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La presenza di Dio

Ultimo Aggiornamento: 12/06/2020 09:44
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06/03/2011 14:05
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!

QUARESIMA: tempo di C o n v e r s i o n e
Mercoledì delle Ceneri

«... polvere tu sei e in polvere tornerai!»
(Gn 3, 19b)


“Cristo Morto" - Andrea Mantegna (1480) - Pinacoteca di Brera, Milano

«Non potendo sfuggire alla morte, l’uomo ha tentato
di dimenticarla o di minimizzarla, privandola di quelle dimensioni
e risonanze, che ne fanno un evento decisivo della sua esistenza»


Ricordati, o uomo ...

Paolo VI

E’ il «Mercoledì delle Ceneri», primo giorno di Quaresima. Lezione austera, quella che ci imparte oggi la Liturgia! Lezione drammatizzata in un rito di plastica efficacia. L’imposizione delle ceneri reca con sé un significato così chiaro ed aperto, che ogni commento si rivela superfluo: essa ci induce ad una riflessione realistica sulla precarietà della nostra condizione umana, votata allo scacco della morte, la quale riduce in cenere, appunto, questo nostro corpo, sulla cui vitalità, salute, forza, bellezza, intraprendenza tanti progetti ogni giorno noi costruiamo. Il rito liturgico ci richiama con energica franchezza a questo dato oggettivo: non c’è nulla di definitivo e di stabile quaggiù; il tempo fugge via inesorabile e come un fiume veloce sospinge senza sosta noi e le cose nostre verso la foce misteriosa della morte.

La tentazione di sottrarsi all’evidenza di questa constatazione è antica. Non potendo sfuggirle, l’uomo ha tentato di dimenticare o di minimizzare la morte, privandola di quelle dimensioni e risonanze, che ne fanno un evento decisivo della sua esistenza. La massima di Epicuro : «Quando ci siamo noi, la morte non c’è, e quando c’è la morte, noi non ci siamo» è la formula classica di questa tendenza, ripresa e variata in mille toni, dall’antichità ai giorni nostri. Ma in realtà, si tratta di «un artificio che fa sorridere più che pensare» (M. Blondel). La morte infatti fa parte della nostra esistenza e ne condiziona dall’interno lo sviluppo. Lo aveva ben intuito Sant’Agostino, il quale così argomenta: «se uno comincia a morire, cioè ad essere nella morte, dal momento in cui la morte comincia ad agire in lui, sottraendogli la vita..., allora certamente l’uomo comincia ad essere nella morte dal momento in cui comincia ad essere nel corpo» (S. AUGUSTINI De Civitate Dei, 13, 10).

Perfettamente in sintonia con la realtà, dunque, il linguaggio della Liturgia ci ammonisce: «Ricordati, o uomo, che sei polvere e che in polvere ritornerai»; sono parole, che mettono a fuoco il problema non eludibile del nostro lento sprofondare nelle sabbie mobili del tempo e pongono con drammatica urgenza la «questione del senso» di questo nostro provvisorio emergere alla vita, per essere poi fatalmente risucchiati nell’ombra buia della morte. Davvero «in faccia alla morte, l’enigma della condizione umana diventa sommo» (Gaudium et Spes, 18.).

A questo enigma, voi lo sapete, la fede reca una risposta non evasiva. È risposta che si articola innanzitutto in una spiegazione e poi in una promessa. La spiegazione ci è consegnata in sintesi da San Paolo con le celebri parole: «Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato» (Rom. 5, 12). La morte, quale noi oggi la sperimentiamo, è dunque frutto del peccato: «stipendia peccati mors» (Ibid. 6, 23). È un pensiero difficile da accogliere ed infatti la mentalità profana concordemente lo rifiuta. La negazione di Dio o la perdita del senso vivo della sua presenza hanno indotto molti contemporanei a dare del peccato interpretazioni, a volta a volta, sociologiche, psicologiche, esistenzialistiche, evoluzionistiche, le quali tutte hanno in comune la caratteristica di svuotare il peccato della sua tragica serietà. Non così la Rivelazione, che lo presenta invece come una spaventosa realtà, di fronte alla quale ogni altro male temporale risulta sempre di secondaria importanza. Nel peccato, infatti, l’uomo infrange «il debito ordine in rapporto al suo ultimo fine e al tempo stesso tutto il suo orientamento sia verso se stesso, sia verso gli altri uomini e verso tutte le cose create» (Gaudium et Spes, 13). Il peccato segna il fallimento radicale dell’uomo, la ribellione a Dio che è la Vita, un «estinguere lo Spirito» (Cfr. 1 Thess. 5, 19); e perciò la morte non ne è che l’esterna, più vistosa manifestazione.

Questa la parola esplicativa, che la Rivelazione ci offre e che l’esperienza conferma con sconfortante dovizia di prove. La fede, però, non si limita a spiegare il nostro dramma. Essa reca anche l’annuncio gioioso della sua possibile soluzione. Dio non si è rassegnato al fallimento della sua creatura: nel Figlio suo, incarnato, morto e risorto, Egli torna ad aprire il cuore dell’uomo alla speranza. «Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello - canteremo nel giorno di Pasqua - il Signore della vita era morto, ma ora, vivo, trionfa» (Sequentia Paschalis). Nel mistero pasquale Cristo ha preso su di sé la morte, in quanto essa è manifestazione della nostra natura ferita, e, trionfandone nella risurrezione, ha definitivamente debellato nella sua radice la potenza del peccato, operante nel mondo. Adesso ormai ogni uomo, che per la fede aderisce a Cristo ed a Lui si sforza di conformare la propria vita, può già sperimentare in sé la forza vivificante, che promana dal Risorto. Egli non è più schiavo della morte (Cfr. Rom. 8, 2); perché in lui già opera «lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti» (Ibid. 8, 11).

Ecco, dunque, il messaggio gioioso: in Cristo Gesù noi possiamo vincere la morte. La Chiesa non si stanca di ripetercelo, particolarmente all’inizio di un tempo forte dell’Anno Liturgico, come quello della Quaresima, durante il quale il popolo cristiano è chiamato a prepararsi alla celebrazione dell’annua ricorrenza della Pasqua. Possa trovare, questa voce, eco pronta e volenterosa nei nostri animi ed indurci a rinnovato fervore di vita cristiana in questo tempus acceptabile, che nelle intenzioni della Liturgia deve segnare per lo spirito, il quale ha pure le sue stagioni, il risveglio di una mistica primavera.

Siamo certi che all’invito è particolarmente aperto l’animo delle Religiose, presenti a questa celebrazione. Esse, che per l’impegno della vita perfetta e di una maggiore familiarità con Dio, assunto con i voti, più sono consapevoli del radicalismo delle esigenze evangeliche; esse che, d’altra parte, più viva hanno la percezione della abissale sproporzione, che v’è tra l’umana miseria e l’infinita santità di Colui, verso il quale le loro anime anelando si protendono, sono certamente nella condizione migliore per accogliere la proposta liturgica del faticoso ma corroborante itinerario quaresimale. Sentano esse la responsabilità di fare da scolta avanzata tra le avanguardie del popolo di Dio pellegrinante verso la Patria.

Mettiamoci dunque tutti in cammino. Cercheremo sostegno ai buoni propositi nella preghiera, una preghiera convalidata da una più volenterosa disponibilità di sacrificio ed anche dalla rinuncia generosa a qualcosa di nostro per avere di che venire in soccorso ai poveri. È il consiglio antico di quello sperimentato maestro di vita spirituale, che fu Sant’Agostino: «Vuoi che la tua preghiera voli fino a Dio?», egli domanda. «Fac illi duas alas, ieiunium et eleemosynam», «Mettile due ali, il digiuno e l’elemosina» (S. AUGUSTINI Enarr. in Ps. 42, 8).

Il programma è chiaro. Che il Signore ci conceda la generosità necessaria, per calarlo nella concretezza della nostra vita.



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06/03/2011 14:27
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


La camorra
Gianfranco Ravasi

Il male è contagioso come il bene, e l'oppressione, specialmente quella esercitata dalla camorra, corrompe l'oppresso e l'oppressore, e corrompe anche chi resta lungamente spettatore di questo stato di cose senza reagire con tutte le sue forze.

Così scriveva nel 1875 (sic!) lo storico Pasquale Villari in una delle sue Lettere meridionali, giudicando una situazione che è drammaticamente identica ancora ai nostri giorni, quasi il tempo si fosse bloccato in una sorta di fermo-immagine.
Tre sono gli attori che vengono fatti salire sulla ribalta: l'oppresso, l'oppressore, lo spettatore. La forza dirompente del male è tale che, partendo dalla sua sorgente (l'oppressore), riesce progressivamente a inquinare il fiume in cui si immette (l'oppresso), ma anche il terreno circostante (lo spettatore). La rete delle connivenze s'allarga, il regime del ricatto o del terrore stende il suo sudario di ingiustizia, di violenza e persino di morte, l'atmosfera camorristica o mafiosa ammorba le anime e rende tutta la società complice del male. Detto questo, non possiamo tirarci fuori perché settentrionali o appartenenti ad altri ambiti.

Non solo perché, come diceva un famoso giornalista e scrittore dell'Ottocento, Ugo Ojetti, «si è sempre meridionali di qualcuno», e quindi altri Paesi considerano chi si ritiene «settentrionale» come geograficamente e culturalmente «inferiore» rispetto al proprio punto di vista. C'è anche un rischio più universale di inquinamento delle coscienze, un declassamento dei valori morali, un'acquiescenza diffusa alla corruzione. È un'esperienza, certo, meno veemente di quella del crimine organizzato, ma si regge sullo stesso principio: «Il male è contagioso come il bene».

Un principio maligno che, però, contiene in sé anche il suo antidoto: «Il bene è contagioso come il male».



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06/03/2011 14:47
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Il molto e il buono
Gianfranco Ravasi

Non è il molto quel che si apprezza; è il buono. I libri sono come le anime, la cui grandezza non si misura dalla mole del corpo, ma dalla nobiltà degli spiriti.

C'è una legge che sta imperando nella comunicazione contemporanea ed è quella dell'eccesso. Bisogna aggiungere sempre più spazio ai prodotti: così, l'eros lentamente decade in pornografia, il giallo in violenza gratuita, il dibattito in lite, la protesta in insulto, la polemica in attacco personale e così via.
Lo scrittore Italo Calvino, nelle sue Lezioni americane, ricordava che il vero artista (ma anche l'uomo sapiente) è colui che opera come lo scultore che toglie e non aggiunge. Dal blocco di marmo elimina tutto ciò che è inutile rispetto alla statua che è idealmente nascosta in quella pietra.

Lo stesso concetto lo esprime in modo più immediato Daniello Bartoli, gesuita ferrarese vissuto nel Seicento, storico e grammatico, nell'opera L'uomo di lettere difeso ed emendato, da cui abbiamo desunto la citazione odierna.
Non è la mole che conta ma l'interiorità; non è la quantità che dovrebbe prevalere, bensì la qualità; non sono gli orpelli ma la sostanza ad assegnare valore a una persona o a un'opera; non è l'erudizione a fare lezione ma la saggezza che guida e illumina.

Eppure, se siamo sinceri, a dominare ai nostri giorni è il troppo: invidiato è chi possiede tanto, chi prevarica con la parola e l'azione, chi incombe con la sua immagine e il successo. Dovremmo, invece, ritrovare la finezza della discrezione, il gusto della riflessione, la dignità del comportamento morale. Il poeta indiano Tagore pregava Dio di non lasciarlo smarrire «tra i grattacieli delle cose inutili», dimenticando la strada di casa.

E per stare ai libri, potremmo finire con una fulminante recensione di Ennio Flaiano: «È un libro ponderoso. Che fa pensare. Ad altro».



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06/03/2011 14:51
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


L'amore noioso
Gianfranco Ravasi

L'amore è l'attesa di una gioia che, quando arriva, annoia. Di sé diceva di essere «un conservatore in un Paese come l'Italia in cui non c'è niente da conservare», un Paese abitato da «un popolo buono a niente e quindi capace di tutto».

Stiamo parlando di Leo Longanesi, giornalista, disegnatore e scrittore, morto nel 1957, autore di battute fulminanti che nascevano da un'acidità congenita («sono un carciofino sott'odio», confessava di se stesso).
Di questi aforismi proponiamo oggi una scheggia sull'amore. Pur nella tonalità ironica, essa conserva una verità: la debolezza umana riesce a ridurre il fuoco dell'amore a una brace che lentamente si estingue. Il grande nemico dell'amore non è il tradimento, ferita che può essere sanata, ma la noia. Per illustrare in modo icastico questo concetto, vorrei affidarmi a un passo del romanzo A ogni uomo un soldo dello scrittore cattolico scozzese molto popolare Bruce Marshall, morto nel 1979. Il protagonista, padre Gaston, sta viaggiando in treno e «di faccia aveva un uomo e una donna di mezza età: erano così indifferenti l'uno all'altra da far pensare che fossero sposati».

Certo, non si può conservare per sempre la freschezza dell'innamoramento; ma il tarlo dell'indifferenza riduce il matrimonio a mera convivenza sotto lo stesso tetto, scambiandosi solo cenni o frasi sul tempo che fa. Il dialogo si spegne, i fremiti di tenerezza scompaiono, la noia diventa il nuovo, impalpabile velo nuziale. Tutto questo avviene insensibilmente, senza clamorose liti o inganni, ma solo lasciando che giorno dopo giorno cada un granello di noia, di distacco, di apatia. I granelli si trasformano in una coltre e alla fine si è di fronte al deserto dell'anima e dell'amore.

Non è la quiete della serena abitudine alla quotidianità, è ormai la quiete della morte dei sentimenti.



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06/03/2011 15:20
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Lasciati indietro
Gianfranco Ravasi

Invece di grandi aspettative di sogni d'oro, il progresso evoca un'insonnia piena dell'incubo di -essere lasciati indietro-, di perdere il treno, o di cadere dal finestrino di un veicolo che accelera troppo in fretta.

«Il degrado è molto più rapido del progresso; se il progresso ha limiti, il degrado è illimitato». Qualche giorno fa abbiamo riflettuto insieme su questo asserto dello scrittore russo Sergej Dovlatov.
Oggi ritorno sul tema da un'altra angolatura che mi è suggerita da un'osservazione che traggo dal saggio Modus vivendi (Laterza 2008) del sociologo polacco Zygmunt Bauman, divenuto celebre per la sua idea della «modernità liquida» (è il titolo di una sua opera del 2000), ossia di una società nella quale si dissolvono i punti fermi e si nuota in una sorta di fluido incolore, al massimo addensato di mucillagine. Ebbene, la sua nota sul progresso ci offre uno spunto suggestivo.

Altro che lasciarci cullare dai -sogni d'oro- di un procedere folgorante, altro che essere trascinati da un'evoluzione avanzante che elide il dolore e ritarda la morte fino a 120 anni, altro che la fiducia assoluta nella scienza e nella tecnica!
L'uomo e la donna di oggi vivono nella tensione permanente di essere -scartati-, di non riuscire ad afferrare lo sportello del treno del progresso che si ferma per pochi istanti nella loro stazione. Ecco, allora, quella patetica rincorsa verso l'ultima moda, la cura più sofisticata, l'idea più moderna.

«Chi si ferma è perduto» è ritornato ad essere il motto del nuovo regime che impera sulle coscienze, creando due reazioni antitetiche. Da un lato, c'è lo scoraggiamento di chi non riesce a tenere il passo di un simile progresso e si ferma ai bordi della strada. D'altro lato, c'è chi si precipita nella rincorsa, raccogliendo solo stress e delusioni.

Proviamo, invece, a camminare pacatamente, avanzando secondo i ritmi della vita verso un progresso umano e compatibile.



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06/03/2011 17:20
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Lasciati indietro
Gianfranco Ravasi

Invece di grandi aspettative di sogni d'oro, il progresso evoca un'insonnia piena dell'incubo di -essere lasciati indietro-, di perdere il treno, o di cadere dal finestrino di un veicolo che accelera troppo in fretta.

«Il degrado è molto più rapido del progresso; se il progresso ha limiti, il degrado è illimitato». Qualche giorno fa abbiamo riflettuto insieme su questo asserto dello scrittore russo Sergej Dovlatov.
Oggi ritorno sul tema da un'altra angolatura che mi è suggerita da un'osservazione che traggo dal saggio Modus vivendi (Laterza 2008) del sociologo polacco Zygmunt Bauman, divenuto celebre per la sua idea della «modernità liquida» (è il titolo di una sua opera del 2000), ossia di una società nella quale si dissolvono i punti fermi e si nuota in una sorta di fluido incolore, al massimo addensato di mucillagine. Ebbene, la sua nota sul progresso ci offre uno spunto suggestivo.

Altro che lasciarci cullare dai -sogni d'oro- di un procedere folgorante, altro che essere trascinati da un'evoluzione avanzante che elide il dolore e ritarda la morte fino a 120 anni, altro che la fiducia assoluta nella scienza e nella tecnica!
L'uomo e la donna di oggi vivono nella tensione permanente di essere -scartati-, di non riuscire ad afferrare lo sportello del treno del progresso che si ferma per pochi istanti nella loro stazione. Ecco, allora, quella patetica rincorsa verso l'ultima moda, la cura più sofisticata, l'idea più moderna.

«Chi si ferma è perduto» è ritornato ad essere il motto del nuovo regime che impera sulle coscienze, creando due reazioni antitetiche. Da un lato, c'è lo scoraggiamento di chi non riesce a tenere il passo di un simile progresso e si ferma ai bordi della strada. D'altro lato, c'è chi si precipita nella rincorsa, raccogliendo solo stress e delusioni.

Proviamo, invece, a camminare pacatamente, avanzando secondo i ritmi della vita verso un progresso umano e compatibile.



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06/03/2011 18:48
 
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Sapere di non sapere
Gianfranco Ravasi

Chi sa non parla, chi parla non sa. Sapere sia di sapere una cosa, sia di non saperla: questa è la conoscenza.

Ormai nell'immaginario collettivo la Cina è un gigante economico, un po' misterioso e forse inaffidabile, legato a modelli non subito decifrabili. Poco si fa per evocare il suo glorioso passato culturale. Oggi abbiamo posto al centro della nostra riflessione una coppia di aforismi desunti proprio da due grandi maestri della sapienza cinese. Il primo detto appartiene al Tao-te Ching, ossia al «Libro del principio e della sua virtù» del filosofo Lao-tzu, figura leggendaria vissuta nel VI o V secolo a. C.

È un monito severo soprattutto per i nostri tempi impastati di chiacchiera (chat!) informatica o televisiva. Esso fa il pari col proverbio rabbinico che recita: «Il sapiente sa quel che dice; lo stupido dice quel che sa». In una giornata festiva com'è l'odierna non sarebbe forse il caso di spegnere il vaniloquio almeno per un po' e di costruirsi attorno una piccola oasi di silenzio, di lettura, di riflessione? È paradossale, ma talora neppure in chiesa, nella liturgia, si rispettano i momenti di silenzio- L'altra frase sopra citata è tratta, invece, dai celebri Colloqui o Dialoghi (in cinese Lun Yü) di Confucio (K'ung fu-tzu, «il Maestro K'ung»), pensatore del VI-V secolo a. C.

È una staffilata contro l'arroganza della scienza, la saccenteria della politica, la presunzione di certi maestri, la boria che accompagna molti comportamenti, il "bullismo" intellettuale. Quando a sorpresa, nel 1996, la poetessa polacca Wislawa Szymborska ricevette il Nobel, dichiarò umilmente: «L'ispirazione poetica nasce da un incessante "Non so". Per questo apprezzo tanto queste due piccole paroline: "Non so". Piccole ma alate».

La grandezza di una persona sta proprio nella consapevolezza del mistero enorme che la avvolge, dell'immensa complessità del reale, della sublime invalicabilità dell'infinito e dell'eterno.



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06/03/2011 21:10
 
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perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti e di sole?????????
Bestion., 06/03/2011 14.05:




Ricordati, o uomo ...
Paolo VI





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dipende a chi si intende per uomo [SM=x44600]
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non bisogna avere paura di un Popolo che non ha Potere ma di chi detiene il Potere di Quel Popolo
anche perché la MORTE non accetta una lira
07/03/2011 14:06
 
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Desiderare di meno
Gianfranco Ravasi

Un uomo d'affari chiese al maestro: «In che modo la spiritualità può aiutare un uomo di mondo come me?». «Ti può aiutare ad avere di più», rispose il maestro. «Ma come?», domandò l'altro. «Insegnandoti a desiderare di meno», concluse il maestro.

Il gesuita indiano Anthony De Mello, morto nel 1987, è stato criticato anche ufficialmente per una sua visione teologica di taglio sincretistico. Ciò non toglie che molte sue parabole o aforismi avessero un loro suggestivo significato morale.
È il caso di questo apologo sul «desiderare di meno». Già san Giacomo nella sua Lettera ammoniva: «Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere» (4,2).

Si parla tanto di caduta del desiderio sessuale e questo è vero ai nostri giorni, proprio perché si è ecceduto nella voglia e nell'offerta. Il desiderio delle cose subisce lo stesso effetto: se hai un milione, ti affanni per il secondo; se hai una villa al mare, ne cerchi un'altra in montagna.
E alla fine sale alla gola una sazietà che ha il sapore della nausea e che, però, rimane inestinguibile. Bisognerebbe rileggere un passo del Discorso della Montagna di Gesù (Matteo 6, 25-34) sul «non affannarsi» nell'accumulo, nel possesso, nella sicurezza fasulla.

È da questo "affanno" che nasce lo stress, l'insoddisfazione e l'insofferenza per ogni minima difficoltà o mancanza. Si reagisce inviperiti davanti al primo ostacolo o disguido, si assiste a liti omeriche per questioni futili. Vorrei finire con un'altra parabola di De Mello, forse un po' ottimistica ma dalla morale chiara.

«Un uomo sull'autobus si trovò seduto accanto a un ragazzo misero con una sola scarpa. "Hai perso una scarpa?" gli chiese. "No, ne ho trovata una", rispose il giovane».



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09/03/2011 10:54
 
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Il senso della vita
Gianfranco Ravasi

Se voglio che la mia vita abbia un senso per me, bisogna che abbia un senso per gli altri.

Ha spaziato dalla poesia alla filosofia, dal romanzo alla sociologia, ma il suo nome è legato a una strana ricerca mistica -senza Dio-, percorrendo le strade lampeggianti e oscure dell'eros e della violenza.
Dagli scritti del francese Georges Bataille (1897-1962) estraiamo questa battuta che merita una riflessione, anche perché ha alla base uno dei temi fondamentali non solo per la religione, ma pure per la filosofia e la semplice esistenza umana, ossia il senso della vita. Interessante è la sua proposta: cercare «un senso per gli altri». La frase è passibile di una duplice applicazione. La prima è evidente: noi non siamo monadi sigillate, non siamo reclusi nel carcere dorato di un'anima bloccata a sua volta in un corpo.

Siamo di natura aperti all'altro, sia esso il creato, oppure il prossimo, o Dio. Una grave malattia che purtroppo infetta non pochi adulti è l'«autismo» spirituale, che nasce dall'egoismo o dalla paura dell'altro e che acquista varie patologie degenerative (razzismo, odio, fobia, isolamento, avversione e così via).
L'unica medicina è quella dell'amore, dell'incontro, del dialogo, dell'apertura. Ma c'è un'altra accezione per la frase di Bataille. Bisogna che la nostra vita diventi espressione di un senso anche per gli altri, sia un segno di luce, si trasformi nel sale, nella fiaccola, nella città posta sul monte, per usare le celebri immagini del Discorso della Montagna di Cristo.

È quella che si è soliti chiamare "testimonianza", l'esatto opposto di certe esistenze - anche di credenti - insipide, ingrigite, flaccide, appunto "insignificanti". Martin Luther King giustamente ammoniva il cristiano a non essere un semplice «termometro» che s'adatta alla temperatura ambiente, bensì un «termostato» che riscalda con la sua presenza un orizzonte spesso gelido e tenebroso.



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09/03/2011 13:12
 
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La disputa tra Dio e Satana
Gianfranco Ravasi

«La nostra disputa con Dio», riprese il diavolo sistemandosi più comodamente, «non è cambiata nel corso dei secoli. Mentre Dio afferma che l'uomo è creato a sua immagine e somiglianza, io di contro affermo che è invece a mia immagine e somiglianza».

«Forse che Giobbe teme Dio per nulla?», ironizza Satana di fronte al Signore, convinto che l'anima profonda dell'uomo sia l'interesse personale (non è forse vero che Giobbe è un soddisfatto e pasciuto sceicco dell'Oriente?).
E la scommessa divina verterà proprio sul tema della disputa che la scrittrice russa Zinaida Hippius (1869-1945) mette in scena tra Dio e il Tentatore nella sua opera Ivan Ivanovic e il diavolo.

Il Creatore è convinto che l'impronta profonda presente nella sua creatura più alta sia la sua e che, quindi, l'uomo sia capace di amore e di donazione, di bene e di verità. Sarcasticamente Satana allega per contrasto la storia dell'umanità con la sua sterminata scia di male, di peccato, di violenza, di miseria.
Si confrontano due visioni che paradossalmente hanno entrambe un fondo di verità. Certo, la grandezza dell'uomo è proprio, come si legge in Genesi 1, 27, nell'essere «immagine di Dio» in quanto «maschio e femmina» e, perciò, capace di donare vita e amore. Un tale sigillo intimo non scompare mai del tutto ed è per questo che bisogna sempre scommettere sulla conversione, anche quando sembra cupamente lampeggiare l'impronta satanica.

E qui bisogna dare anche a Satana quello che è di Satana. «Il fascino delle cose frivole oscura tutto ciò che è bello e il turbine della passione perverte un animo senza malizia», si legge infatti nella Bibbia (Sapienza 4,12). La libertà umana è fragile e può ottenebrare la mente, offuscare il cuore e insanguinare le mani.

Per questo, san Paolo esalta la necessità della grazia divina che si chini sulla creatura per impedirle di precipitare nel gorgo ribollente del male.



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09/03/2011 13:46
 
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QUARESIMA: tempo di C o n v e r s i o n e
Mercoledì delle Ceneri

«Ascoltate oggi la sua voce: Non indurite il cuore...»
(Sal 95)


“La salita al Calvario" - Gianbattista Tiepolo (1738) - chiesa di Sant'Alvise, Venezia

«Prendi, dunque, la tua croce e segui Gesù; così entrerai nella vita eterna.
Ti ha preceduto lui stesso, portando la sua croce ed è morto per te,
affinché anche tu portassi la tua croce e desiderassi di essere
anche tu crocifisso. Infatti, se sarai morto con lui, con lui
e come lui vivrai. Se gli sarai stato compagno nella
sofferenza, gli sarai compagno anche nella gloria»

(Imitazione di Cristo, cap. XII, 1)


Alla scuola di Gesù

Benedetto XVI

Oggi, segnati dall’austero simbolo delle Ceneri, entriamo nel Tempo di Quaresima, iniziando un itinerario spirituale che ci prepara a celebrare degnamente i misteri pasquali. La cenere benedetta imposta sul nostro capo è un segno che ci ricorda la nostra condizione di creature, ci invita alla penitenza e ad intensificare l’impegno di conversione per seguire sempre di più il Signore.

La Quaresima è un cammino, è accompagnare Gesù che sale a Gerusalemme, luogo del compimento del suo mistero di passione, morte e risurrezione; ci ricorda che la vita cristiana è una “via” da percorrere, consistente non tanto in una legge da osservare, ma nella persona stessa di Cristo, da incontrare, da accogliere, da seguire. Gesù, infatti, ci dice: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9,23). Ci dice, cioè, che per giungere con Lui alla luce e alla gioia della risurrezione, alla vittoria della vita, dell’amore, del bene, anche noi dobbiamo prendere la croce di ogni giorno, come ci esorta una bella pagina dell’Imitazione di Cristo: “Prendi, dunque, la tua croce e segui Gesù; così entrerai nella vita eterna. Ti ha preceduto lui stesso, portando la sua croce (Gv 19,17) ed è morto per te, affinché anche tu portassi la tua croce e desiderassi di essere anche tu crocifisso. Infatti, se sarai morto con lui, con lui e come lui vivrai. Se gli sarai stato compagno nella sofferenza, gli sarai compagno anche nella gloria” (L. 2, c. 12, n. 2). Nella Santa Messa della Prima Domenica di Quaresima pregheremo: “O Dio nostro Padre, con la celebrazione di questa Quaresima, segno sacramentale della nostra conversione, concedi ai tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una degna condotta di vita” (Colletta). E’ un’invocazione che rivolgiamo a Dio perché sappiamo che solo Lui può convertire il nostro cuore. Ed è soprattutto nella Liturgia, nella partecipazione ai santi misteri, che noi siamo condotti a percorrere questo cammino con il Signore; è un metterci alla scuola di Gesù, ripercorrere gli eventi che ci hanno portato la salvezza, ma non come una semplice commemorazione, un ricordo di fatti passati. Nelle azioni liturgiche, Cristo si rende presente attraverso l’opera dello Spirito Santo, quegli avvenimenti salvifici diventano attuali. C’è una parola-chiave che ricorre spesso nella Liturgia per indicare questo: la parola “oggi”; ed essa va intesa in senso originario e concreto, non metaforico. Oggi Dio rivela la sua legge e a noi è dato di scegliere oggi tra il bene e il male, tra la vita e la morte (cfr Dt 30,19); oggi “il Regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,15); oggi il Cristo è morto sul Calvario ed è risuscitato dai morti; è salito al cielo e siede alla destra del Padre; oggi ci è dato lo Spirito Santo; oggi è tempo favorevole. Partecipare alla Liturgia significa allora immergere la propria vita nel mistero di Cristo, nella sua permanente presenza, percorrere un cammino in cui entriamo nella sua morte e risurrezione per avere la vita.

Nelle domeniche di Quaresima, in modo del tutto particolare in quest’anno liturgico del ciclo A, siamo introdotti a vivere un itinerario battesimale, quasi a ripercorrere il cammino dei catecumeni, di coloro che si preparano a ricevere il Battesimo, per ravvivare in noi questo dono e per far in modo che la nostra vita recuperi le esigenze e gli impegni di questo Sacramento, che è alla base della nostra vita cristiana. Nel Messaggio che ho inviato per questa Quaresima, ho voluto richiamare il nesso particolare che lega il Tempo quaresimale al Battesimo. Da sempre la Chiesa associa la Veglia Pasquale alla celebrazione del Battesimo, passo per passo: in esso si realizza quel grande mistero per cui l’uomo, morto al peccato, è reso partecipe della vita nuova in Cristo Risorto e riceve lo Spirito di Dio che ha risuscitato Gesù dai morti (cfr Rm 8,11). Le Letture che ascolteremo nelle prossime domeniche e alle quali vi invito a prestare speciale attenzione, sono riprese proprio dalla tradizione antica, che accompagnava il catecumeno nella scoperta del Battesimo: sono il grande annuncio di ciò che Dio opera in questo Sacramento, una stupenda catechesi battesimale rivolta a ciascuno di noi. La Prima Domenica, chiamata Domenica della tentazione, perché presenta le tentazioni di Gesù nel deserto, ci invita a rinnovare la nostra decisione definitiva per Dio e ad affrontare con coraggio la lotta che ci attende per rimanergli fedeli. Sempre c'è di nuovo questa necessità di decisione, di resistere al male, di seguire Gesù. In questa Domenica la Chiesa, dopo aver udito la testimonianza dei padrini e dei catechisti, celebra l’elezione di coloro che sono ammessi ai Sacramenti pasquali. La Seconda Domenica è detta di Abramo e della Trasfigurazione. Il Battesimo è il sacramento della fede e della figliolanza divina; come Abramo, padre dei credenti, anche noi siamo invitati a partire, ad uscire dalla nostra terra, a lasciare le sicurezze che ci siamo costruite, per riporre la nostra fiducia in Dio; la meta si intravede nella trasfigurazione di Cristo, il Figlio amato, nel quale anche noi diventiamo “figli di Dio”. Nelle Domeniche successive viene presentato il Battesimo nelle immagini dell’acqua, della luce e della vita. La Terza Domenica ci fa incontrare la Samaritana (cfr Gv 4,5-42). Come Israele nell’Esodo, anche noi nel Battesimo abbiamo ricevuto l’acqua che salva; Gesù, come dice alla Samaritana, ha un’acqua di vita, che estingue ogni sete; e quest’acqua è il suo stesso Spirito. La Chiesa in questa Domenica celebra il primo scrutinio dei catecumeni e durante la settimana consegna loro il Simbolo: la Professione della fede, il Credo. La Quarta Domenica ci fa riflettere sull’esperienza del “Cieco nato” (cfr Gv 9,1-41). Nel Battesimo veniamo liberati dalle tenebre del male e riceviamo la luce di Cristo per vivere da figli della luce. Anche noi dobbiamo imparare a vedere la presenza di Dio nel volto di Cristo e così la luce. Nel cammino dei catecumeni si celebra il secondo scrutinio. Infine, la Quinta Domenica ci presenta la risurrezione di Lazzaro (cfr Gv 11,1-45). Nel Battesimo noi siamo passati dalla morte alla vita e siamo resi capaci di piacere a Dio, di far morire l’uomo vecchio per vivere dello Spirito del Risorto. Per i catecumeni, si celebra il terzo scrutinio e durate la settimana viene consegnata loro l’orazione del Signore: il Padre nostro.

Questo itinerario della Quaresima che siamo invitati a percorre nella Quaresima è caratterizzato, nella tradizione della Chiesa, da alcune pratiche: il digiuno, l’elemosina e la preghiera. Il digiuno significa l’astinenza dal cibo, ma comprende altre forme di privazione per una vita più sobria. Tutto questo però non è ancora la realtà piena del digiuno: è il segno esterno di una realtà interiore, del nostro impegno, con l’aiuto di Dio, di astenerci dal male e di vivere del Vangelo. Non digiuna veramente chi non sa nutrirsi della Parola di Dio.

Il digiuno, nella tradizione cristiana, è legato poi strettamente all’elemosina. San Leone Magno insegnava in uno dei suoi discorsi sulla Quaresima: “Quanto ciascun cristiano è tenuto a fare in ogni tempo, deve ora praticarlo con maggiore sollecitudine e devozione, perché si adempia la norma apostolica del digiuno quaresimale consistente nell’astinenza non solo dai cibi, ma anche e soprattutto dai peccati. A questi doverosi e santi digiuni, poi, nessuna opera si può associare più utilmente dell’elemosina, la quale sotto il nome unico di ‘misericordia’ abbraccia molte opere buone. Immenso è il campo delle opere di misericordia. Non solo i ricchi e i facoltosi possono beneficare gli altri con l’elemosina, ma anche quelli di condizione modesta e povera. Così, disuguali nei beni di fortuna, tutti possono essere pari nei sentimenti di pietà dell’anima” (Discorso 6 sulla Quaresima, 2: PL 54, 286). San Gregorio Magno ricordava, nella sua Regola Pastorale, che il digiuno è reso santo dalle virtù che l’accompagnano, soprattutto dalla carità, da ogni gesto di generosità, che dona ai poveri e ai bisognosi il frutto di una nostra privazione (cfr 19,10-11).

La Quaresima, inoltre, è un tempo privilegiato per la preghiera. Sant’Agostino dice che il digiuno e l’elemosina sono “le due ali della preghiera”, che le permettono di prendere più facilmente il suo slancio e di giungere sino a Dio. Egli afferma: “In tal modo la nostra preghiera, fatta in umiltà e carità, nel digiuno e nell’elemosina, nella temperanza e nel perdono delle offese, dando cose buone e non restituendo quelle cattive, allontanandosi dal male e facendo il bene, cerca la pace e la consegue. Con le ali di queste virtù la nostra preghiera vola sicura e più facilmente viene portata fino al cielo, dove Cristo nostra pace ci ha preceduto” (Sermone 206, 3 sulla Quaresima: PL 38,1042). La Chiesa sa che, per la nostra debolezza, è faticoso fare silenzio per mettersi davanti a Dio, e prendere consapevolezza della nostra condizione di creature che dipendono da Lui e di peccatori bisognosi del suo amore; per questo, in Quaresima, invita ad una preghiera più fedele ed intensa e ad una prolungata meditazione sulla Parola di Dio. San Giovanni Crisostomo esorta: “Abbellisci la tua casa di modestia e umiltà con la pratica della preghiera. Rendi splendida la tua abitazione con la luce della giustizia; orna le sue pareti con le opere buone come di una patina di oro puro e al posto dei muri e delle pietre preziose colloca la fede e la soprannaturale magnanimità, ponendo sopra ogni cosa, in alto sul fastigio, la preghiera a decoro di tutto il complesso. Così prepari per il Signore una degna dimora, così lo accogli in splendida reggia. Egli ti concederà di trasformare la tua anima in tempio della sua presenza” (Omelia 6 sulla Preghiera: PG 64,466).

Cari amici, in questo cammino quaresimale siamo attenti a cogliere l’invito di Cristo a seguirlo in modo più deciso e coerente, rinnovando la grazia e gli impegni del nostro Battesimo, per abbandonare l’uomo vecchio che è in noi e rivestirci di Cristo, per giungere rinnovati alla Pasqua e poter dire con san Paolo “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Buon cammino quaresimale a voi tutti! Grazie!



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09/03/2011 13:59
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Le prigioni del cuore
Gianfranco Ravasi

Il cuore ha le sue prigioni che l'intelligenza non apre.

C'è una frase dei Pensieri di Pascal che è divenuta proverbiale: «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce» (n. 277 ed. Brunschvicg).
Frase che è stata commentata dal Piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry così: «Non si vede bene che con il cuore: l'essenziale è invisibile agli occhi». Il poeta francese Marcel Jouhandeau (1888-1979), nel suo saggio De la grandeur, ribalta la dichiarazione pascaliana ricordandoci, non a torto, che il cuore ha compartimenti stagni, invalicabili alla ragione.
E allora, pur celebrando la grandezza di una conoscenza che non è solo quella razionale, pur esaltandone la bellezza e il fascino e accogliendone la "grammatica" che le è propria (pensiamo al linguaggio e alla visione tipica dell'amore, dell'arte e della stessa fede), dobbiamo ammettere il rischio che è insito anche nel cuore e nelle sue vie conoscitive.

«Nelle grandi cose lo spirito è niente senza il cuore», annotava il cardinale secentesco di Retz nelle sue Memorie. E aveva ragione. Ma aveva ragione anche il libro biblico dei Proverbi quando condannava come stolto chi confida solo nel suo cuore (28, 26), poiché esso custodisce al suo interno camere oscure, ove si annidano grovigli di vipere ed esplodono follie.
La persona umana ha, allora, bisogno di entrambe queste luci che guidano il suo conoscere e agire: il cuore e la mente, l'intuizione e il pensiero, la coscienza e la ragione, il sentimento e l'intelligenza. Come si deve purificare l'intelletto dagli idoli ideologici, così si deve imboccare l'ascesi delle passioni, delle emozioni, degli impulsi interiori.

Paradossalmente ci aiuta a conservare questo equilibrio ancora Pascal quando - come abbiamo già altre volte avuto occasione di ricordare - ci ammonisce a evitare «due eccessi: escludere la ragione, non ammettere che la ragione».



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10/03/2011 14:18
 
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Amo e sono amato
Gianfranco Ravasi

Due sono le grandi gioie della vita d'amore di un uomo: la prima quando per la prima volta può dire «amo»; l'altra ancora più grande quando può dire «sono amato». «L'inferno, signora, è non amare più».

Ha ragione il parroco di Ambricourt quando, nel famoso romanzo di Bernanos Diario di un curato di campagna, rivolge queste parole alla fredda e ipocrita contessa del paese. È in questa luce che si può pienamente sottoscrivere una delle Note azzurre, zibaldone postumo dello scrittore lombardo ottocentesco Carlo Dossi, che abbiamo proposto per la nostra meditazione domenicale.
Sì, perché è proprio nei giorni di festa che vibra con maggior veemenza la solitudine: quante persone sono forse lì, davanti al telefono, e aspettano uno squillo e invece nessuno più si ricorda di loro.

È bellissimo ed esaltante il giorno in cui uno può dire a un'altra persona: «Ti amo»; ma è ancor più alta e ineffabile la gioia di sapersi amati. In ultima analisi, in questo nodo interiore è posto il cuore della fede cristiana che fa sentire al credente un Dio che ama, anche se le sue vie - come accade pure nell'amore umano - non sono quelle della logica immediata e scontata. Ma c'è un risvolto negativo che è l'altra faccia della medaglia.
Lo esprimo con le parole della Filosofia di uno scrittore francese morto a Parigi nel 1929, Georges Courteline: «È duro, senza dubbio, non essere più amati quando si ama; ma è niente in confronto a essere ancora amati quando non si ama più».

È, questa, un'esperienza amara sia per chi è ancora amato e sente su di sé non più un dono ma un peso, sia per chi ama perché il suo amore è solo una fonte di sofferenza e di infelicità.

D'altronde, «chiunque ha amato porta in sé una cicatrice», diceva il poeta francese De Musset.



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10/03/2011 17:26
 
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Io, io, io-e gli altri
Gianfranco Ravasi

La maggior parte delle persone non è in grado di parlare di nulla se non parla di sé o comunque della cerchia di cui è il centro.

C'è un termine sontuoso in voga nel linguaggio colto: è -autoreferenzialità-. Con esso si denuncia quel rinchiudersi a riccio degli specialisti nella torre d'avorio del loro linguaggio incomprensibile al volgo, nel mondo aristocratico delle competenze, nello splendido isolamento del proprio campo o classe.
È un vizio che intacca la scienza, la filosofia, l'arte, la stessa teologia.

C'è, però, un'altra -autoreferenzialità- che è praticata allegramente anche da chi ignora persino l'esistenza di un simile vocabolo ed è quella bollata da un grande scrittore inglese ottocentesco, Anthony Trollope, nel suo romanzo La canonica di Framley (1861) con la frase che oggi proponiamo. Nel 1965 un regista "storico" come Alessandro Blasetti propose un film significativo già nel titolo, Io, io, io-e gli altri, interpretato dai maggiori attori di quegli anni. Il titolo era già un programma: troppi, infatti, mettono al centro del loro dire, fare, calcolare solo se stessi, quell'Io coccolato, massaggiato, incensato, lasciando ai margini -gli altri- che si concepiscono solo in funzione di se stessi.

Non è solo egoismo o egocentrismo, è alla fine anche una povertà di parole, di idee, di interessi. Senza arrivare al nostro Carlo Emilio Gadda che nella Cognizione del dolore esclamava: «L'io, io!... Il più lurido di tutti i pronomi!», proviamo tuttavia ad abbattere il muro dell'individualismo, ad ascoltare e a guardare la varietà dell'umanità che ci circonda. Sarà una ventata d'aria, forse anche turbinosa e rumorosa, ma capace di spazzar via l'atmosfera asfittica del nostro isolamento saccente e orgoglioso o, più semplicemente, monocorde e noioso.



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11/03/2011 13:11
 
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Un percorso
Gianfranco Ravasi

Oggi tutto è un percorso. Lo sconosciuto che partecipa a un reality sostiene di aver fatto un percorso. Il delinquente in galera è sottoposto a un percorso di recupero, come il tossico. La vita di coppia è un percorso, di guerra e di pace. Due genitori che intendono adottare un figlio devono compiere un percorso affettivo. Leggere un libro è un percorso di lettura.

Di solito, però, chi si riempie la bocca della parola «percorso» non si smuove mai dalle sue convinzioni. Dei miei molteplici «percorsi» di lettura, mi rimangono spesso tracce in note, ritagli, appunti che dopo mesi di giacenza cestino.
È così che mi è tornato tra le mani (ed è stato salvato) un frammento di rivista ove era conservata questa osservazione pungente del principe dei nostri critici televisivi, Aldo Grasso (che certo -auto-ironizzerà- su questa definizione che gli assegno). La verità che ci propone è, a mio avviso, duplice e utile a tutti, anche a chi non fa «percorsi». Innanzitutto egli ci mette in guardia contro l'uso degli stereotipi.

È terribile, ma quanto più diventa rarefatto il nostro linguaggio, tanto più lo si inzeppa di luoghi comuni, di cliché banali indotti dalla moda soprattutto televisiva (e questo vale anche per il comportamento).
Occorre una purificazione della comunicazione dalle parole -nere-, ossia vacue e fatue, scimmiottature di replicanti. Ma c'è un'altra verità ed è quella esplicitata da Grasso: chi si pavoneggia per i suoi «percorsi» in verità è fisso e inamovibile come un paracarro. Chi ricerca autenticamente non lo ribadisce a ogni passo; la creatività non ha «percorsi» scontati, ma è fatica nell'analisi, originalità nelle indagini, umiltà anche nel tornare indietro se la strada è errata.

Non è imitazione di un tic o di una moda, ma è rischio, interrogazione, impegno serio e severo.



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11/03/2011 13:59
 
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Il nuovo volume del Papa presentato nella Sala Stampa della Santa Sede




La ragione permanente
della gioia cristiana

Più di un libro: è una testimonianza commovente, affascinante e liberatrice

di Marc Oullet

Nonostante sia assai denso, questo libro si legge per intero senza interruzioni. Percorrendone i nove capitoli e le prospettive finali, il lettore è trasportato per sentieri scoscesi verso l'avvincente incontro con Gesù, una figura familiare che si rivela ancor più vicina nella sua umanità come nella sua divinità. Completata la lettura, si vorrebbe proseguire il dialogo, non soltanto con l'autore ma con Colui del quale egli parla. Gesù di Nazaret è più di un libro, è una testimonianza commovente, affascinante, liberatrice. Quanto interesse susciterà tra gli esperti e tra i fedeli!
Oltre l'interesse d'un libro su Gesù, è il libro del Papa che si presenta in umiltà al foro degli esegeti, per confrontarsi con loro sui metodi e sui risultati delle loro ricerche. Lo scopo del Santo Padre è quello di andare con loro più lontano, in stretto rigore scientifico, certo, ma anche nella fede nello Spirito Santo che scandaglia le profondità di Dio nella Sacra Scrittura. In questo foro, gli scambi fecondi predominano di molto sugli accenti critici, e ciò contribuisce a far meglio conoscere e riconoscere l'essenziale contributo degli esegeti.

Non c'è forse da trarre grande speranza da questo riavvicinamento tra l'esegesi rigorosa dei testi biblici e l'interpretazione teologica della Sacra Scrittura? Io non posso fare a meno di scorgere in questo libro l'aurora d'una nuova era dell'esegesi, una promettente era di esegesi teologica.
Il Papa dialoga in primo luogo con l'esegesi tedesca ma non ignora importanti autori che appartengono alle aree linguistiche francofona, anglofona e latina. Eccelle nell'individuare le questioni essenziali e i nodi decisivi, costringendosi a evitare le discussioni sui dettagli e le dispute di scuola che pregiudicherebbero il suo proposito, che è quello di "trovare il Gesù reale", non il "Gesù storico" proprio del filone dominante dell'esegesi critica, ma il "Gesù dei Vangeli" ascoltato in comunione con i discepoli di Gesù d'ogni tempo, e così "giungere anche alla certezza della figura veramente storica di Gesù".
Questa formulazione del suo obiettivo manifesta l'interesse metodologico del libro. Il Papa affronta in modo pratico ed esemplare il complemento teologico auspicato dall'Esortazione Apostolica Verbum Domini per lo sviluppo dell'esegesi. Nulla stimola di più dell'esempio dato e dei risultati ottenuti. Gesù di Nazaret offre una magnifica base per un fruttuoso dialogo non solo tra esegeti, ma anche tra pastori, teologi ed esegeti! Prima di illustrare con alcuni esempi i risultati di questa esegesi di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI, aggiungo ancora un'osservazione sul metodo. L'autore si sforza di applicare in maggior profondità i tre criteri d'interpretazione formulati al concilio Vaticano II dalla Costituzione sulla Divina Rivelazione Dei Verbum: tener conto dell'unità della Sacra Scrittura, del complesso della Tradizione della Chiesa e rispettare l'analogia della fede. Come buon pedagogo che ci ha abituati alle sue omelie mistagogiche, degne di san Leone Magno, Benedetto XVI, a partire dalla figura - quanto centrale ed unica - di Gesù, mostra la pienezza di senso che promana dalla Sacra Scrittura "interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta" (Dei Verbum, 12).

Anche se l'autore si preclude d'offrire un insegnamento ufficiale della Chiesa, è facile immaginare che la sua autorità scientifica e la ripresa in profondità di certe questioni disputate saranno di grande aiuto per confermare la fede di molti. Serviranno inoltre a far progredire dei dibattiti rimasti insabbiati a motivo dei pregiudizi razionalisti e positivisti che hanno intaccato il prestigio dell'esegesi moderna e contemporanea. Tra la comparsa del primo volume nell'aprile 2007 e quella del secondo in questa Quaresima 2011, un gran numero di eventi felici ma anche di penose esperienze ha segnato la vita della Chiesa e del mondo. Ci si chiede come il Papa sia riuscito a scrivere quest'opera molto personale e molto impegnativa, di cui l'attualità del tema e l'audacia del progetto balzano agli occhi di chiunque s'interessi al cristianesimo. Come teologo e come pastore, ho la sensazione di vivere un momento storico di grande portata teologica e pastorale. È come se in mezzo alle onde che agitano la barca della Chiesa, Pietro avesse ancora una volta afferrato la mano del Signore che ci viene incontro sulle acque, per salvarci (cfr. Matteo, 14, 22-33).

Detto ciò che riguarda il carattere storico, teologico e pastorale dell'evento, veniamo al contenuto del libro che vorrei riassumere assai a grandi linee attorno ad alcune questioni cruciali. Innanzitutto la questione del fondamento storico del cristianesimo che attraversa i due volumi dell'opera; poi la questione del messianismo di Gesù, seguita da quella dell'espiazione dei peccati da parte del Redentore, che costituisce un problema per molti teologi; allo stesso modo la questione del sacerdozio di Cristo in rapporto alla sua Regalità e al suo Sacrificio che tanta importanza rivestono per la concezione cattolica del sacerdozio e della Santa Eucaristia; da ultimo la questione della risurrezione di Gesù, il suo rapporto alla corporeità ed il suo legame con la fondazione della Chiesa.
Non occorre dire che l'elenco non è esaustivo e molti troveranno altre questioni più interessanti, a esempio il suo commento del discorso escatologico di Gesù o ancora della preghiera sacerdotale in Giovanni, 17. Io identifico le questioni qui esposte come nodi da sciogliere in esegesi come in teologia, allo scopo di ricondurre la fede dei fedeli alla Parola stessa di Dio, compresa in tutta la sua forza e la sua coerenza, nonostante i condizionamenti teologici e culturali che a volte impediscono l'accesso al senso profondo della Scrittura.
La questione del fondamento storico del cristianesimo impegna Joseph Ratzinger fin dagli anni della sua formazione e del suo primo insegnamento, come appare dal suo volume Introduzione al cristianesimo (Einführung in das Christentum), pubblicato oltre quarant'anni or sono, e che ebbe all'epoca un notevole impatto sugli uditori e i lettori. Dal momento che il cristianesimo è la religione del Verbo incarnato nella storia, per la Chiesa è indispensabile stare ai fatti e agli avvenimenti reali, proprio in quanto essi contengono dei "misteri" che la teologia deve approfondire utilizzando chiavi d'interpretazione che appartengono al dominio della fede.

In questo secondo volume che tratta degli avvenimenti centrali della passione, della morte e della risurrezione di Cristo, l'autore confessa che il compito è particolarmente delicato. La sua esegesi interpreta i fatti reali in maniera analoga al trattato su "i misteri della vita di Gesù" di san Tommaso d'Aquino, "guidato dall'ermeneutica della fede, ma tenendo conto nello stesso tempo e responsabilmente della ragione storica, necessariamente contenuta in questa stessa fede" (9).
Sotto questa luce, si comprende l'interesse del Papa per l'esegesi storico-critica ch'egli ben conosce e da cui trae il meglio per approfondire gli avvenimenti dell'Ultima Cena, il significato della preghiera del Getsemani, la cronologia della passione e in particolare le tracce storiche della risurrezione.
Non manca di porre in evidenza di passaggio il difetto d'apertura di un'esegesi esercitata in modo troppo esclusivo secondo la "ragione", ma il suo principale intendimento rimane quello di far luce teologicamente sui fatti del Nuovo Testamento con l'aiuto dell'Antico Testamento e viceversa, in modo analogo ma più rigoroso rispetto all'interpretazione tipologica dei Padri della Chiesa. Il legame del cristianesimo con l'ebraismo appare rafforzato da questa esegesi che si radica nella storia di Israele ripresa nel suo orientamento verso il Cristo. Ecco allora, per esempio, che la preghiera sacerdotale di Gesù, che sembra per eccellenza una meditazione teologica, acquisisce in lui una dimensione del tutto nuova grazie alla sua interpretazione illuminata dalla tradizione ebraica dello Yom Kippur.
Un secondo nodo riguarda il messianismo di Gesù. Certi esegeti moderni hanno fatto di Gesù un rivoluzionario, un maestro di morale, un profeta escatologico, un rabbi idealista, un folle di Dio, un messia in qualche modo a immagine del suo interprete influenzato dalle ideologie dominanti.

L'esposizione di Benedetto XVI su questo punto è diffusa e ben radicata nella tradizione ebraica. Egli s'inserisce nella continuità di questa tradizione che unisce il religioso e il politico, ma sottolineando a qual punto Gesù operi la rottura tra i due domini. Gesù dichiara davanti al Sinedrio d'essere il Messia, ma non senza chiarire la natura esclusivamente religiosa del proprio messianismo. È d'altra parte per questo motivo che è condannato come blasfemo, poiché si è identificato con "il Figlio dell'uomo che viene sulle nubi del cielo". Il Papa espone con forza e chiarezza le dimensioni regale e sacerdotale di questo messianismo, il cui senso è quello d'instaurare il culto nuovo, l'adorazione in Spirito e in Verità, che coinvolge l'intera esistenza, personale e comunitaria, come un'offerta d'amore per la glorificazione di Dio nella carne. Un terzo nodo da sciogliere riguarda il senso della redenzione e il posto che vi deve o meno occupare l'espiazione dei peccati. Il Papa affronta le obiezioni moderne a questa dottrina tradizionale. Un Dio che esige una espiazione infinita non è forse un Dio crudele la cui immagine è incompatibile con la nostra concezione d'un Dio misericordioso? Come conciliare le nostre moderne mentalità sensibili all'autonomia delle persone con l'idea di un'espiazione vicaria da parte di Cristo? Questi nodi sono particolarmente difficili da sciogliere.

L'autore riprende queste domande più volte, a diversi livelli, e mostra come la misericordia e la giustizia vadano di pari passo nel quadro dell'Alleanza voluta da Dio. Un Dio che perdonasse tutto senza preoccuparsi della risposta che deve dare la sua creatura avrebbe preso sul serio l'Alleanza e soprattutto l'orribile male che avvelena la storia del mondo? Quando si guardano da vicino i testi del Nuovo Testamento, domanda l'autore, non è Dio a prendere su se stesso, nel suo Figlio crocifisso, l'esigenza d'una riparazione e d'una risposta d'amore autentico? "Dio stesso "beve il calice" di tutto ciò che è terribile e ristabilisce così il diritto mediante la grandezza del suo amore che, attraverso la sofferenza, trasforma il buio" (258-259).
Tali questioni sono poste e risolte in un senso che invita alla riflessione e in primo luogo alla conversione. Non si può infatti veder chiaro in tali questioni ultime rimanendo neutrali o a distanza. Occorre investirvi la propria libertà per scoprire il senso profondo dell'Alleanza che giustamente impegna la libertà d'ogni persona. La conclusione del Santo Padre è perentoria: "Il mistero dell'espiazione non dev'essere sacrificato a nessun razionalismo saccente" (267).

Un quarto nodo concerne il Sacerdozio di Cristo. Secondo le categorie ecclesiali del giorno d'oggi, Gesù era un laico investito d'una vocazione profetica. Non apparteneva all'aristocrazia sacerdotale del Tempio e viveva al margine di questa fondamentale istituzione del popolo d'Israele. Questo fatto ha indotto molti interpreti a considerare la figura di Gesù come del tutto estranea e senza alcun rapporto con il sacerdozio. Benedetto XVI corregge quest'interpretazione appoggiandosi saldamente sull'Epistola agli Ebrei che parla diffusamente del Sacerdozio di Cristo, e la cui dottrina ben si armonizza con la teologia di san Giovanni e di san Paolo. Il Papa risponde ampiamente alle obiezioni storiche e critiche mostrando la coerenza del sacerdozio nuovo di Gesù con il culto nuovo ch'egli è venuto a stabilire sulla terra in obbedienza alla volontà del Padre. Il commento della preghiera sacerdotale di Gesù è d'una grande profondità e conduce il lettore a pascoli che non aveva immaginato.

L'istituzione dell'Eucaristia appare in questo contesto d'una bellezza luminosa che si ripercuote sulla vita della Chiesa come suo fondamento e sua sorgente perenne di pace e di gioia. L'autore si attiene strettamente alle più approfondite analisi storiche ma dipana egli stesso delle aporie come solo un'esegesi teologica può farlo. Si giunge al termine del capitolo sull'Ultima Cena non senza emozione e restandone ammirati. Un ultimo nodo da me considerato riguarda infine la risurrezione, la sua dimensione storica ed escatologica, il suo rapporto alla corporeità e alla Chiesa. Il Santo Padre comincia senza giri di parole: "La fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti" (269).
Il Papa insorge contro le elucubrazioni esegetiche che dichiarano compatibili l'annuncio della risurrezione di Cristo e la permanenza del suo cadavere nel sepolcro. Egli esclude queste assurde teorie osservando che il sepolcro vuoto, anche se non è una prova della risurrezione, di cui nessuno è stato diretto testimone, resta un segno, un presupposto, una traccia lasciata nella storia da un evento trascendente. "Solo un avvenimento reale d'una qualità radicalmente nuova era in grado di rendere possibile l'annuncio apostolico, che non è spiegabile con speculazioni o esperienze interiori, mistiche" (305).
Secondo lui, la risurrezione di Gesù introduce una sorta di "mutazione decisiva", un "salto di qualità" che inaugura "una nuova possibilità d'essere uomo". La paradossale esperienza delle apparizioni rivela che in questa nuova dimensione dell'essere "egli non è legato alle leggi della corporeità, alle leggi dello spazio e del tempo". Gesù vive in pienezza, in un nuovo rapporto con la corporeità reale, ma è libero nei confronti dei vincoli corporei quali noi li conosciamo.

L'importanza storica della risurrezione si manifesta nella testimonianza delle prime comunità che hanno dato vita alla tradizione della domenica come segno identificativo d'appartenenza al Signore. "Per me - dice il Santo Padre - la celebrazione del Giorno del Signore, che fin dall'inizio distingue la comunità cristiana, è una delle prove più forti del fatto che in quel giorno è successa una cosa straordinaria, la scoperta del sepolcro vuoto e l'incontro con il Signore risorto" (288).
Nel capitolo sull'Ultima Cena, il Papa affermava: "Con l'Eucaristia, la Chiesa stessa è stata istituita". Qui aggiunge un'osservazione di grande portata teologica e pastorale: "Il racconto della risurrezione diviene per se stesso ecclesiologia: l'incontro con il Signore risorto è missione e dà alla Chiesa nascente la sua forma" (289). Ogni volta che noi partecipiamo all'Eucaristia domenicale andiamo all'incontro con il Risorto che torna verso di noi, nella speranza che noi rendiamo così testimonianza ch'Egli è vivente e ch'Egli ci fa vivere. Non c'è in tutto questo di che rifondare il senso della messa domenicale e della missione? Dopo aver citato questi nodi senza che mi sia possibile estendermi in modo adeguato sulla loro soluzione, mi preme concludere questa sommaria presentazione facendo un poco più spazio al significato di questa grande opera su Gesù di Nazaret.
È evidente come mediante quest'opera il successore di Pietro si dedichi al suo ministero specifico che è di confermare i suoi fratelli nella fede. Ciò che qui colpisce in sommo grado, è il modo con cui lo fa, in dialogo con gli esperti in campo esegetico, e in vista di alimentare e fortificare la relazione personale dei discepoli con il loro Maestro e Amico, oggi.

Una tal esegesi, teologica quanto al metodo, ma che include la dimensione storica, si riallaccia effettivamente al modo di interpretare dei Padri della Chiesa, senza tuttavia che l'interpretazione s'allontani dal senso letterale e dalla storia concreta per evadere in artificiose allegorie.
Grazie all'esempio che dà e ai risultati che ottiene, questo libro eserciterà una mediazione tra l'esegesi contemporanea e l'esegesi patristica, da un lato, come anche nel necessario dialogo tra esegeti, teologi e pastori, da un altro. In quest'opera vedo un grande invito al dialogo su ciò che è essenziale del cristianesimo, in un mondo in cerca di punti di riferimento, in cui le differenti tradizioni religiose faticano a trasmettere alle nuove generazioni l'eredità della saggezza religiosa dell'umanità.
Dialogo dunque all'interno della Chiesa, dialogo con le altre confessioni cristiane, dialogo con gli Ebrei il cui coinvolgimento storico in quanto popolo nella condanna a morte di Gesù viene una volta di più escluso. Dialogo infine con altre tradizioni religiose sul senso di Dio e dell'uomo che emana dalla figura di Gesù, così propizia alla pace e all'unità del genere umano.

Al termine d'una prima lettura, avendo maggiormente gustato la Verità di cui con umiltà e passione è testimone l'autore, sento il bisogno di dar seguito a questo incontro di Gesù di Nazaret sia con l'invitare altri a leggerlo che riprendendone la lettura una seconda volta come meditazione del tempo liturgico di Quaresima e di Pasqua. Credo che la Chiesa debba rendere grazie a Dio per questo libro storico, per quest'opera cerniera tra due epoche, che inaugura una nuova era dell'esegesi teologica. Questo libro avrà un effetto liberatorio per stimolare l'amore della Sacra Scrittura, per incoraggiare la lectio divina e per aiutare i preti a predicare la Parola di Dio.
Alla fine di questo rapido volo su un'opera che avvicina il lettore al vero volto di Dio in Gesù Cristo, non mi rimane che dire: Grazie, Santo Padre! Consentitemi tuttavia di aggiungere ancora un'ultima parola, una domanda, poiché un simile servizio reso alla Chiesa e al mondo nelle circostanze che si conoscono e con i condizionamenti che si possono intuire, merita più d'una parola o d'un gesto di gratitudine. Il Santo Padre tiene la mano di Gesù sulle onde burrascose e ci tende l'altra mano perché insieme noi non facciano che uno con Lui. Chi afferrerà questa mano tesa che ci trasmette le parole della Vita eterna?



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11/03/2011 21:53
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!

La memoria
Gianfranco Ravasi

Quando un popolo non ha più un senso vitale del suo passato, si spegne.

Si diventa creatori anche noi quando si ha un passato. La giovinezza dei popoli è una ricca vecchiaia. Cesare Pavese appuntava questa parole nel suo diario, Il mestiere di vivere, il 6 luglio 1939, in un periodo storico in cui il passato era celebrato dal fascismo in modo magniloquente e retorico.
È per questo che l'aggettivo fondamentale è quel «vitale» che egli assegna al ricordo collettivo. Anni prima - era il 1920 - nel libro Filologia e storia il critico Giorgio Pasquali ammoniva che «chi non ricorda, non vive».

Pavese commenta idealmente quell'asserto attribuendo alla memoria una forza «vitale» e creatrice ed è per questo che giunge fino al paradosso (ma lo è veramente?) finale: il futuro di un popolo non è tanto in una massa di giovani frementi ma scarsamente dotati di valori, di conoscenza, di eredità culturale, bensì in una vecchiaia ricca di quel mirabile patrimonio che essi e i loro padri e antenati hanno prodotto e custodito. Un pensatore illustre come Montaigne nei suoi Saggi era convinto che la memoria fosse «lo scrigno della scienza», perché non si può cominciare mai da zero, pena la dissoluzione della civiltà.

La memoria è capitale anche per la cultura in genere: noi - per usare la famosa immagine di Bernardo di Chartres - siamo nani sulle spalle di giganti, e solo per questo vediamo più lontano di loro. La memoria è alla base della fede, tant'è vero che l'appello biblico per eccellenza è: «Ascolta!... Ricorda!», e «memoriale» è chiamata la Pasqua, un evento del passato che opera ancora oggi in noi. Ed è per questo che Cristo nella cena eucaristica ripete: «Fate questo in memoria di me!».

Il passato è come una sorgente che alimenta il fiume del presente e ci spinge verso il futuro.



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11/03/2011 22:14
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!





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11/03/2011 22:16
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!





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11/03/2011 22:19
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!

QUARESIMA: tempo di C o n v e r s i o n e

«Io sono il Signore, tuo Dio ... non avrai altri dèi di fronte a me»
(Dt 5,6-7)


“Mosè" - particolare - Michelangelo Buonarroti (1513-1515) - Basilica di San Pietro in Vincoli, Città del Vaticano-Roma

«Dio è “irrazionale”, non applica la rigida norma della giustizia.
L'uomo è irrazionale nell'odio, Dio è irrazionale nell'amore:
una punizione che si espande in quattro generazioni e
un favore che si estende fino alla millesima generazione»


Il Patto che dona
la libertà all'uomo

Gianfranco Ravasi

“Al terzo mese dall'uscita dall'Egitto, la terra della schiavitù, gli Israeliti arrivarono al deserto del Sinai e si accamparono davanti al monte. Dio pronunciò allora queste parole», Il monte, la solitudine del deserto, un popolo in marcia, una voce: è in questa cornice che il libro dell'Esodo traccia la storia dell'incontro inatteso tra Dio e l'uomo. Una linea verticale (Dio e il monte) e una orizzontale (il popolo e il deserto) si incrociano proprio nel cuore della religione. La Bibbia usa il linguaggio colorito del mondo orientale: il Signore-Re sta stipulando un trattato diplomatico col suo principe, l'uomo; Dio si lega a un impegno, è il dono della libertà che continuerà a offrire all'umanità, come un giorno l'ha offerto ad Israele «facendolo uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù» (Es 20,2). E il popolo risponde col Decalogo, le dieci grandi risposte al Dio alleato, vicino e non più relegato in cieli lontani e nebulosi, separati dalle nostre ore e dai nostri giorni. La prima parola che Israele vuole vivere nella sua esistenza è la base e il sostegno di tutte le altre nove. Tra poco ascolteremo questa “parola” nella formulazione precisa del libro dell'Esodo. Ma se vogliamo già intuirne il valore, immaginiamo una costellazione i cui sette astri siano altrettanti verbi luminosi disseminati nelle pagine della Bibbia: amare (Deut 6,5), ascoltare (Deut 6,4), aderire (Deut 10,22), ricordare (Deut 8,8-9) per cui l'apostasia sarà un "dimenticare", servire (Gios 24), temere (Deut 6,2.13), seguire il Signore, marciando con bui (Deut 6,14). Nella liturgia antica l'ebreo ascoltava un interrogativo. Anche noi siamo invitati ad ascoltarlo e a rispondere. «Israele, che cosa ti chiede il Signore tuo Dio, se non che tu tema il Signore tuo Dio, che tu cammini per tutte le sue vie, che tu l'ami e serva il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l'anima?» (Deut 10,12).


La "prima Parola” - La prima, decisiva risposta dell'uomo a Dio è la fede ed è raccolta nel primo "'comandamento". Di esso la Bibbia offre tre formulazioni che sono come sfaccettature diverse d'una stessa pietra preziosa (Es 20,3-5).

La formulazione teologica: «Non avrai altri dèi di fronte a me». È la solenne dichiarazione del monoteismo. «Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo!» recita ancora l'ebreo credente.

La formulazione pastorale: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra". Israele è un popolo senza arti pittoriche o plastiche. Se vuoi cercare l'immagine più splendida e più somigliante a Dio sulla terra - dice la Bibbia - non devi ricorrere a una statua fredda o a un vitello d'oro, simbolo della forza e della fecondità (Es 32), devi invece guardare il volto di un uomo, del tuo fratello, perché «Dio creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò» (Genesi 1,27).

La formulazione liturgica: «Non ti prostrerai davanti agli Ìdoli, né li servirai». “Prostrarsi” è l'atto orientale dell'adorazione. Come nel giorno glorioso dell'ingresso nella Palestina, la terra della libertà, Israele deve sempre ripetere la sua professione di fede: «Noi vogliamo servire il Signore, perché Egli è il nostro Dio!» (Gios 24,18). Ora Israele sta identificando la fisionomia del volto di Dio. La Bibbia la disegna con due tratti espressi col pittoresco linguaggio orientale (Es 20,5-6).

La “Gelosia” di Dio: «Io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso». Dio è intransigente ed esclusivo, non tollera che la sua "eredità" più preziosa, l'uomo, gli sia alienata e passi sotto altri padroni. Dice ancora la Bibbia: «Il Signore tuo Dio è fuoco divoratore, un Dio geloso» (Deut 4,24). Ma c'è anche una sfumatura di tenerezza in questa frase: Osea, un profeta dal matrimonio in crisi, la intuirà e la annunzierà. Israele è una sposa che ha abbandonato suo marito. Ma il Signore tradito continua ad attenderla presso il focolare abbandonato. Il suo dolore non offusca la speranza del ritorno: «Ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò ancora al suo cuore» (Osea 2,16). Un'altra linea della fisionomia di Dio si rivela nel suo atteggiamento nei confronti del peccato, realtà che si snoda attorno a due poli, la mia responsabilità personale e l'influsso che il mio male esercita ramificandosi nella società. Ascoltiamo la dichiarazione di Dio: «Io punisco la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, ma dimostro il mio favore fino a mille generazioni per quelli che mi amano». Dio è “irrazionale”, non applica la rigida norma della giustizia. L'uomo è irrazionale nell'odio, Dio è irrazionale nell'amore: una punizione che si espande in quattro generazioni, un favore che si estende fino alla millesima generazione.


Un dittico esemplare di oscurità e di luce - A questo punto si pone un interrogativo molto semplice: questa prima "parola" antica, dispersa all'orizzonte di almeno tre millenni trascorsi sulla scena di questo pianeta, che significato ha per noi, oggi? È solo una pagina polverosa d'archivio o un messaggio adatto anche alla giornata che abbiamo appena iniziata? Cerchiamo di immaginare un dittico, cioè due tavole dipinte raccolte in unità da una cerniera. La prima ha tinte fosche, è la scena del rifiuto, del dio falso.

Il primo comandamento è un atto di accusa contro la moderna idolatria i cui feticci si chiamano potere, denaro, lavoro disumano, sesso, sfruttamento. Dio ci ricorda che questi "re-feticci" che adoriamo sono vuoto, nulla, cose che durano come la scia d'una nave nel mare o come nuvola che si dissolve al calore del sole (Sapienza 5,10-14).

Il primo comandamento è un atto d'accusa contro l'indifferenza in cui vive la società del benessere: Dio non è combattuto o cancellato, ma semplicemente dimenticato e ignorato. È il trionfo d'un ateismo comodo che rifiuta i grandi orizzonti, che fa abbandonare l'ansia della ricerca, l'inquietudine della coscienza per curvarsi solo su interessi limitati, per affidarsi solo a piccole e pallide lampade anziché lasciarsi guidare dallo sfolgorare del sole, come diceva S. Agostino.

Il primo comandamento è un atto d'accusa contro le immagini errate di Dio che noi ci costruiamo. Ridotto a un oggetto che possiamo manipolare secondo i nostri interessi, Dio è diventato, come scriveva Bonhöffer (un credente martire nei campi di concentramento nazisti) un “tappabuchi” o una Medusa che cambia secondo la nostra volontà. E invece, «io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, non il Dio dei morti, ma dei vivi!» (Matt 22,32). La scena di luce è tutta riassunta nella preghiera di Mosè: «Mostrami il tuo volto, o Signore!» (Es 33,18).

Il primo comandamento è un invito alla conoscenza di Dio. Il "conoscere" nella Bibbia è il verbo dell'amore sponsale: una conoscenza, quindi, fatta di intelligenza, di volontà, di passione, di sentimento e di azione. Non basta conoscere Dio, bisogna riconoscerlo, cioè amarlo. Magari anche attraverso un lungo itinerario di ricerca: anche per Israele Dio è una luce che si svela lentamente Fino alla pienezza del Cristo, “stella del mattino” (Apocalisse 2,28).

Il primo comandamento è anche un invito alla coerenza gioiosa nella vita. Perciò il culto e la fedeltà che si danno a Dio non devono essere simili alla tassa versata con amarezza al fisco di Cesare (Matt 22,21)

Il primo comandamento è un invito a scoprire dietro l'aspetto fragile e persino odioso del prossimo il profilo di Dio. Dobbiamo amare l'uomo, “immagine di Dio” e luogo dell'incontro vivo con Dio. Infatti, il Signore stesso ha così confessato al suo popolo: «Quando Israele era giovinetto io l'ho amato, io gli insegnavo a camminare tenendolo per mano, avevo cura di lui, ero per lui come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi inchinavo su di lui per dargli da mangiare» (Osea 11,1.3-4).



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12/03/2011 12:57
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!

Padre e padrone
Gianfranco Ravasi

Credo che sia meglio educare i figli facendo leva sulla comprensione e sull'indulgenza piuttosto che sul timore del castigo. Il dovere di un padre è abituare il figlio ad agire bene, spontaneamente, più che per timore degli altri. In ciò differisce il padre dal padrone.

Un sopruso dietro l'altro è la trama della vita del ragazzo sardo Gavino, in perenne umiliazione sotto il tallone di un padre padrone fino allo scontro finale che permetterà al giovane di spezzare quelle catene.
Sono molti, credo, i lettori che avranno riconosciuto in questa sintesi la vicenda del libro di Gavino Ledda, scrittore autodidatta, e il successivo intenso film dei fratelli Taviani, col titolo appunto di Padre padrone (1977). Eppure era già nel II secolo a. C. che il commediografo latino Terenzio ammoniva i genitori a educare i figli non col terrore della punizione, bensì con la convinzione e la testimonianza dei valori.

Il suo brano sopra citato può essere commentato con le parole di san Paolo agli Efesini: «Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore- Ma voi, padri, non esasperate i vostri figli, bensì fateli crescere nella disciplina e negli insegnamenti del Signore» (6, 1.4). Ecco, l'equilibrio - spesso arduo da conquistare - sta proprio qui, evitando due eccessi.
Il primo è quello dell'esasperazione, dell'eccesso di correzione, dell'autoritarismo o, peggio, della violenza in famiglia, soprattutto da parte del padre padrone. E non bisogna evocare costumi remoti e orientali per scoprire quanto questa prevaricazione vergognosa inquini e persino insanguini anche le nostre famiglie occidentali. C'è, però, un altro estremo da evitare: l'Apostolo, infatti, esorta a non esasperare i figli, ma anche a farli «crescere nella disciplina» (la paideia greca). Ai nostri giorni quanti genitori imboccano la via del permissivismo comodo a loro e ai figli, stupendosi poi quando si ottengono esiti drammatici.

In sintesi - come scriveva il poeta tedesco dell'Ottocento Wilhelm Busch - «non è difficile diventare padre; essere un padre, questo è difficile!».



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12/03/2011 13:19
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!

L'adulazione
Gianfranco Ravasi

Vedo un individuo circondato e seguito; ma occupa una posizione importante. Ne vedo un altro che tutti cercano di avvicinare; ma è in ascesa. Ecco uno abbracciato e coccolato persino dai politici; ma è ricco. Un altro è guardato con curiosità e additato da tutti; ma è colto ed eloquente. Ne scopro uno che nessuno dimentica di salutare; eppure è cattivo. Io vorrei, invece, un uomo che sia buono - e nient'altro - ma che sia ricercato da tutti!

Amara è questa rilevazione che il grande moralista francese Jean de La Bruyère registra nella sua celebre opera I caratteri (1688). Sei una persona di successo, sei in carriera, sei ricco, sei un conduttore televisivo, sei una canaglia ma furbo?
Ebbene, non ti mancherà mai il corteo degli ammiratori, pronti a stenderti davanti la passatoia rossa, a esaltare come virtù anche i tuoi vizi, a sperare in un tuo gesto d'attenzione. Sei un onesto ma poveraccio? Sta certo, avrai come compagna solo la tua coscienza e, al massimo, chi ti ama veramente. Mai, però, una folla plaudente celebrerà il tuo rigore morale.

Purtroppo questa è una legge costante e, allora, mano alla manovella dell'adulazione, ai grani d'incenso, alle lodi improbabili perché, se è vero che la piaggeria è il cibo degli stupidi ma potenti, è anche vero che risulta sempre gustosissimo. Persino Goethe, nelle sue Massime e riflessioni, si rassegnava ad affermare che «chi non ha doti deve imparare ad adulare se vuole cavarsela nel mondo».
Siamo indenni da questo difetto miserabile, solo se siamo pronti a cercare l'amicizia anche della persona semplice ma integra, solo se abbiamo dignità, solo se non mettiamo le nostre risorse umane al servizio del successo a ogni costo, solo se non abbiamo come unico metro di giudizio il nostro interesse, solo se scegliamo di lodare esclusivamente il giusto, il vero, il bene.



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12/03/2011 14:05
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!

Un'unica lingua paterna
Gianfranco Ravasi

Nessun uomo è un'isola, completo in sé. Ciascuno di noi fa parte di un continente, un pezzo di terraferma.

«Ci sono persone che parlano un momento prima di pensare». Ebbene, oggi è domenica: proviamo a ribaltare questo aforisma del moralista francese La Bruyère, autore da noi citato anche ieri.
Prima di parlare, creiamo uno spazio di silenzio e di riflessione e in quest'oasi lasciamo echeggiare le parole, per altro celebri, che sopra sono state trascritte. A proporle è un grande poeta inglese, John Donne, vissuto tra il Cinque e il Seicento, in una raccolta significativamente intitolata Devozioni.

È una meditazione spirituale sul mistero dell'uomo, «l'unico essere animale per il quale il suo stesso esistere è un problema da risolvere», come ha detto un filosofo, Erich Fromm. Ora, l'umanità è stata creata - è la Genesi (1, 27) a dircelo - come immagine divina proprio perché è maschio e femmina, cioè votata a una relazione interpersonale, a un incontro fecondo e, perciò, capace di imitare il Creatore attraverso la generazione.
Ma c'è di più. Noi apparteniamo a un orizzonte genetico comune, l'«umanità» appunto, che è il nostro «continente» di cui siamo una porzione. Invano abbiamo eretto le frontiere delle razze, delle classi, delle divisioni: noi rimaniamo tutti figli di Adamo, deboli e gloriosi al tempo stesso, capaci di infamie e di eroismi.
Ed è per questo che dobbiamo combattere la grande tentazione di isolarci, perché da soli non bastiamo a noi stessi. L'autismo spirituale e culturale è un dramma peggiore di quello psicologico e guarirlo è un'impresa ardua.

Ritorniamo, allora, a guardarci negli occhi, a estrarre non la spada del duello ma la voce del dialogo, dato che tutti abbiamo una lingua paterna comune, quella dell'unico Creatore, iscritta nelle nostre anime e coscienze.



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12/03/2011 14:54
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!

QUARESIMA: tempo di C o n v e r s i o n e

«Giunto sul luogo, disse loro:
"Pregate, per non entrare in tentazione"»

(Lc 22, 40)


“Orazione nell'orto" - Giovanni Bellini (1461) - National Gallery, Londra

«Gesù, tu hai voluto provare fino all’ultimo la ripugnanza
per la volontà del Padre, contraria alle tue attese.
Anche noi sentiamo talora questa ripugnanza.
Fa che non ci spaventiamo di questa
resistenza che sentiamo nascere dentro
»


La Via Crucis

Carlo Maria Martini

Gesù nell'orto degli ulivi - Giunsero intanto a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: "Sedetevi qui, mentre io prego". Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Gesù disse loro: "La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate". Poi, andato un po’ innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell’ora. E diceva: "Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu". Tornato indietro, li trovò addormentati e disse a Pietro: "Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole" (Marco 14,32-38).

Gesù, noi vorremmo seguirti sulla via della croce. Vogliamo entrare con te nell’orto degli ulivi, nel podere chiamato Getsèmani, per unire la nostra preghiera alla tua. Ma, come per i discepoli, ci è tanto difficile! Per essi c’è la stanchezza del giorno precedente, c’è il silenzio cupo della notte con gli oscuri presagi che lo accompagnano. Noi, soprattutto quando vogliamo vegliare un po’ più a lungo con Te, veniamo oppressi dai fantasmi che si agitano nei nostri cuori e che ci rendono la preghiera un peso.
Sentiamo una gran voglia di fuggire, di darci per vinti e di abbandonarci a distrazioni che ci tolgano da questo incubo. Non riusciamo a condividere il tuo spavento e la tua angoscia e soprattutto non riusciamo a sintonizzarci con la tua preghiera. Anche le tue parole sulla tentazione che incombe sono ricevute da noi con lo spirito ottuso e incapace di capire. Il sonno appesantisce le nostre membra e chiude il nostro cuore. Intanto Gesù, viene coinvolto in tutto il suo essere dalla grande e decisiva preghiera: Abbà, Padre! Ogni cosa ti è possibile, allontana da me questo calice! Però, non quello che io voglio, ma quello che tu vuoi.

Gesù, tu hai voluto provare fino all’ultimo la ripugnanza per la volontà del Padre, contraria alle tue attese. Anche noi sentiamo talora questa ripugnanza. Tu hai accettato di essere oppresso da una tristezza mortale. Può capitare, in certi momenti della nostra vita, di giungere fino a questo punto. Fa che non ci spaventiamo di questa resistenza che sentiamo nascere dentro. Fa che non ci arrendiamo né pensiamo che in tali frangenti è giocoforza arrendersi. È necessario stringere i denti e soprattutto confidare nella potenza dello Spirito che opera in noi. Possiamo sempre essere vittoriosi, per la forza di colui che ci ha salvati.

Gesù deposto nel sepolcro - Sopraggiunta ormai la sera, poiché era la Parascève, cioè la vigilia del sabato, Giuseppe d’Arimatèa, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anche lui il regno di Dio, andò coraggiosamente da Pilato per chiedere il corpo di Gesù. Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, lo interrogò se fosse morto da tempo. Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe. Egli allora, comprato un lenzuolo, lo calò giù dalla croce e, avvoltolo nel lenzuolo, lo depose in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare un masso contro l’entrata del sepolcro (Marco 15,42-46).

Gesù che nel buio sulla terra e nel buio del sepolcro, hai chiesto a Dio perché ti aveva abbandonato, e nel buio del sepolcro rimani in attesa della risurrezione, facci intravedere che non c’è abisso fra cui non sia possibile invocare Dio. Ricordaci che le nostre prove fisiche, spirituali e morali sono parte del tuo venerdì Santo e che tu le vivi con noi e le superi in noi. Tu che lacerato e straziato dal dolore, hai elevato un alto grido prima di morire, accogli il nostro grido, concedici di giungere all’ultimo giorno della nostra esistenza terrena con la volontà di consegnare nelle mani del Padre il nostro spirito, la nostra vita e la nostra morte. Signore della croce, aiutaci a riconquistare ogni giorno la legge del morire a noi stessi per vivere il primato assoluto di Dio, di te e del tuo Vangelo.

Il sabato santo è vissuto dai discepoli nella paura e nel timore del peggio. Il futuro sembra riservare loro sconfitte e umiliazioni crescenti. Il loro maestro è nella tomba. Maria vive una attesa fiduciosa e paziente, ella sa che le promesse di Dio si avverranno. Anche nel sabato del tempo in cui noi ci troviamo a vivere è necessario riscoprire l’importanza dell’attesa, gettare luce sul compito che ci aspetta e che ci è reso possibile dal dono dello spirito del risorto.

Signore, nel tuo dono d’amore, in te riconosciamo il verbo di Dio fatto uomo. Noi abbiamo compreso la verità, la bellezza, la forza della fede, che tu offri a ciascuno di noi e a tutti quelli della famiglia umana della società intera a cui apparteniamo, rimani con noi per sempre.



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