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Francesca Mannocchi (Presa Diretta)

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Fra poco



LA CINA DENTRO” e “LIBIA, L'ISIS DAVANTI CASA” sono un racconto di Riccardo Iacona con Sabrina Carreras e Francesca Mannocchi Rai3




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@mannocchia incontra il portavoce delle forze Rada, nasconde il suo volto per tutelare la propria incolumità




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Riccardo Iacona in studio con gli autori dei reportage di questa sera SAZI DA MORIRE e SIRIA SOS PROFUGHI 21.45 Rai3




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12/03/2016 18:40
 
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Oggi era TvTalk, in replica domani alle 9.30 su Rai Storia e alle 17.30 su Rai Scuola


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03/05/2016 09:26
 
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Inviata per La7 a Mosul [SM=x44619]



www.tgla7.it/esteri/a-mosul-contesa-tra-isis-e-curdi-dov%C3%A8-la-diga-che-ripareranno-gli-italiani-02-05-201...
[Modificato da l'acero 03/05/2016 09:27]

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m.espresso.repubblica.it/internazionale/2016/07/13/news/sirte-la-giornalista-al-fronte-con-i-soldati-anti-califfo-...

Sirte, la giornalista al fronte con i soldati anti-Califfo: "I colpi dell'Is sulla nostra auto"


Il racconto dell'inviata dal fronte caldo della città portuale sulla costa della Libia, che dopo un anno di occupazione delle truppe di Al Baghdadi ora è teatro di una battaglia estenuante tra l'esercito libico e i miliziani del Califfato
di Francesca Mannocchi
13 luglio 2016
Sono le cinque del pomeriggio, quando – come ogni giorno – l’esercito libico bombarda il centro congressi di Ouagadugou, al centro di Sirte, autoproclamata capitale dello stato islamico in Libia lo scorso anno e da due mesi sotto assedio delle truppe di Misurata.

Per i soldati al fronte i bombardamenti sono un rito che scandisce le giornate. Siamo con loro a Zafaran, zona liberata da poche settimane, di fronte ai cumuli di sabbia che dividono le zone sotto il loro controllo da quelle dove ci sono i cecchini dell’Isis. Aspettano il boato delle bombe. E quando arriva urlano Allah Akbar. Aspettano il fumo. Urlano di nuovo: “Vogliamo la Libia libera” e lo ripetono a ogni passaggio dell’aviazione. Hanno vent’anni, il fucile in mano e le ciabatte ai piedi. Così cercano di puntare i cecchini e ucciderli prima di essere uccisi, così cercano di disinnescare le bombe nascoste dai miliziani dell’Isis in ogni angolo delle case che avevano occupato. Così cercano di allontanare il timore dei colpi dei mortai.

Sono le cinque del pomeriggio quando insieme a questi ragazzi in fucile e ciabatte, subiamo l’attacco dei colpi di mortaio, ripetuti, per minuti interminabili, dalle postazioni dell’Isis di fronte a noi. Colpiscono dopo essere stati colpiti. Puntano i mortai e lanciano colpi, uno dopo l’altro. Reagiscono alla pressione psicologica dei bombardamenti, più fitti negli ultimi giorni.

L’auto del nostro traduttore, Taha, poco più di vent’anni e un fratello più grande che combatte al fronte, viene colpita in pieno. Mentre cerca di fuggire, Taha è colpito al piede destro dalle schegge. Viene trasportato immediatamente all’ospedale di Misurata, deve essere operato. L’ultima immagine che abbiamo di lui, prima di correre via è il suo corpo accucciato di fronte al cancello della brigata: trascina la gamba destra nel tentativo di proteggersi.

Accanto a lui, Omar 27 anni, il capo brigata a Zafaran. Fino a pochi minuti prima ci aveva condotto nelle zone liberate della città, mostrando con orgoglio i risultati raggiunti e descrivendo la paura di una guerra lenta e perciò più pericolosa.

I colleghi Alessio Romenzi, Gabriele Micalizzi e io siamo a dieci metri dall’auto, a dieci metri da Taha e Omar. Corriamo a ripararci al di là della strada, mentre a trenta metri da noi continuano a cadere colpi. Ci proteggiamo in attesa che uno dei soldati ci porti, fortunatamente incolumi, al primo ospedale da campo, a poche centinaia di metri, dove alla spicciolata arrivano i venti feriti nell'attacco.

Nascosti nella casa dall’altra parte della strada vediamo i soldati abbracciare i corpi dei compagni, caricarli sui pick up e correre via. Nella strada aperta, dove non erano e non eravamo al sicuro, neppure nelle auto che ci hanno portato via. Sentiamo i colpi arrivare costanti per minuti interminabili.

Ecco quello che è successo alle cinque del pomeriggio di due giorni fa. Non siamo solo stati testimoni della linea del fronte di Sirte, abbiamo condiviso con i giovani soldati libici la paura di una guerra intermittente e solo apparentemente a bassa intensità. Una guerra in un cui l’avanzata è lentissima e le attese così estenuanti da far sottovalutare la paura. I colpi dei mortai così come gli attacchi suicidi sono le incognite della lotta contro l’Isis. Su ogni fronte, in Libia, a Sirte, come in Iraq a Mosul.

Una guerra tra migliaia di giovani di Misurata in cerca di riscatto e libertà ma senza esperienza del fronte e centinaia, forse un migliaio di combattenti ancora ben equipaggiati, sicuramente ben addestrati ma soprattutto determinati a morire.

In uno degli ospedali attrezzati a Zafaran pochi minuti dopo l’attacco i medici cercano di stabilizzare i feriti. L’ospedale di Misurata, il più vicino, dista più di duecento chilometri, almeno due ore di viaggio che possono essere fatali.

Uno dei soldati sulla barella continua a fissare un punto vuoto sulla tenda, sul suo petto la ferita profonda di una scheggia. Attacchi come quello di cui siamo stati testimoni e vittime sono la vita quotidiana del fronte di Sirte.
L’offensiva per liberare la città, occupata da un anno dai miliziani di Al Baghdadi, è in corso da ormai due mesi. Sono più di 200 le vittime nelle fila delle brigate misuratine sulla linea del fronte, quasi tutti uomini molto giovani e per lo più inesperti in combattimento. Vogliono liberare la città che a Gheddafi ha dato i natali e la morte, da quelli che considerano i traditori della fede e del paese.

Al momento, il numero dei miliziani dell’Isis rimasti assediati in città è incerto: le stime vanno da quattrocento a duemila uomini, molti sarebbero feriti a causa dei bombardamenti degli ultimi giorni: l’esercito libico colpisce quotidianamente il centro congressi di Ouagadogou e le zone limitrofe, da mesi fortino dei miliziani e oggi una delle tre zone ancora sotto il loro controllo, insieme all’università e l’ospedale. Allo stesso tempo è incerto il numero dei civili costretti a rimanere in città.

Gli ultimi abitanti in fuga hanno raccontato che il gruppo dello Stato Islamico costringe i civili a restare nell’ospedale, per donare sangue ai miliziani feriti. “Stiamo perdendo i nostri giovani migliori, sono troppe le donne – madri, sorelle, spose – che stanno piangendo a Misurata in queste settimane. E’ per questo che siamo così cauti nell’avanzata. Non possiamo e non vogliamo permetterci troppe vittime innocenti.” Questo ci aveva detto Omar, 27 anni, capo brigata nella zona di Zafaran, ferito insieme al nostro traduttore.

Nella rotonda dove oggi c’è la linea del fronte, fino a poche settimane fa i miliziani dell’Isis crocifiggevano e impiccavano gli apostati, i muktaddir. “Io ho combattuto contro Gheddafi cinque anni fa, quasi tutti i soldati che vedi qui hanno partecipato alla rivoluzione, e oggi combattiamo un nemico più cinico e pericoloso. Un nemico che ci fa più paura, perché è più spietato. Non l’avremmo mai detto cinque anni fa, con tutte le nostre speranze, che ci saremmo ritrovati tutti insieme di nuovo, nella stessa città dove abbiamo ucciso il dittatore, per liberarla dai traditori della fede.”

Omar con un binocolo ci ha mostrato l’edifico dove a poche centinaia di metri sono ancora asserragliati i tiratori. “Questa guerra è fatta di cecchini, attacchi suicidi e colpi di mortaio, che arrivano inaspettati e uccidono e feriscono i nostri ragazzi.” Omar ci ha mostrato i segni dei combattimenti delle scorse settimane a Sirte. Una guerra casa per casa, che ha portato dieci giorni fa alla liberazione della strategica area 700. Da allora le forze di Misurata hanno circondato il centro congressi di Ouagadougou, e stanno pianificando, non senza contrasto tra loro, l’attacco finale al centro città.

Le milizie per la linea dura vorrebbero un attacco imminente, i più prudenti ritengono che ci sia troppa campagna e troppo spazio aperto tra la trincea e il centro congressi e che il prezzo dei soldati caduti sarebbe troppo alto. Due settimane fa in una sola giornata hanno perso la vita 37 giovani di Misurata. Non è nostra guerra, dicono tutti, eppure qualcuno deve farla. Oggi, sotto i colpi dei mortai, a farla sono migliaia di giovani libici.




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Questa settimana su L'Espresso parlo di me.
Racconto la mia storia.
Chi mi conosce un po' sa quanto io sia recalcitrante al pronome io applicato al giornalismo.
Invece oggi, dopo aver tanto raccontato il dolore degli altri, le vite degli ultimi del mondo, racconto qualcosa accaduto a me.
E come me, a molti. La scoperta di una malattia e la consapevolezza di essere fortunata e vivere in un paese in cui finora lo sforzo collettivo ha garantito un democratico accesso alle cure mediche. Democratico significa per tutti. Significa che gli uni pensano agli altri, chi ha di più contribuisce anche per chi ha di meno.

Ho imparato a vivere la malattia come una lente nuova da mettere sul mondo, una lente che mi sta insegnando a guardare meglio i dolori degli altri, in ogni parte del mondo, che non ho smesso di osservare e raccontare. Anzi.

Perché questo ci rende tutti uguali: le sofferenze, i bisogni.
E di fronte alle cose che ci rendono uguali dovremmo farci comunità. Non muri.

E quindi scusate la prima persona, che uso e dismetto con questo racconto.

Grazie a chi avrà la pazienza di leggere, ai colleghi de L'Espresso e a tutti quelli che con fatica stanno resistendo nelle quotidiane prove di democrazia e comunità come la sanità, pubblica. Per tutti.




[SM=x44607] [SM=x44608]

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