14:49
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Sapere di non sapere
Gianfranco Ravasi

Chi sa non parla, chi parla non sa. Sapere sia di sapere una cosa, sia di non saperla: questa è la conoscenza.

Ormai nell'immaginario collettivo la Cina è un gigante economico, un po' misterioso e forse inaffidabile, legato a modelli non subito decifrabili. Poco si fa per evocare il suo glorioso passato culturale. Oggi abbiamo posto al centro della nostra riflessione una coppia di aforismi desunti proprio da due grandi maestri della sapienza cinese. Il primo detto appartiene al Tao-te Ching, ossia al «Libro del principio e della sua virtù» del filosofo Lao-tzu, figura leggendaria vissuta nel VI o V secolo a. C.

È un monito severo soprattutto per i nostri tempi impastati di chiacchiera (chat!) informatica o televisiva. Esso fa il pari col proverbio rabbinico che recita: «Il sapiente sa quel che dice; lo stupido dice quel che sa». In una giornata festiva com'è l'odierna non sarebbe forse il caso di spegnere il vaniloquio almeno per un po' e di costruirsi attorno una piccola oasi di silenzio, di lettura, di riflessione? È paradossale, ma talora neppure in chiesa, nella liturgia, si rispettano i momenti di silenzio- L'altra frase sopra citata è tratta, invece, dai celebri Colloqui o Dialoghi (in cinese Lun Yü) di Confucio (K'ung fu-tzu, «il Maestro K'ung»), pensatore del VI-V secolo a. C.

È una staffilata contro l'arroganza della scienza, la saccenteria della politica, la presunzione di certi maestri, la boria che accompagna molti comportamenti, il "bullismo" intellettuale. Quando a sorpresa, nel 1996, la poetessa polacca Wislawa Szymborska ricevette il Nobel, dichiarò umilmente: «L'ispirazione poetica nasce da un incessante "Non so". Per questo apprezzo tanto queste due piccole paroline: "Non so". Piccole ma alate».

La grandezza di una persona sta proprio nella consapevolezza del mistero enorme che la avvolge, dell'immensa complessità del reale, della sublime invalicabilità dell'infinito e dell'eterno.



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Bestion., 18/09/2011 14.49:



Sapere di non sapere
Gianfranco Ravasi

Chi sa non parla, chi parla non sa. Sapere sia di sapere una cosa, sia di non saperla: questa è la conoscenza.




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Parlare di niente
Gianfranco Ravasi

C'è gente che ama parlare di niente. È l'unico argomento di cui sa tutto.
«Non dice nulla, ma lo afferma con grande autorevolezza».

Così, un giorno mi sussurrò con ironia un amico, mentre ascoltavamo a una cerimonia ufficiale una personalità che stava infliggendoci con solennità un discorso di circostanza.
Bisogna, però, subito dire che basta salire su un mezzo pubblico e lasciarsi avvolgere dal cicaleccio degli utenti dei cellulari, per rimanere basiti di fronte a quel flusso di chiacchiere, vane e vacue, che vengono riversate in questo oggetto di culto del nostro tempo.

Forse aveva ragione quella mala lingua dello scrittore inglese ottocentesco Oscar Wilde, straordinario "battutista", con la sferzante considerazione sul vaniloquio che abbiamo sopra proposto. Non c'è bisogno di ripetere il famoso detto della tradizione ebraica: «Il sapiente sa quel che dice, lo stupido dice quel che sa». La dotazione di molti, purtroppo, è fatta solo di niente, di banalità, di ovvietà, di superficialità e, non di rado, di volgarità. Interi programmi televisivi si reggono su questa inconsistenza e il fatto che siano così seguiti fa solo sospettare che si diffonda sempre più quel modello di gente che Wilde bollava tanto impietosamente.

Non ho mai dimenticato ciò che mi disse, l'unica volta in cui lo incontrai, lo scrittore Riccardo Bacchelli: «Reverendo, si ricordi: gli stupidi impressionano non foss'altro che per il numero!». Detto questo, però, non dimentichiamo che qualche schizzo di stoltezza e di vacuità può raggiungere anche le nostre menti e le nostre anime.

Bisogna, allora, essere molto sorvegliati e autocritici e ripetere col Salmista: «Vigilerò sulla mia condotta per non peccare con la mia lingua, metterò un morso alla mia bocca» (39,2).



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Bestion., 18/09/2011 18.36:


Parlare di niente
Gianfranco Ravasi

C'è gente che ama parlare di niente. È l'unico argomento di cui sa tutto.
«Non dice nulla, ma lo afferma con grande autorevolezza».




E poi e poi, gente viene qui e ti dice di sapere già ogni legge delle cose.
E tutti, sai, vantano un orgoglio cieco di verità fatte di formule vuote...
E tutti, sai, ti san dire come fare,
quali leggi rispettare, quali regole osservare, qual'è il vero vero...
E poi, e poi, tutti chiusi in tante celle fanno a chi parla più forte
per non dir che stelle e morte fan paura...............
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anche perché la MORTE non accetta una lira
19/09/2011 10:58
 
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«Rallegratevi nel Signore, sempre;
ve lo ripeto ancora, rallegratevi»

(Fil 4, 4)



“Natività" (particolare)
Matthias Grunewald (1515) - Chiesa monastero degli Antoniti di Issenheim, Alsazia


«La gioia. Non quella scialba e triste delle circostanze fortunose
o delle soddisfazioni effimere, ma quella reale che penetra l’anima e ispira la vita:
è la gioia di sapere di non essere più soli perché Dio-è­-con- noi»



Sciogliamo le paure
Angelo Bagnasco

L’Apostolo Paolo invita i cristiani di Fi­lippi a gioire. È, la gioia, il desiderio di ogni uomo. Così come la vita e l’amore. E la festa di Natale evoca questi sentimen­ti nell’umanità intera, intensifica questi de­sideri, riaccende la nostalgia di questi beni. L’uomo – possiamo dire – è "nostalgia", espressione che raccoglie e manifesta tut­to ciò che di bello e di buono, di presente e di futuro, di tempo e di eternità, abita nel nostro cuore. Presente come realtà e come promessa: realtà che le nostre mani co­struiscono giorno per giorno; promessa perché l’esperienza ci insegna che non so­lo la vita e il bene sono segnati dallo scor­rere del tempo e che sempre sono incompiuti.

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Finito e incompiuto sembrano il de­stino fatale dell’umanità e del mondo, sembrano cifra di questo splendido e drammatico universo. Quanto più l’uomo scopre la precarietà di tutto, tanto più rie­merge e si rafforza il desiderio che si tin­ge di anelito e tensione - potremmo dire d’amore - e che si protende in avanti sapendo che la pienezza definitiva è un do­no davanti a noi. Il Natale, mistero dell’Incarnazione di Dio nella storia, è la risposta a questo strug­gente desiderio: dalla notte di Betlemme la Luce è apparsa nelle nostre tenebre, la Presenza è entrata nelle solitudini del mondo, così che nessuno sarà più dispe­ratamente solo. La vicinanza di Dio all’uomo è l’evento che – come un filo d’oro – attraversa tutto l’anno liturgico: dal Natale alla Pasqua alla Pen­tecoste. Ma nella notte santa quella pre­senza si tinge di umiltà e tenerezza.

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Quanto bisogno di umiltà e tenerezza! Quanto più il mondo è arrogante e duro, tanto più ha bisogno di incontrare umiltà e tenerezza. E Gesù Bambino ci viene in­contro proprio rivestito di questi abiti che ci richiamano all’essenziale, sciolgono le nostre paure, ci restituiscono la speranza. Dio è con te! Questo è il Natale. Non sei so­lo sotto i colpi della vita, nella ricerca del­la verità, nelle incomprensioni dei rappor­ti umani, davanti a responsabilità gravi. Non siamo soli!

Ci guardiamo intorno e non possiamo negare il momento difficile per l’occupazione, le famiglie, i giovani. La vi­cinanza di Cristo, Figlio di Dio, non risolve miracolosamente le prove, ma ci aiuta a guardarle in modo nuovo e ad affrontarle insieme e con fiducia. Insieme con Lui, e in­sieme tra noi: ecco la solidarietà cristiana. Andare incontro al Natale, lasciarci pren­dere dal suo segreto di luce, aprire il cuore alla divina presenza dell’Amore fatto uo­mo, genera la gioia. Non quella scialba e triste delle circostanze fortunose o delle soddisfazioni effimere, ma quella reale che penetra l’anima e ispira la vita: è la gioia di sapere di non essere più soli perché Dio-è­-con-noi

Davanti all’incanto del presepe, alla straordinaria poesia della piccola grot­ta, ci uniamo al cammino dei pastori e ci auguriamo un buon Natale.



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Bestion., 19/09/2011 10.58:



«Rallegratevi nel Signore, sempre;
ve lo ripeto ancora, rallegratevi»

(Fil 4, 4)


«La gioia. Non quella scialba e triste delle circostanze fortunose
o delle soddisfazioni effimere, ma quella reale che penetra l’anima e ispira la vita:
è la gioia di sapere di non essere più soli perché Dio-è­-con- noi»


Sciogliamo le paure




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anche quelli che amano le misure forti [SM=x44644] [SM=x44644] [SM=x44644] [SM=x44644] [SM=x44644]

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II° Volume





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